Davide Piacenza
04 Novembre 2024
Una piccola indagine fra gli americani che vivono lontani dalle grandi città.
In America di politica non si parla. Chi può, si trincera dietro commenti sul tempo, sulle condizioni della strada, su qualche evento in corso in città, per poi voltarsi e cambiare rapidamente discorso. Delle decine di americani con cui ho parlato nei diciotto giorni in viaggio tra California, Arizona, Utah e Nevada, la maggior parte è stata attirata dalla targa della mia automobile a noleggio, una Chevrolet Malibu bianca immatricolata in New Jersey: “Sir, are you from New Jersey?”, mi ha chiesto con accentuata cortesia un biker seduto in posa plastica sul tavolino posto davanti a uno sperduto negozio di souvenir di Truxton, un agglomerato di case sparse sulla leggendaria Route 66 della corsa a Ovest. Ripetendo la mia risposta – “Ah, Italy!” –, sembrava deluso, come se la mia provenienza non fosse esotica e lontana quanto quella di un ricco abitante della costa Est, di quelli che mangiano organic food, lavorano in qualche posto chic di Manhattan, votano Democratico e guardano dall’alto in basso le persone come lui.
Possibile che sia stata soltanto una mia impressione, certo, ma in molti dei confronti con gli abitanti di quello che un tempo chiamavamo Far West ho letto i malanni di un popolo sempre giovane e diffidente, forse stremato e sicuramente impaurito dalla sua stessa rabbia. Negli Stati Uniti, che hanno fatto della libertà di espressione un caposaldo costituzionale e una direzione di azione sociale, con gli americani che tappezzano i loro cortili, le loro radure e i loro bordi stradali scalcinati di yard signs per questo o quel candidato (ogni incrocio cittadino è una parata di nomi in grassetto, ritratti in posa, stellette, perché il 5 novembre si vota anche per eleggere candidati municipali e distretti scolastici), la politica è diventata un affare per i pochi che sono in grado di tollerarne l’attuale portato di divisioni, veemenza falsificatoria e scontri fratricidi. I più vecchi definirebbero il tutto un-American, cioè anti-americano – la scomunica delle scomuniche – ma gli Stati Uniti di Donald Trump e Kamala Harris non sono poi così American, a guardarli da vicino.
April è una signora di sessant’anni gioviale e con una coda di capelli grigi che ho visto scendere dal suo pickup nel parcheggio di un fast-food di Kingman, in Arizona, al crocevia con Utah, Nevada e California. Si è avvicinata perché, beh, ha visto una targa del New Jersey. Chiarito il malinteso e parlato di quant’è bella la lontanissima Italia, con uno scatto involontario rifinisco lì, alla mia fissazione da giornalista in trasferta. “Oh, beh, a dire il vero sto proprio andando al seggio a votare Trump”, confessa con un sorriso da bambina divertita. La guardo, e il pensiero stupido che si affaccia è: beh, però, non mi sembrava una trumpiana. È così gentile, così misurata – e per di più donna. E però trumpiana lo è eccome, April, e nei cinque o sei minuti successivi ripete a menadito la propaganda dei Repubblicani sullo stolen vote (“preferisco andare ai seggi di persona, non mi fido”), sul border (“Harris non ha nessuna esperienza coi migranti, non è mai stata al confine, farà disastri”) e sull’immagine internazionale degli Stati Uniti (“con Biden ci ridono dietro tutti, non è vero?”). Così come si potrebbe professare tale, verosimilmente, la trentenne dietro il bancone di un diner di Williams, più su verso il Grand Canyon, che nel suo locale espone un cartello che dice senza alcuna ironia “le armi sono ben accette in questa proprietà”. Quando le parlo dell’insolito (per me) avviso la risolve con una battuta ironica ma sincera: se in Europa le armi le vietano, si può pur sempre trasferirsi in Arizona e riscoprire l’ebbrezza della gun ownership. Le vorrei rispondere che non c’è un luogo dove mi senta meno libero di quelli popolati da persone che hanno pistole cariche nelle fondine, ma non sono quel tipo di cowboy che si mette a discutere nei diner.
“In America di politica non si parla. Chi può, si trincera dietro commenti sul tempo, sulle condizioni della strada, su qualche evento in corso in città, per poi voltarsi e cambiare rapidamente discorso”.
