Quel ristorante non esiste - Lucy
articolo

Tommaso Melilli

Quel ristorante non esiste

Che cosa sono le ghost kitchen? E perché stanno cambiando (in peggio) il nostro gusto e le città che abitiamo? Ce lo racconta uno scrittore, che è anche chef.

Sarà capitato anche a voi, andando fuori a cena, di allungare lo sguardo sul conto e di notare sullo scontrino un fatto singolare: il ristorante dove avete appena cenato, sul documento fiscale, ha un nome completamente diverso da quello che c’è scritto fuori, sull’insegna. Questo accade perché quando si decide di aprire un locale, la società viene creata prima di sceglierne il nome, e quindi l’entità giuridica avrà sempre il nome di un posto che non è mai esistito. O magari, più semplicemente, avrà un nomignolo di fantasia che si è scelto lì per lì, magari anche per scaramanzia.


Se vivete in una grande città, negli ultimi due anni è probabile che abbiate scelto, ordinato e consumato dei piatti preparati da ristoranti con nomi suggestivi, accompagnati da lunghe descrizioni e ottime fotografie. In alcuni casi vi siete anche affezionati a quel particolare tipo di cucina, trovando fra molti il vostro piatto preferito. Poi, un giorno, vi è magari venuta voglia di andare a cena per davvero in quel ristorante che amate. E, dopo aver cercato su mappe e motori di ricerca, avete scoperto che il vostro ristorantino preferito non esiste. 

Anche se non esiste, ci sono tanti nomi per definirlo: è un modello commerciale molto recente, di cui molti di noi ignorano del tutto l’esistenza: ghost kitchen, dark kitchen, cloud kitchen. Tecnicamente si tratta di ristoranti virtuali: esiste l’idea, esiste il menù, esistono i piatti, esistono la cucina, i cuochi e le cuoche che ci lavorano. Ma non c’è la sala, non ci sono i tavoli, le sedie, non c’è la porta, non c’è il bancone, soprattutto non ci sono i camerieri. Ci sono, naturalmente, delle persone che portano quei cibi a casa nostra in bicicletta o in motorino, e che siamo soliti chiamare rider

Il fenomeno è esploso in tutto il mondo nei primi mesi di pandemia, per una ragione molto semplice: era vietato andare al ristorante e sedersi, ma si poteva ordinare del cibo da consumare a casa. E’ però interessante notare che la definizione stessa (ghost kitchen) si afferma soltanto nel 2019. Ho fatto una ricerca avanzata su Google escludendo gli ultimi anni: prima del 2017, non esisteva la parola.

“Tecnicamente si tratta di ristoranti virtuali: esiste l’idea, esiste il menù, esistono i piatti, esistono la cucina, i cuochi e le cuoche che ci lavorano. Ma non c’è la sala, non ci sono i tavoli, le sedie, non c’è la porta, non c’è il bancone, soprattutto non ci sono i camerieri”.

Negli ultimi due anni le principali multinazionali tecnologiche che operano nel settore del delivery in Italia hanno raddoppiato ogni anno il loro fatturato, superando i due miliardi di euro. Alla fine del 2020, secondo il Censis, il 37% degli italiani dichiarava di servirsi almeno occasionalmente di piattaforme digitali per la consegna di cibo a domicilio. Nello stesso anno, l’ISTAT inseriva il delivery fra i beni del paniere dei prezzi. Non è dato sapere quante, fra le migliaia di cucine che hanno prodotto quei pranzi e quelle cene, siano “fantasma”. 

Lavoro nella ristorazione da tanti anni, soprattutto in cucina: mi piace guardare le persone che mangiano, mi piace il rumore che fanno, mi piace andare a parlarci, salutarle, mi piace persino tornare in cucina arrabbiato quando si rivelano antipatiche e sgradevoli. Insomma mi piace servire e stare in mezzo alla gente: di conseguenza non riesco a entusiasmarmi all’idea che esistano sempre più ristoranti senza tavoli e senza sala. Ma non mi piace neanche detestare le cose senza conoscerle, e quindi ho deciso di mandare il mio curriculum a qualche ghost kitchen attiva nella città dove vivo, che è Milano, per provare a farmi assumere. 

