Biosfere - Lucy
racconto

Chi Ta-wei

Biosfere

Il racconto di un mondo fantastico, dove ciò che scintilla in superficie nasconde in pancia quelle stesse ingiustizie che attraversano la nostra realtà.

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Biosfere

INTRODUZIONE di Ilaria Benini

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La Grande Migrazione era uno dei ricordi più amari della generazione dell’Alchimista. Quando i raggi del sole avevano iniziato a filtrare dal buco dell’ozono, irraggiando la superficie terrestre di radiazioni ultraviolette, la popolazione era fuggita in massa verso gli oceani. Soltanto pochi fortunati avevano davvero raggiunto i fondali, dove avevano stabilito delle colonie che si erano estese come la rete della metropolitana, fino a diventare delle vere e proprie città. A quel punto, però, erano iniziate le epidemie: l’atmosfera chiusa dei fondali era il paradiso dei virus.

Noi che negli oceani ci eravamo nati ci ponemmo quindi l’obiettivo di tornare in superficie, per preservare la scintilla della civiltà umana. Le colonie ricominciarono a costruire sopra il livello del mare badando bene, stavolta, che gli insediamenti fossero separati l’uno dall’altro. Sarebbero state tante biosfere indipendenti. Avevamo imparato fin troppo bene che le uova non vanno messe tutte nello stesso paniere. In questo modo, se un virus ne avesse spazzata via una, le altre sarebbero sopravvissute a distanza di sicurezza.

Accompagnavo io il discepolo Taotao sull’Arca. Partire non era per tutti; l’Alchimista e la moglie sarebbero rimasti sui fondali, perché quest’ultima non aveva superato la visita medica necessaria per imbarcarsi. L’Alchimista sì, ma aveva scelto di rimanerle accanto.

Mentre aspettavamo che l’Arca mollasse gli ormeggi, Taotao non aveva lasciato un attimo l’Alchimista. Era agitatissimo: se non possiamo imbarcarci insieme, diceva, tanto vale che resti qui anch’io. Sospettavo da tempo che ci fosse qualcosa di ambiguo nel loro rapporto, ma non avevo prove. Nonostante la sua sopravvivenza fosse strettamente legata alla mia, il Discepolo non si confidava mai con me.

“Prima voi” disse l’Alchimista, come se l’Arca fosse un ascensore che avrebbe potuto chiamare per raggiungerci un attimo dopo. Ci spiegò che la moglie era il suo altare dei ricordi, non se la sentiva di lasciarla. Indubbiamente lei, che alla biblioteca sottomarina aveva dedicato metà della sua vita, era una custode della memoria. I suoi archivi erano stati fondamentali per studiare l’ecosistema della vecchia Taiwan. Nonostante lei fosse di origine giapponese, infatti, gran parte del materiale che aveva raccolto riguardava la storia taiwanese, tanto da convincere il Laboratorio a far partire da lì il programma di riemersione.

Taotao e io eravamo saliti insieme. Da quando aveva messo piede nella biosfera di Taipei, però, lui aveva perso tutta la sua baldanza e trascorreva le giornate in uno stato di cupa depressione.

“Perché proprio io?” borbottava tra sé.

“Vuoi fare due chiacchiere?” gli proponevo. “Non tenerti tutto dentro.”

Lui mi respingeva. “No. Non ti basta stare sempre a spiarmi? Lasciami un po’ di privacy.”

Il Laboratorio contava un gran numero di collaboratori e collaboratrici. Taotao non era né tra i più brillanti né tra i meglio pagati, però era un nuotatore formidabile capace di sfidare il vento e le onde più burrascose, come suggeriva il suo nome che significava, appunto, “tempesta”. Sospettava che l’avessero assunto dietro raccomandazione dell’Alchimista, ma forse invece era per il fisico prestante e adatto a sopportare lo stress fisico e psicologico della migrazione. La sua bellezza, tra l’altro, l’aveva portato a saltare di fiore in fiore tra colleghi e colleghe, spezzando diversi cuori.

Prendevamo spesso la funicolare dello Yangming quando eravamo in missione. La montagna era finalmente tornata verdeggiante, eppure Taotao manteneva un’inspiegabile espressione corrucciata. I dispacci del Laboratorio, tuttavia, mi ricordavano quotidianamente che soltanto integrando le ricerche di biologia dell’Alchimista con il materiale d’archivio della moglie saremmo riusciti a recuperare il territorio in ogni suo aspetto.

