Lorenzo Gramatica
Il regista greco, in concorso nella sezione Orizzonti, firma un film convincente, tra satira e dramma familiare, sulla stupidità burocratica e sulle politiche di accoglienza dei rifugiati.
Al Lido di Venezia fa un caldo insopportabile, anche se «Libero» da anni ci dice che è tutto normale, che gli inverni sono sempre stati roventi, che a settembre in Italia è tradizione cuocere le uova sui marciapiedi, fondersi con l’asfalto, esibirsi in pubblico come torce umane, sudare al punto da meditare di buttarsi in acqua per rimanerci a tempo indeterminato, tornare pesci – regredire per sopravvivere. Sarà, magari ha sempre fatto caldo, però mai come quest’anno si ringrazia per l’aria condizionata in sala, qualunque sia la proiezione, basta che si respiri.
L’unica sala dove dove fa un po’ meno freschino è il PalaBiennale, che un vecchio critico cinematografico e teatrale chiamava con sorriso perfido “PalaPopopolino”, perché è qui che avvengono le proiezioni per i non addetti ai lavori. Invece, con buona pace del vecchio critico, questa è una delle sale più vivaci e divertenti, con un pubblico di appassionati partecipe, che fischia, applaude, commenta con energia alla fine del film, spesso in capannelli improvvisati e destinati a disperdersi appena finita la discussione.
Fa caldo, ma si vede un buon film almeno: Quiet Life del regista greco Alexandros Avranas, che qui a Venezia, undici anni fa, vinse a sorpresa il Leone d’Argento con la sua opera seconda, Miss Violence, crudele e riuscito dramma familiare.
Avranas, con Lanthimos e Athina Rachel Tsangari, diventa così esponente di punta della Greek Weird Wave, una generazione di registi che prometteva belle cose e molti buoni film. Se Lanthimos ha di certo confermato il suo enorme talento, Tsangari è quest’anno in concorso a Venezia81 con Harvest, film di cui si dice un gran bene, a sentire chi l’ha visto e voci di corridoio varie. Avranas è invece in concorso, ma in Orizzonti, a dimostrazione della volontà di Alberto Barbera di mischiare le carte, distribuendo opere di buona fattura anche fuori dalla selezione principale.
Nella prima scena di Quiet Life, due bambine, vestite da cerimonia, con la camicetta e la gonna, si mettono in posa come davanti all’obiettivo di un fotografo; poco dopo le raggiungono i genitori. Sono tesi, impacciati, il loro abbraccio è innaturale, qualcosa stona. Non stanno posando per una foto, ma accogliendo un uomo e una donna. I due ospiti girano per casa, guardano in giro, valutano la pulizia delle stanze, sollevano il coperchio delle pentole (“Sembra delizioso”). Quando se ne vanno, si rimane un po’ spaesati. Chi sono? Che vogliono? Le bambine giocano sul divano, alle loro spalle una cartina dell’Europa.
Poco dopo capiamo: sono due funzionari dell’ufficio immigrazioni in visita all’abitazione temporanea concessa a una famiglia di migranti. Sergei, Natalia e le loro due figlie, Alina, la maggiore, e Katja, la più piccola, sono fuggiti dalla Russia per chiedere asilo politico in Svezia, dove si svolge la vicenda. Se fossero rimasti in Russia, la loro sopravvivenza sarebbe stata a rischio, dopo l’aggressione subita da Sergei, insegnante colpevole di avere letto ai suoi studenti testi di autori proibiti. Per questa ragione, è stato accoltellato da membri della FSB (il Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa) davanti alla figlia piccola.
Il giorno prima del responso dell’ufficio immigrazioni, sono ottimisti sull’esito della loro pratica, le bambine già immaginano di prendere nomi svedesi (“Potrei farmi chiamare Astrid”).
In questo purgatorio speranzoso, le bambine vanno a scuola, cantano, nuotano, e i genitori lavorano. Sembra una vita normale, tranquilla, anche se provvisoria, fragile.
Ma non va bene. In una sala asettica, burocrati solerti e inespressivi comunicano che il permesso di rimanere non è stato accordato: non ci sono abbastanza prove dell’aggressione, né testimoni, a parte la figlia piccola. Non importa se Sergei reca una enorme cicatrice da arma da taglio sotto il costato – a Gesù era bastato, ma in Svezia forse anche per lui sarebbe stato difficile essere creduto. Verranno espulsi, a meno che entro dieci giorni non forniscano nuove prove.