 

Un buon esecutore

Comincio dagli annunci online, e già è una cosa che non ho mai fatto, perché ho sempre trovato lavoro andando a bussare alle porte di persona: mi dico che dovrò prepararmi un lungo curriculum fittizio, perché quello vero non è compatibile con un posto di lavoro del genere, sarei considerato overskillato: scopro che in realtà è facilissimo, perché i formulari predisposti dalle piattaforme sono rapidi e intuitivi. Scrivo in modo molto sintetico qualche nome di posti dove ho lavorato, un paio li invento, e che ho lavorato per un panificio, preparando i condimenti per le pizze e le torte salate, che è pertinente con la candidatura e soprattutto è quasi vero. Non mi viene richiesta nessuna lettera di motivazione, solo un indirizzo, un nome, una data di nascita e un numero di telefono. 

Non è facile capire dagli annunci se si tratta di una ghost kitchen o di un ristorante, ma ci sono degli indizi: alcune società, per esempio, hanno la parola “delivery” nel nome, e mi butto su quelle. In alcuni casi vengono annunciati stipendi e condizioni di lavoro decisamente migliori rispetto al resto delle offerte della ristorazione tradizionale: si arriva anche a 1800€ al mese, con due giorni di riposo, magari anche nel weekend. In altri casi non viene specificato nulla. 

In pochi istanti invio una candidatura per un posto di aiuto cuoco per una delle aziende che non esplicita le condizioni, il cui laboratorio sembra essere vicino a casa mia, e nel frattempo continuo a cercare. Otto minuti dopo ricevo una telefonata da un numero sconosciuto: una ragazza gentilissima mi chiede se sono disponibile per un colloquio e una prova. A loro andrebbe bene anche la mattina dopo. 

Quel ristorante non esiste -

C’è una parola che qualsiasi investitore nel settore della ristorazione pronuncia con gli occhi che brillano: gli “esecutori”. E’ il termine politicamente corretto per indicare cuochi e cuoche che siano pronti a lavorare senza eccessive ambizioni economiche e personali, e su un tracciato di compiti che non richiede iniziativa o originalità. 

Salvo alcuni casi eccezionali, in una ghost kitchen non c’è uno “chef”. C’è una gerarchia di responsabilità, certo, ma quasi sempre mancano i due aspetti che hanno reso il lavoro della cucina affascinante per molti giovani: la creatività, prima di tutto, e la gratificazione che viene dal riconoscimento della propria creatività. 

Ricordo i brevi periodi della mia vita professionale in cui sono stato un “esecutore”: furono per me frustranti e noiosi, ma forse come molte persone della mia generazione sono cresciuto col bisogno di sentirmi speciale, e quindi può darsi che sia un problema mio. 

La sera prima del colloquio e della prova pratica ho lo stomaco leggermente in subbuglio, inarco le spalle seduto sul divano, guardo per terra mentre digerisco la pasta al sugo che ho mangiato guardando la tv, e capisco che nonostante dieci anni di mestiere, nonostante abbia gestito tre ristoranti praticamente da solo, nonostante si tratti di un posto di lavoro che non voglio e che non accetterò mai ecco, nonostante tutto ho ancora paura. In questo caso, ho paura di non essere considerato un buon esecutore. 

Arrivo a piedi a metà mattina, in una piccola via dell’est milanese: lo spazio della ghost kitchen occupa il piano interrato di un immobile residenziale degli anni ‘60, di cui immagino fosse il garage: c’è una rampa che scende e una grande serranda, che durante le ore di servizio è sempre aperta. 

Il garage è molto grande e quasi vuoto: sulla destra ci sono tre uffici con mobili di legno chiusi da un vetro; al centro, senza soluzione di continuità col resto, c’è una cucina con 15 cuochi dentro, poi un banco rivolto verso la porta d’ingresso, e basta. Le biciclette elettriche dei rider arrivano davanti al banco, prendono il sacchetto e ripartono sulla rampa, facendo inversione a U nel garage.