Così noi ci occupavamo di accendere gli ologrammi, liberando una miriade di visioni fluttuanti come il Genio della lampada di Aladino: pesci e mammiferi, uccelli e insetti; alberi e arbusti, prati e fiori, ma anche giovani e vecchi, donne e bambini. Era quasi un rito magico, uno spettacolo talmente straordinario che il Discepolo gli dava il via soltanto quando eravamo al riparo da sguardi indiscreti. Seguendo le indicazioni del Laboratorio, noi ci limitavamo a valutare le possibilità di sopravvivenza di piante e animali. Visto il potenziale distruttivo dell’umanità del passato, quando appariva l’ologramma di una persona lo ricacciavamo in tutta fretta nell’apparecchio.

All’inizio la biosfera di Taipei era stata un contenitore vuoto come quella di Nagasaki, ma poco alla volta si stava ripopolando. Tra le centinaia di aree da ripristinare, per qualche motivo era stato deciso di cominciare dal monte Yangming, forse perché in passato aveva ospitato pascoli e fattorie, e dunque sarebbe potuto diventare fonte di nutrimento. Sotto gli occhi impazienti dei migranti, le autorità della biosfera di Taipei avevano ricostruito l’ambiente montano con una prontezza che aveva del miracoloso. Quando si era sparsa la voce che c’erano coltivazioni, allevamenti di vacche e persino rododendri in fiore, lo Yangming era stato preso d’assalto e, per ridurre il numero di persone che salivano a piedi, le autorità avevano compiuto l’ennesimo miracolo ingegneristico, allestendo la funicolare in tempi record.

Il Laboratorio ci incoraggiava a prendere in considerazione anche la componente culturale, oltre a quella naturale. Una montagna, infatti, non né è un semplice mucchio di terra, né soltanto l’habitat di piante e animali; è uno spazio per le attività antropiche, che sono espressione della natura umana.

Quel giorno avremmo indagato su una specifica attività caratteristica dell’essere umano: gli stabilimenti termali. Sulla funicolare c’erano passeggeri di ogni etnia, genere ed età, tutti con la stessa aria di nuovi ricchi della tecnologia. Sorridevano e scambiavano cenni del capo come se si conoscessero. Dato che Taotao, seduto accanto a me, non abbandonava la sua espressione torva, io ero costretto a compensare ostentando il doppio della gentilezza. Non che me ne lamentassi, fare esercizio di umanità era sempre utile. Scoprii che, anziché sorelle come sembrava, le due donne alla mia sinistra erano colleghe alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Company e amanti. Andavano alle terme femminili del Tempio del Padiglione Dorato.

Chiacchieravamo, ma senza parlare: comunicavamo tramite bluetooth. Una mascherina fatta di una membrana impalpabile ci copriva naso e bocca per evitare i contagi e, se avessimo pronunciato una sola parola, l’avremmo lacerata. Le due donne chiesero al Discepolo dove fossimo diretti. Lui si strinse nelle spalle: “Che importa?”, intervenni prontamente per spiegare che andavamo alle terme del Giardino della Luminosità Perfetta.

Ci approcciarono due signori con i baffetti, che avevano la stessa destinazione. “Con quelle vasche in stile barocco sembra di stare in una reggia.” I loro pettorali tendevano le polo fino quasi a strapparle. Mi fecero il terzo grado per capire se io e Taotao fossimo fratelli o amanti, e ben presto mi trovai in difficoltà. Del resto, era naturale che ci avessero presi per innamorati, la funicolare pareva popolata unicamente di coppiette, loro due inclusi. Finii per dire che eravamo compagni di studi.

“Come ai vecchi tempi.”

Taotao non aveva spiccicato parola, ma non li lasciava un attimo con lo sguardo.

“Siamo nella stessa squadra” improvvisai cercando un’espressione adatta nella mia enciclopedia interna.

“Di nuoto” precisò lui.

“E noi di alpinismo” dissero loro sorridendo. “Siamo venuti a scalare lo Yangming.”