April invece mi ha detto che voterà Trump perché è l’unico che ha fatto qualcosa per le sue condizioni economiche: una frase che mi sentirò ripetere diverse altre volte, troppe per poterle ignorare; la pronunceranno pescatori sudamericani di Venice, giovani meccanici di paesini dello Utah con pettinature che prima di allora sono certo di aver visto soltanto in film americani minori degli anni Ottanta, ottuagenarie imprenditrici della ristorazione di origine napoletana che hanno fatto fortuna nel Dopoguerra a San Francisco, e persino tassisti pakistani di Oakland, la città-satellite di stampo operaio della Bay Area. Non so se è un’allucinazione collettiva, ma se anche lo fosse non sembra destinata a passare tanto presto.
Come April, moltissime altre persone in Arizona sono andate a votare Trump con gli early o absentee ballots, i sistemi messi a disposizione dagli Stati perché ai cittadini sia concesso di esprimere la propria preferenza in anticipo, per posta o di persona. I seguaci di quello stesso politico che da anni demonizza il voto per corrispondenza, a cui ha attribuito nientemeno che la falsificazione delle ultime elezioni presidenziali, stanno correndo a votarlo con francobolli e affrancature. Forse basterebbe questo a rendere le dimensioni del fenomeno Trump, che è riuscito a spazzare via la tradizione comunitaria del partito Repubblicano (le primarie partecipate, le usanze locali collettive) sostituendola con un’altra forma di comunità basata su sentimenti e idee molto diversi. Secondo il «New York Times», i pattern di voto dell’Arizona dei giorni precedenti l’Election Day riportano lo Stato nell’alveo della sua tradizione Repubblicana, quella che solo Bill Clinton e Joe Biden hanno saputo scardinare negli ultimi trent’anni.
Non significa che a vincere sarà Trump, ça va sans dire: nessuno sa chi vincerà, a iniziare da Trump stesso, nonostante lui e il vice J. D. Vance trasmettano a reti unificate l’immagine di una vittoria inarrestabile, di una landslide sostenuta dall’entusiasmo del popolo, galvanizzando un elettorato che non ammette un possibile sorpasso degli avversari. La campagna di Kamala Harris, in realtà, inizia a essere cautamente ottimista sulle possibilità di battere di misura il tycoon, complice una serie di scivoloni di quest’ultimo che paiono davvero gli errori frettolosi del bambino già convinto di mettere le mani sulle caramelle (uno su tutti: perché mai un candidato in netta ripresa tra i latinoamericani dovrebbe invitare a un comizio a una settimana dal voto un comico che chiama Porto Rico “un’isola galleggiante di spazzatura”? Mistero). La bolla di San Francisco, quella delle strade di Castro punteggiate di bandiere Lgbt+ e dei bagni all gender che si aprono nei locali BoBo di Haight Ashbury, sembra la cornice perfetta in cui tirare un sospiro di sollievo: nei quartieri residenziali di Pacific Heights ci sono scheletri di Halloween che reggono yard signs che invitano a votare Harris “come se ci fossero in ballo i diritti delle tue figlie” (un punto su cui i Democratici stanno giustamente insistendo, e che in effetti potrebbe rivelarsi decisivo il 5 novembre), e in città la destra è vista più che altro come un fastidioso rumore di fondo. Ma tutte le bolle sono fatte per scoppiare, e anche quelle delle metropoli costiere sembrano reggersi su equilibri precari: nella stessa megalopoli da otto milioni di abitanti che ha esportato nel mondo i termini-totem “inclusione” e “resilienza”, decine di migliaia di spiantati vivono per le strade, letteralmente; strade sporche di feci umane, disseminate di tende, tele cerate e altri ripari di fortuna da cui escono esseri umani ridotti a zombie; tantissimi volti segnati – più di quanti se ne vedono nella sterminata downtown di Los Angeles – che quando non parlano fra sé urlano insulti al primo che passa. Tra di loro, tanti homeless hanno la schiena piegata e l’andatura a scatti che è fra le conseguenze riconoscibili del Fentanyl, la droga alla base di una delle più gravi emergenze sanitarie della storia degli Stati Uniti. “Eppure le siringhe in California gliele compra lo stato”, mi spiega Marco, cameriere in un locale di Russian Hill, che aggiunge: “Mi piace l’approccio liberal che hanno qui, ma ogni tanto mi sembra forzato, vuoto, a volte anche controproducente”.
Non è l’unico a pensarlo: un fortunato articolo dell’«Atlantic» del 2022, titolato “Come San Francisco è diventata una città fallita”, dà una lettura precisa e illuminante dei modi in cui la dottrina iper-progressista della Bay ha danneggiato coloro che sostiene di voler proteggere (a partire dagli stessi senzatetto, che finiscono a morire di overdose col beneplacito istituzionale su marciapiedi a due passi da quartieri posh con case in vendita a partire da cinque milioni di dollari). “E a San Francisco noi ci congratuliamo con noi stessi per essere cosí aperti e tolleranti di queste scelte di vita”, scrive l’autrice Nellie Bowles.
