Alice Munro non ha tradito la sua letteratura - Lucy
articolo

Rosella Postorino

Alice Munro non ha tradito la sua letteratura

12 Luglio 2024

Dopo che la figlia ha rivelato di essere stata molestata dal marito della madre senza che quest’ultima facesse nulla per proteggerla, molte lettrici si sono sentite tradite. Eppure, basterebbe leggere Munro con più attenzione per accorgersi che non ha mai raccontato la giustizia, ma la debolezza e la complessità umana.

Il fatto, lo sanno tutti. Secondo la ricostruzione dei giornali, Andrea Robin Skinner, figlia di Alice Munro – scrittrice canadese premio Nobel per la Letteratura nel 2013 e morta due mesi fa –, ha pubblicato domenica scorsa un pezzo sul «Toronto Star» in cui racconta di aver subìto nel 1976, all’età di 9 anni, molestie sessuali da parte del patrigno allora cinquantenne Gerald Fremlin – secondo marito di Munro – mentre era in visita da loro. Non lo rivelò subito alla madre ma, una volta tornata a casa, lo disse al fratellastro. Finì per saperlo anche il padre, che però decise di non avvertire la ex moglie, e continuò a mandare la figlia in vacanza da lei e da quell’uomo. 

Solo nel 1992, ormai venticinquenne, Skinner scrisse una lettera alla madre per raccontarle tutto, ma lei reagì vittimizzandola ulteriormente: anziché concentrarsi sul trauma e sugli effetti che aveva generato nella figlia (disturbi alimentari, insonnia, emicrania), si concentrò su di sé. La umiliava la scoperta di essere stata l’unica a ignorare la vicenda. Mantenendo il silenzio, il marito e la figlia avevano secondo lei cospirato alle sue spalle: si sentiva tradita. Lasciò Fremlin, che in una serie di lettere si giustificò da un lato accusando Skinner – sarebbe stata lei a sedurlo – e dall’altro teorizzando che la sessualità infantile potesse svilupparsi attraverso l’interazione con gli adulti. Munro tornò poi con lui, perché lo amava, e rivendicava il diritto di non rinunciare ai propri bisogni per i figli. 

“È una storia tremenda. Il racconto di Skinner mostra una madre che non riesce a vedere il dolore della figlia, che non la protegge, e che addirittura la reputa, a un certo punto, un’avversaria”.

Nel 2002, diventata madre, Skinner vietò a Fremlin di incontrare i suoi, di figli. Così Munro, che non guidava, le disse che sarebbe stato scomodo per lei viaggiare da sola per andare a trovarli. I rapporti si interruppero. Tre anni dopo, leggendo un’intervista sul «New York Times» in cui la madre parlava in termini positivi non solo del secondo matrimonio ma anche del legame con le figlie, Skinner, indignata, decise di denunciare Fremlin. Lui ammise le proprie colpe, ma aveva ormai 80 anni e quindi, sebbene condannato per “indecent assault“, ottenne la condizionale e la libertà vigilata per due anni. Munro gli rimase accanto finché lui non morì. 

Domenica scorsa Skinner ha pubblicato quella confessione perché, stanca del silenzio con cui la sua esperienza di abuso è stata occultata persino dopo la condanna del patrigno, pretende adesso che diventi parte della biografia di sua madre. 

A scanso di equivoci, alcuni chiarimenti. 

È una storia tremenda. Il racconto di Skinner mostra una madre che non riesce a vedere il dolore della figlia, che non la protegge, e che addirittura la reputa, a un certo punto, un’avversaria. Mostra una figlia che chiede aiuto ai genitori e resta indifesa – da entrambi: anche se, come al solito, la stigmatizzazione tocca solo alla madre, i padri egoisti si tollerano meglio. Mostra la solitudine di una bambina, di una ragazza, e l’eterno perpetuarsi di certe regole omertose spesso consustanziali alle famiglie stesse, che sono il luogo in cui si è più ciechi, meno disposti non solo a guardare, ma pure a vedere ciò che è palesemente davanti agli occhi. Ad ascoltare il grido altrui. Mostra infine una dipendenza emotiva: di una femmina verso un maschio. Una donna umiliata dal compagno accetta di restare con lui malgrado tutto.

In seguito alla notizia, diverse lettrici hanno dichiarato che non leggeranno più Alice Munro o che comunque non riusciranno più a leggerla senza sentirsi deluse. Non mi sono imbattuta in nessuna dichiarazione maschile equivalente. Gli uomini che leggono Munro non si sentono traditi da lei. Le donne sì: secondo molte, Munro ha promosso con i propri libri l’emancipazione femminile e quindi, conscia dell’abuso esercitato sulla figlia da parte del marito, si è comportata in modo incoerente rispetto a quanto professasse come scrittrice. 