Il convoglio raggiunse il capolinea e i passeggeri si riversarono sul versante della montagna come un banco di pesci. Le biosfere se ne stavano allineate con le loro cupole tonde come il tetto di un osservatorio, una per ogni stabilimento termale. Il Tempio del Padiglione Dorato scintillava, il Giardino della Luminosità Perfetta era rotondo come una perla. Ce n’erano di tutte le taglie, alcune si estendevano come tutta Taipei, altre coprivano a malapena una vasca. Grandi o piccole che fossero, tutte riproducevano il mondo, quel mondo che avevamo bruciato e adesso prendevamo a modello per le biosfere. I due atleti si avviarono verso il Giardino della Luminosità Perfetta, con noi dietro a debita distanza.

I dispacci del Laboratorio descrivevano le biosfere termali come delle uova sode affondate nel terreno. La parte superiore era la volta; quella inferiore corrispondeva alle stanze interrate. Secondo la vecchia terminologia marxista usata dal Laboratorio, la parte emersa era la “sovrastruttura”, cioè la cultura; quella interrata la “struttura”, cioè l’economia. Al momento di pagare, i clienti stavano sottoterra, così come i membri dello staff che si guadagnavano da vivere con il loro lavoro. Il cielo e le nuvole che si vedevano alzando la testa dalle pozze, invece, erano appesi in cima alla cupola.

Condussi il Discepolo all’ingresso sotterraneo del Giardino della Luminosità Perfetta. Nel salone disinfettammo le mani e misurammo la temperatura, come previsto dai protocolli di sicurezza, poi ci spogliammo, ci lavammo e finalmente salimmo al piano di sopra, che aveva una struttura a orologio. Dove si sarebbero dovute trovare le ore c’erano dodici statue di bronzo a forma di animale, una per ogni segno dello zodiaco cinese. Dalla bocca del drago sgorgava acqua bollente per le vasche calde, mentre la capra spruzzava getti gelati in quelle fredde; il cane stava a guardia del bagno turco e il bue sorvegliava la sauna.

I due tizi di prima si erano spogliati ed esibivano il loro fisico scolpito. Ci vennero incontro tra gli sbuffi di vapore candido.

“Non ci siamo ancora presentati, scusate” fece quello massiccio come un orso nero taiwanese.

“Io sono Settemila, lui Ottomila” spiegò l’altro, che era un po’ meno muscoloso, “lui ha più addominali e pettorali, quindi è più popolare, vale mille in più.”

“Ma dai” replicò il Discepolo con un sorriso forzato. Nella mia enciclopedia interna partì una ricerca frenetica: “settemila” e “ottomila” non erano termini del mah jong 1? Cosa c’entravano in quel momento?

“Si vede che siete nuotatori professionisti” Ottomila ci indicò a turno, prima il Discepolo e poi me. “A occhio siete almeno dei Centomila, magari addirittura dei Milioni?”

Ebbi un’illuminazione: non si parlava di mah jong, ma di follower sui social network, e loro ne avevano rispettivamente settemila e ottomila.

“Io non ho nessuno che mi segue” disse Taotao, “non sono sui social.”

Era vero. Il Laboratorio ci imponeva di rimanere defilati, non dovevamo attirare l’attenzione. Ottomila ribatté che era troppo modesto, qualcuno gli andava dietro di sicuro. Andargli dietro? Era un doppio senso? I due scandagliavano i nostri corpi nudi senza curarsi delle buone maniere.

Prima di partire il Laboratorio mi aveva garantito che se avessi dovuto spogliarmi in pubblico, avrei potuto farmi guardare senza timore. Avevo tutto quello che serve a un uomo, né un pezzo in più né uno in meno. Una volta in superficie, però, mi ero accorto che chiunque sulla terraferma aveva un pezzo in più o in meno. Tra chi viveva in superficie era molto comune avere perso un arto o uno dei cinque sensi. Le terme del Giardino della Luminosità Perfetta erano così popolari proprio perché i migranti speravano nelle proprietà terapeutiche delle loro acque.

I nostri corpi intonsi erano un’eccezione: nudi, in piedi uno accanto all’altro, sembravamo davvero due nuotatori della squadra universitaria, oltre che una coppia. Il nostro aspetto salubre spiccava in mezzo ai clienti coperti di cicatrici. Altro che basso profilo, pensai, non stiamo contravvenendo alle istruzioni?