Intanto Katja, la più piccola e la più traumatizzata, sviene a scuola ed entra in coma. Lo stress e il trauma subito, la tristezza, la tensione che regna in famiglia ne sono, evidentemente, la causa.
Si chiama “Sindrome della rassegnazione infantile” e solo dal 2014 – come i titoli di coda ci spiegano – è riconosciuta come malattia. La sindrome è ancora misteriosa: i sintomi sono passività, apatia e, nei casi più gravi appunto, il coma. Singolare ma significativo poi come colpisca solo i bambini rifugiati e solo in Svezia.
Katja viene portata in ospedale e intanto l’angoscia per la famiglia aumenta: si deve trovare un modo per rimanere in Svezia, col cuore gravato dalle condizioni della figlia e intanto lavorare, mantenere il buonumore, salvare le apparenze.
“La ‘Sindrome della rassegnazione infantile’ è ancora misteriosa: comporta passività, apatia e, nei casi più gravi, il coma. Singolare ma significativo poi che colpisca solo i bambini rifugiati e solo in Svezia”.
Le pediatre – bionde gelide e protocollari – e il personale dell’ospedale immacolato e circondato dagli alberi, fanno corsi ai genitori per ristabilire un clima sereno che sia di giovamento alla figlia in coma: negare i problemi, non parlare del passato, sorridere sempre, con tanto di tutorial per tendere le labbra in modo convincente.
I funzionari dell’ufficio immigrazione, ottusi come solo i burocrati sanno essere, rendono le cose difficili. Un clima di indifferenza e di sospetto circonda Natalia e Sergei. Un’infermiera montenegrina, che ha un figlio malato e che è riuscita a ottenere la cittadinanza, è di conforto e d’aiuto, ci è già passata.
Sergei, che è nervoso perché disperato all’idea di dover tornare in Russia, ha un’idea per rimanere in Svezia che si rivelerà terribile, peggiorando le cose in un modo che sarebbe un peccato svelare, anche solo in parte, qui.
Avranas non è però un sadico: non gode delle sofferenze dei suoi personaggi, ma nemmeno prende smaccatamente le loro parti.
Il regista immortala questo dramma familiare con perfetto e geometrico senso dell’inquadratura, dosando bene i tempi narrativi, con uno stile di regia sornione e una distanza dalla vicenda raccontata che è solo apparente, ed è funzionale al susseguirsi di sfortune, drammi, crudeltà varie. Si teme il peggio e il peggio, quasi sempre, arriva. Allo stesso tempo, il regista riesce a mettere in scena una convincente satira della stupidità burocratica, delle perfettibili politiche di accoglienza dei migranti e dei rifugiati, dello svilimento a fatti, prove, dati delle storie di questi uomini e donne e bambini che cercano in Europa un rifugio sicuro e un nuovo inizio.
Quando sembra non esserci più speranza, il tono del film si fa più disteso: Sergei e Natalia trovano un modo di abitare il dramma e di essere vicine alle figlie, tornano ad essere una famiglia. L’aiuto dell’infermiera montenegrina e di una anziana signora è di conforto, anche allo spettatore.
“Il regista immortala questo dramma familiare con perfetto e geometrico senso dell’inquadratura, dosando bene i tempi narrativi, con uno stile di regia sornione e una distanza dalla vicenda raccontata che è solo apparente”.
Le cose migliorano quando Natalia e Sergei smettono di voler compiacere le autorità svedesi, quando scendono dalla ruota della burocrazia su cui, come criceti, erano obbligati a correre nella speranza di ricevere in cambio l’agognato diritto di soggiorno.
La Sindrome della rassegnazione infantile, su cui i titoli di coda come detto si soffermano, sembra svilupparsi solo in contesti dove la serenità familiare manca.
La Quiet Life che dà il titolo al film è però inaccessibile a queste famiglie in fuga che arrivano in Europa. Come possono questi genitori garantire protezione ai loro figli? A maggior ragione poi se i Paesi che dovrebbero accoglierli non riescono a farlo.
Questa è la domanda che Avranas pone agli spettatori che, senza avere risposte e forse con più indignazione che volontà di spendersi per questa causa in prima persona, applaudono convinti mentre lasciano il PalaBiennale, offrendo gli occhi al sole accecante del Lido.
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