Io non ho mai interpretato l’opera di Munro come una promozione dell’emancipazione femminile: se fosse stata tale, con molta probabilità mi avrebbe interessata meno. Non perché non sia favorevole all’emancipazione femminile, ovviamente, ma perché nelle opere letterarie non cerco la promozione (né la professione) di idee, per quanto buone o indispensabili siano. Quelle, me le aspetto dalla politica. 

“Nelle opere letterarie non cerco la promozione (né la professione) di idee, per quanto buone o indispensabili siano. Quelle, me le aspetto dalla politica”.

Nelle opere letterarie cerco la rappresentazione di ciò che l’umano può essere, senza giudizio. Dovrebbe essere banale ripeterlo, tanto che quasi mi imbarazza farlo. Ma a quanto pare non lo è, o non lo è più. 

Chi vede i racconti di Munro come una promozione dell’emancipazione femminile tende a ridurli, o proietta sulle sue pagine la propria personale visione. Non dico che non sia lecito: l’opera – una volta pubblicata – è di chi la legge, ma la sua eventuale “semplificazione” da parte dei lettori non può diventare responsabilità di chi l’ha scritta.

Perdonatemi se metto in mezzo me stessa, in questo discorso che riguarda una scrittrice enorme e riconosciuta dal più importante premio letterario internazionale, con la quale io non c’entro nulla. Mi assumo il rischio di farlo, pur di spiegarmi meglio. 

Quando la gente dice che Mi limitavo ad amare te racconta l’amore che vince sulla morte, a me viene da sbattere la testa al muro. Non credo affatto che l’amore vinca sulla morte: che cosa significherebbe, poi, concretamente? Io sono indignata con la Natura, con Dio, o con chi per loro, perché la morte esiste e tutti siamo costretti ad accettare la caducità – inaccettabile – di chi amiamo. Se gli esseri umani muoiono in guerra, non vince l’amore. Se ci sono oggi 56 conflitti attivi nel mondo, non ha vinto l’amore. 

Il punto è che i romanzi e i racconti non hanno un messaggio da comunicare, tantomeno univoco e inequivocabile. Quando la gente dice che Le assaggiatrici racconta il modo in cui le donne vengono sfruttate nella società, io penso che rischiare di essere avvelenate mangiando cibo succulento, sedute al riparo di una caserma, mentre il resto della popolazione muore di fame, non è tanto peggio dell’essere spediti al fronte, com’è capitato nei secoli dei secoli ai maschi, obbligati – in quanto maschi – a uccidere e a poter essere uccisi, e a essere, da superstiti, per sempre segnati dall’esperienza traumatica della guerra.

Sono piuttosto persuasa che Alice Munro, come me, aspirasse all’emancipazione femminile – e pure a essere una buona madre, anziché una madre biasimevole. Tuttavia, nessuno di noi è costantemente all’altezza delle proprie aspirazioni. Credo con tutta me stessa alla visione di Karl Jaspers secondo cui la vita è degna solo se è tale per tutti, ma quanto tempo delle mie giornate passo a cercare di rendere degna la vita altrui? Direte: che cosa c’entra? Non si tratta di partire con Medici senza frontiere. Skinner era sua figlia e Munro l’ha abbandonata. È vero. Ma questo non rende “incoerente” la sua opera. 

Ho fatto un esperimento, ho ripreso in mano Chi ti credi di essere? perché, nella mia personale infondata proiezione di lettrice, quello sarebbe il libro più autobiografico di Munro – forse perché racconta lo sforzo di «liberarsi dalla condizione in cui si è» (cito Marguerite Duras) che anche l’autrice ha fatto, considerando le sue origini. Quello sforzo è stato al centro della mia vita e riguarda quasi tutti i miei personaggi letterari. 

“Il punto è che i romanzi e i racconti non hanno un messaggio da comunicare, tantomeno univoco e inequivocabile”.

Ho aperto le pagine a caso, per rileggere le frasi che avevo sottolineato a matita. Eccone alcune, nella traduzione di Susanna Basso:

“[…] che certe cose succedono davvero, che non c’è nulla che non possa accadere, che anche la più atroce assurdità ha ragione di esistere, e sentimenti dai quali dipendere” [rileggendo annoto: sentimenti dai quali dipendere. Rose, la protagonista, dice questo a proposito dell’omicidio, e il pensiero le viene mentre il padre la picchia].

“[…] è il tradimento, l’altra faccia del quotidiano”.

“[…] si rifiutavano di considerare l’effetto afrodisiaco della ripugnanza”.

“Era proprio l’amore a darle il voltastomaco. L’asservimento, la mortificazione di sé, l’autoinganno”. [Annoto: che cosa può essere l’amore].

“[…] quel castello violento di errori ed equivoci, che per chiunque sarebbe stato meglio demolire una volta per tutte, rappresentava il tessuto vero della vita, di un padre e di una madre, di un’origine e di un riparo”.