Ci mettemmo un po’ a liberarci di Settemila e Ottomila. Quest’ultimo completò varie volte il percorso che alternava acqua calda e fredda, entrando e uscendo in senso orario dalle sale sorvegliate dal drago, dalla capra, dal cane e dal bue. Invece di seguire il suo compagno, Settemila si sedette sul ciottolato nella posizione del loto. Secondo gli archivi della moglie dell’Alchimista, le terme del Giardino della Luminosità Perfetta, in quanto luogo dove si ritrovavano uomini nudi, erano state un centro di aggregazione e intrattenimento per gay e in effetti i bagnanti si ritrovavano ancora a gruppetti di due o tre attorno ai getti delle fontane per flirtare.

Pur non nutrendo il minimo interesse per i corpi maschili, la moglie dell’Alchimista aveva raccolto puntigliosamente ogni rivista di costume sulla vita notturna della comunità gay e conosceva a menadito i piaceri sensuali in cui indulgevano. Quando delle colleghe le avevano chiesto in privato il perché di quell’interesse, lei aveva risposto che era per via del loro egoismo. “Nella cultura gay è normale pensare solo al sesso e a fare conquiste, fregandosene degli amici” aveva spiegato sorridendo. “Questo li rende i più indicati a portare avanti la civiltà umana.”

Rimasi nudo anche se non avevo intenzione di entrare in acqua, come da regolamento dei bagni, e mi accoccolai al centro dell’orologio. “Ancora dieci minuti” ricordai dolcemente via bluetooth al Discepolo, che invece stava seduto sul bordo. Conoscevo meglio di lui il suo stato di salute ed ero in grado di calcolare quanto tempo potesse trascorrere a mollo basandomi su temperatura corporea, battito cardiaco e sudorazione. A sua insaputa, il Laboratorio mi faceva tenere traccia anche del livello di libidine, che però purtroppo rimaneva a zero persino davanti a quella distesa di uomini. Come insegnava l’Alchimista, il desiderio sessuale è sempre indice di qualcos’altro: è un indicatore della voglia di vivere.

“Niente bagno, caro?” Ero talmente immerso nei calcoli che non mi ero accorto dell’arrivo di Settemila. Eravamo soli al centro dell’orologio. Il Discepolo e Ottomila erano nella sauna presidiata dal bue e le loro teste spuntavano dai buchi appositi, come da una gogna d’altri tempi. Il regolamento infatti imponeva di tenere la testa all’esterno durante l’uso della sauna e del bagno turco, allo scopo di prevenire i contagi per via aerea. “Tu sei come me, mio caro Sette” mi lasciai sfuggire senza riflettere. “Esatto, siamo uguali.” Settemila sorrise. Quel movimento delle labbra mi fece scattare un campanello d’allarme. Aprendo la bocca avrebbe infranto le norme anticontagio, perché la mascherina si sarebbe strappata. Che intenzioni aveva?

Temetti che ci avrebbe provato con me. Vedevo già la scena: le nostre labbra incollate, la sua lingua che si intrecciava alla mia. Secondo i protocolli di sicurezza, la bocca doveva rimanere costantemente coperta da una sottile membrana, esisteva persino una speciale cannuccia che permetteva di bere acqua e alcolici senza forarla. Togliere la mascherina era concesso unicamente nei momenti di intimità, cioè, nel mio caso, la sera con Taotao: quando andava a letto, mi chiedeva di abbracciarlo e coccolarlo e, naturalmente, tra le lenzuola ci scambiavamo anche dei baci.

Settemila però non mi sfiorò neppure, invece si fece accompagnare sul bordo dell’orologio, all’ombra di un ciliegio. Nudi in mezzo allo stabilimento termale, lui ben piazzato e io efebico, davamo parecchio nell’occhio, altro che basso profilo! “Tu e io siamo uguali” ripeté nel segreto dell’ombra. “Basta un goccio di acqua sulfurea a mandarci in blocco.” “Siamo in tanti nella biosfera di Taipei, che cosa vuoi da me?” mormorai.