Non sempre, però, quello che a noi ceto medio più e meno riflessivo appare una “scelta” lo è davvero, e su questo versante viene il sospetto che un’allevatrice di un paesino dell’Arizona o un meccanico della provincia dello Utah sappiano più cose del più aggiornato, gentrificato e inclusivo dei liberal della costa.
Il mondo europeo in cui viviamo ha diverse falle, ma è negli Stati Uniti d’America che si vede la linea di galleggiamento dello scafo che imbarca acqua e i passeggeri che urlano dal terrore. Solo che, invece di unirsi per trovare una soluzione, da tempo sulla barca ci si divide per contendersi le scialuppe di salvataggio, o anche soltanto circa l’ipotesi di calarle in acqua. La fine adatta a un Paese talvolta grottescamente individualista, dirà qualcuno. Ma è pur sempre il posto delle promesse, della mitopoiesi delle grandi occasioni, delle terre, percorse dai rotolacampo e battute dal vento e dal sole, di cui non si vede la fine. La terra che ha colpito l’immaginazione e il cuore di pionieri disperati in fuga dalla polvere e dei religiosi che hanno visto nei rami delle yucca del Mojave le braccia del profeta Giosuè che indicavano la Terra Promessa. Ed è un luogo che in fondo, anche da polarizzato, diviso e arrabbiato, almeno una scelta la può ancora prendere : quella su chi lo guiderà nei prossimi quattro anni, segnando una nuova fase storica. Secondo William, il custode proveniente dalle isole Fiji di un motel nella città costiera di Monterey, in California, “alla gente comune non interessa chi vincerà: conta cosa farà il nuovo presidente eletto”. Per lui e la moglie Josefa, che mi parlano a due passi da una di quelle piscinette californiane, le persone normali non hanno voglia di parlare di Trump e Harris: “Ai lavoratori importa quante tasse pagheranno o come potranno vivere, non quello che i politici scriveranno su Twitter”.
“Il mondo europeo in cui viviamo ha diverse falle, ma è negli Stati Uniti d’America che si vede la linea di galleggiamento dello scafo che imbarca acqua e i passeggeri che urlano dal terrore”.
Uno scambio istruttivo, ma non quanto l’incontro fortuito avuto pochi chilometri più a sud, nella cittadina ultra-ricca di Carmel-By-the-Sea, scrigno per pensionati abbienti alle porte del Big Sur. Ne ho percorso i viali occupati da file di gallerie d’arte e negozi d’artigianato, sono entrato nella biblioteca civica cercando di parlare di libri censurati dai Repubblicani (ma le due addette presenti mi hanno ricordato che non possono affrontare temi “afferrenti a temi politici e religiosi” quando sono in servizio, e io ho chiesto scusa e me ne sono tornato a leggere il «Times»), poi ho virato nelle vie interne, più residenziali, quelle che degradano verso l’oceano Pacifico. In una di esse stazionavano Suv della polizia con la sirena accesa, troupe con le videocamere sui treppiedi e il riconoscibile nastro giallo della crime scene a chiudere una parte del viale, oltre al quale si stava riunendo qualche curioso. Due ore prima, in quell’angolo di mondo upper class e apparentemente immacolato, un 27enne locale, James Marshall, aveva avuto un “esaurimento nervoso” (così dirà sua madre) ed era uscito di casa con un fucile d’assalto e un giubbotto antiproiettile. Era entrato nella villa dei vicini, li aveva minacciati. La polizia, intervenuta prontamente, gli aveva parlato per un po’, e poi gli aveva sparato, mandandolo all’ospedale. Quando sono passato di lì, in quel luogo che non avrebbe fatto paura a nessun turista – giorni prima mi era capitato di trovarmi per poco dopo il tramonto nelle Alphabet Streets di Las Vegas e nella periferia assolata della South Bay di Los Angeles: e lì sì che avevo i muscoli tesi – ho fatto una foto alle villette circostanti e ho proseguito verso la spiaggia. I cartelli “Harris-Walz” adornavano cortili impeccabili, illuminati dai colori sgargianti dei garofani, dei lotus e delle creste di gallo. Solo a tarda sera ho letto che James Marshall era morto. . Ma di controllare una volta per tutte la diffusione delle armi, in questo malandato Paese non si parla più: e d’altronde per farlo bisognerebbe iniziare parlando di politica, il che non piace quasi a nessuno.
Davide Piacenza
Davide Piacenza è giornalista e collabora a diverse testate. Il suo ultimo ultimo libro, che riprende temi della sua newsletter settimanale “Culture Wars”, si intitola La correzione del mondo (Einaudi, 2023).
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