” – Questa sì che è una visione romantica, – disse Rose risoluta e invidiosa. – Il fatto che uno possa passarla liscia solo perché ha talento.
– Tu credi? Ma vale per tutti i grandi artisti da sempre.
– Meno le donne”.

Su quest’ultimo scambio di battute, credo di potermi fermare.

I personaggi di Munro sono spesso meschini. Incapaci di fare la cosa giusta. Vili. Schiacciati e non necessariamente ribelli. Manipolabili o manipolati. Vogliono salvare le apparenze. Sono donne che si sentono umiliate dagli uomini, eppure non sempre li allontanano. Nei sogni, le madri abbandonano le figlie fuori, sulla neve, esposte alle intemperie, come bambole di cui si sono stancate, per una settimana, un mese, un’intera stagione, o per anni: distratte da altro, se ne dimenticano. 

Io leggo Alice Munro anche per questo sogno di una madre, per questo fantasma dell’abbandono che ci riguarda tutti – il fantasma dell’abbandonare e dell’essere abbandonati, dell’amore che si macchia spesso di violenza, non per forza fisica; il fantasma di tutte le nostre omissioni, non soltanto dei nostri peccati. Non leggo Munro, né chiunque altro, per sentire che chi scrive un capolavoro è nel giusto, né per sentirmi nel giusto io che lo leggo. Non ho mai domandato questo alla letteratura. Chi sa per certo che in una situazione mai vissuta si sarebbe comportato in maniera irreprensibile, con coraggio e senso di giustizia, non è detto riesca davvero a provare compassione per gli altri, per la loro miseria innegabilmente umana. Chi cerca una verità unica e incontrovertibile è per me soggetto a un pensiero che può definirsi “totalitario”. 

La letteratura riesce a fare del bene – anche se non è il suo scopo, né il suo compito – esattamente perché rifiuta il pensiero totalitario. I romanzi e i racconti mettono in scena personaggi differenti che portano ciascuno le proprie differenti ragioni, e quando la scrittura ci fa stare nella loro pelle, quando avvertiamo il loro dolore, la loro paura, l’angoscia, per quanto assurde, quelle ragioni smettono di esserci aliene.

Non si tratta di giustificare Alice Munro in virtù del suo talento. Non si tratta di giustificare nessun artista in generale. Non si tratta nemmeno di condonare l’azione bieca di un singolo perché nell’umanità il male è latente. Si tratta di non attribuire a Munro e a qualunque altro scrittore determinate qualità, che lei o lui non hanno rivendicato come proprie, solo perché leggendoli li abbiamo amati e li abbiamo creduti migliori di quel che erano. Si tratta di non additare di incoerenza l’opera di Munro: basta leggerla con attenzione e senza pregiudizi per accorgersi che è piena di pietas, non di giustizia.

“Non si tratta di giustificare nessun artista. Si tratta di non attribuire a Munro e a qualunque altro scrittore determinate qualità, che non hanno rivendicato come proprie, solo perché leggendoli li abbiamo amati e li abbiamo creduti migliori di quel che erano”.

Di fronte alla voragine che si è aperta nella sua esistenza, al tradimento che ha inflitto e subìto, all’inaccettabile debolezza di Munro, di fronte allo scandalo tenuto segreto, come in una famiglia piccoloborghese qualunque, come in un qualunque ambiente in cui gli individui coinvolti non dispongano di adeguati strumenti culturali, come una donna nata all’inizio degli anni Trenta che non è stata capace – a dispetto della propria consapevolezza – di opporsi alle manipolazioni del maschile, di fronte a tutto questo io non capisco come si possa scegliere di accantonare Munro anziché aver voglia di rileggerla. 

Ho detto che non sapremo mai la verità su questa storia, ma non perché non creda alle parole e alla sofferenza di Skinner (d’altronde, c’è un’ammissione di colpevolezza da parte di Fremlin, il fatto non è in discussione!), ma perché Munro è morta e non può più parlare, e anche se fosse viva, e lucida, che cosa riuscirebbe davvero a dire? Chi di noi saprebbe dire la verità su sé stesso, neanche bastasse una lunga, lineare confessione? A me pare che solo a sprazzi capiamo cose su di noi e sugli altri, come se una torcia illuminasse a intermittenza una porzione del mondo lasciandone necessariamente in ombra altre. La fatica che facciamo per capire e per capirci è madornale, eppure ci sentiamo sempre sguarniti, sulle relazioni umane, pressoché analfabeti.

Ecco perché io credo solo alle verità della letteratura, che non sono mai uniche e incontrovertibili – sono contraddittorie, non negano l’ambivalenza. A quelle verità, lo scrittore stesso arriva proprio malgrado. Ci si avvicina per epifania, per una forma di intelligenza che lo trascende e si produce solo lì: nella fortuita e miracolosa combinazione delle parole. 

Rosella Postorino

Rosella Postorino è editor e scrittrice. Il suo ultimo romanzo è Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli, 2023).

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