Noi gestori sanitari, detti anche infermieri del benessere o assistenti alla salute, siamo dispositivi per la sorveglianza medicale in forma umana. Monitoriamo il sonno, la saturazione, il battito cardiaco e il sistema nervoso autonomo dell’utilizzatore, un po’ come gli smartwatch e gli smart ring che circolavano all’inizio del Ventunesimo secolo, ma più performanti di quei giocattolini: facciamo da guardie del corpo di giorno e da compagni di coccole la notte. Siamo progettati su misura per il nostro proprietario, con cui formiamo una coppia perfettamente assortita, almeno in apparenza. Ecco perché sulla funicolare sembravano tutti appaiati. Settemila era il gestore sanitario di Ottomila.

Il Laboratorio non era tranquillo a lasciar partire il Discepolo da solo per Taipei, così gli aveva affiancato me. “È vero, lo Yangming è pieno di infermieri del benessere. Non sei certo un unicorno” Settemila rise. “Sai che cosa è unico, invece? Il tesoro della signora Nishikawa. E chi continua a proiettare i suoi ologrammi?” Conosceva il nome della moglie dell’Alchimista.

“Se un bagnante sanguina in mare gli squali accorrono. Se qualcuno proietta il tesoro della biblioteca del Canarino” Settemila si batté l’indice sulla tempia, “gli squali nella mia testa si svegliano.”

“Volete sottrarci gli archivi della signora Nishikawa?” Cercai Taotao con lo sguardo. Non era più nella sauna. “Impossibile. Non acconsentirà mai. E tantomeno il Laboratorio.”

“Tu pensi di avermi capito soltanto perché misuri le mie funzioni vitali e trasmetti i dati al Laboratorio” Taotao apparve alle mie spalle. “Invece di me non sai niente.”

“Durante la sauna ho convinto il caro Tao a unirsi a noi” Ottomila gli stava accanto tutto tronfio. “Mai sottovalutare il fascino dei pettorali.” Gemetti tra me: era davvero un egoista. “Prima o poi metteremo le mani sul tesoro della signora Nishikawa, non abbiamo fretta” Settemila continuava a sorridere.

“Ti unisci a noi per l’aperitivo?”

“Unirmi a che cosa?” ero agitato. “Che cosa c’entro io?”

Un cane andaluso, o ‘Can-An’” mi spiegò Taotao. Recuperai le informazioni sul celebre cortometraggio dalla mia enciclopedia interna e mi apparve la scena della mano che taglia di netto un bulbo oculare.

“Il nostro Cane Andaluso libererà gli ecosistemi squarciando la cupola delle biosfere.”

“Taotao ha gentilmente acconsentito a unirsi a noi” proseguì Settemila, “e dato che siete inseparabili e il tuo destino dipende dal suo, naturalmente sei dei nostri anche tu.”

Mi rivolsi a Taotao nel tentativo di riportarlo sulla retta via: “Siamo sulla terraferma per ricostruire Taipei, non per distruggerla. Questi sono pazzi.”

“Scoperchiare le biosfere non significa distruggerle, ma liberarle” sospirò lui, “ti racconto una storia.”

Tanto tanto tempo fa, la superficie terrestre divenne inabitabile. Una ragazza con un grave problema di miopia ebbe un colpo di fortuna e vinse un biglietto, uno soltanto, per l’Arca diretta sui fondali. Le si spezzava il cuore ad abbandonare i suoi, ma la madre la costrinse a partire, dicendole di rifarsi una vita e di portare avanti la memoria della famiglia. Lei obbedì e una volta di sotto iniziò subito a riorganizzare i ricordi, senza perdere tempo a piangersi addosso: staccò le fotografie bidimensionali e ingiallite dagli album che aveva portato con sé e le convertì in ologrammi digitali, ritrovando così i membri della sua famiglia, uomini, donne, vecchi e bambini. Oltre alle persone, naturalmente, quelle immagini ritraevano anche le piante, i fiori, gli animali e gli insetti con cui gli esseri umani avevano convissuto. Se in passato si era temuto che le fotografie fossero capaci di rubare l’anima, lei ci contava.

Per un po’, la distanza tra i fondali oceanici e la terraferma fu incolmabile, e la ragazza miope perse ogni contatto con i suoi. Quando finalmente si riuscì a stabilire una comunicazione tra il sopra e il sotto, scoprì che la sua famiglia era ancora viva, non era stata sterminata. I suoi parenti, che amavano fare shopping, utilizzavano spesso i parcheggi interrati dei centri commerciali e avevano avuto l’idea di sfuggire ai raggi solari rifugiandosi sottoterra.

Avevano occupato ogni anfratto di quei parcheggi, fino a fondare delle nuove comunità. Dopo il tramonto, con il favore delle tenebre si avventuravano in superficie per recuperare i cadaveri degli animali seccati dal sole; ai primi raggi di luce, tornavano di sotto con il bottino per fare il pieno di proteine.

Erano sopravvissuti come ratti e avevano persino ripreso a procreare.

Prima di riallacciare i rapporti con la superficie, anche la ragazza aveva deciso di fare un figlio, sempre per portare avanti la memoria della famiglia. Poiché non era minimamente attratta dagli uomini, aveva utilizzato la procreazione assistita. Aveva avuto una bambina di nome Momo, che si era specializzata a sua volta nell’archiviare i ricordi degli esseri umani. Il rapporto tra le due, però, aveva finito per prendere una piega drammatica, così la madre miope era tornata a dedicarsi al suo lavoro alla biblioteca olografica. Quando erano stati ristabiliti i contatti con la terraferma si era rivolta a un altro specialista di inseminazione artificiale. Era troppo vecchia per tornare di persona ma, se suo figlio fosse stato forte abbastanza, sarebbe partito lui per ricongiungersi alla famiglia. Questa volta era nato un maschio, che aveva chiamato Taotao, cioè “tempesta”: l’esatto opposto della silenziosa Momo.

La madre aveva fatto sì che, una volta cresciuto sano e forte, il figlio fosse spedito in una biosfera sulla terraferma. Quando aveva acceso gli ologrammi in cima alla montagna, gli erano apparsi a mezz’aria donne, vecchi e bambini: erano i genitori, le sorelle e i nipoti della madre, che ormai erano morti da anni ed erano sepolti proprio lì sul monte. Quelle sagome fluttuanti gli si erano ammassate attorno assillandolo con tante domande su di lui e sul resto della famiglia, che Taotao li aveva spenti all’istante per non riaccenderli più.

Rifiutò di sottoporsi agli interrogatori di quei parenti lontani, ma il loro cicaleccio gli fece venire in mente che, oltre che negli ologrammi, esisteva una loro proiezione anche nel mondo reale: le generazioni successive a quella di sua madre, infatti, vivevano ancora accanto al cimitero e si guadagnavano da vivere con pesanti lavori manuali. Gli operai dei sotterranei assomigliavano a un esercito di formiche, che al calar del buio si riversava fuori dai dormitori-formicai e risaliva la china per ricostruire a passo spedito le fattorie, gli allevamenti, i giardini, le terme e persino la funicolare. All’alba tornavano a nascondersi, e non incontravano mai i raffinati migranti in gita, i quali si beavano dell’efficienza dei cantieri della biosfera di Taipei, senza chiedersi chi la rendesse possibile.

“Come sai, esistono una struttura superiore e una inferiore. E le biosfere reggono unicamente grazie alla loro unione” disse Taotao. “Mentre tu ed io ci godiamo il paesaggio all’aria aperta, sotto di noi la famiglia di mia madre si trascina in un’esistenza miserabile.” La cupola del Giardino della Luminosità Perfetta si riempì di fumo e scattarono gli allarmi antincendio.

“Ancora una volta, il Giardino della Luminosità Perfetta va a fuoco” 2. osservò Settemila. “Dev’essere opera del nostro Cane Andaluso.”

“Liberazione, non distruzione” il Discepolo mi fissò dritto negli occhi. “Sono certo che mia madre capirà.”

La traduzione dal cinese è di Alessandra Pezza.

Si ringraziano Ilaria Benini and add editore.

1

Gioco cinese simile al domino che si gioca con 144 pezzi, che rappresentano figure invece che numeri.

2

In cinese Yuánmíng yuán era il nome della reggia dei Qing oggi nota come Antico Palazzo d’Estate. È stata distrutta in un incendio nel 1860, durante la Seconda Guerra dell’Oppio.

Chi Ta-wei

Chi Ta-wei è uno scrittore e professore taiwanese. Tra i suoi libri, Membrana (add editore, 2022).

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