Mi danno un grembiule, mi cambio negli spogliatoi, che sembrano quelli di una grande palestra, e vado a cercare lo chef per farmi dare istruzioni: la cucina funziona, a tutti gli effetti, come quella di un ristorante tradizionale, con vari piatti e varie partite, con una gerarchia, uno chef, dei capopartita, e a poca distanza gli uni dagli altri ci sono la pizzeria, il sushi, le insalate, gli hamburger. Il lavoro non è per nulla diverso da quello dei ristoranti tradizionali: c’è uno chef che controlla tutto, ho un superiore che supervisiona  che tagli le cipolle nel modo giusto, insomma il lavoro funziona come in tutte le grandi cucine degli ultimi due secoli e mezzo: il menù è ampio, noioso e prevedibile, ma tutto è fatto con una certa cura e la qualità dei prodotti – senza essere eccitante – è accettabile.

Certo, siamo in un garage. E’ gennaio: fuori ci sono 2 gradi. Immagino che all’interno del garage ci fosse un tentativo di riscaldamento, forse una lama d’aria calda doveva separare la cucina dalle biciclette. Non sembrava funzionare più di tanto, e alla fine era come lavorare in una sagra di paese invernale, ma senza gli anziani affamati e senza profumo di vin brulé. 

I miei potenziali colleghi si possono riassumere in due categorie: i ventenni e le persone di origine sudamericana. Finito il mio servizio di prova mi hanno detto che mi avrebbero fatto sapere. Mi hanno fatto sapere: non mi hanno preso. 

Breve storia del delivery contemporaneo

Come molte altre rivoluzioni digitali degli ultimi quindici anni, il delivery di cibo buono, gustoso e costoso sembrava – all’inizio – un’ottima idea. 

Per capire come è cominciata la storia commerciale e culturale che ci ha portato alle cucine fantasma bisogna però fare un passo indietro. 

La possibilità di farsi consegnare del cibo cucinato a casa non è una novità, si fa da decenni: quando andavo alle medie i miei compagni di classe avevano scoperto l’indirizzo di casa di una professoressa che ci stava particolarmente antipatica, e un paio di volte – devastati dalla noia della pre-adolescenza – le avevamo fatto consegnare a casa una quindicina di pizze, da pagare alla consegna. 

Ci sono però alcune differenze sostanziali fra il delivery come si faceva prima e come si fa adesso: prima di tutto le consegne erano organizzate ed effettuate dal ristorante stesso, che assumeva e pagava delle persone che consegnavano solo i suoi prodotti. Si ordinava per telefono, direttamente al locale; i menu si scoprivano su siti internet brutti e datati, su cartoncini con grafiche sgranate che trovavamo infilati nel tergicristalli dell’auto; nella maggior parte dei casi si telefonava e si tirava a indovinare. La seconda differenza è che si potevano ordinare pochissime tipologie di cibi, e cioè la pizza, il gelato, poca cucina asiatica e qualche catena di fast-food. A meno di ordinare quindici pizze, la roba che si riceveva costava poco, e – appunto –  si pagava alla consegna, in contanti.

Le cose sono cambiate quando molti di noi hanno cominciato a disporre di strumenti tecnologici che permettono di gestire tutto su un’unica app. Le società che hanno cominciato a proporre questi servizi avevano bisogno di raccontare una storia diversa da quella che credevamo di conoscere: si trattava di offrire un delivery gastronomico, e quindi costoso. 

Per costruire quella storia, era fondamentale convincere i ristoranti migliori delle grandi città ad “associarsi” alle nuove piattaforme. 

In quegli anni io ci lavoravo, in uno di quei ristoranti, non a Milano, in un’altra grande città europea, ma fa lo stesso. I proprietari del posto dove lavoravo, che era molto piccolo, si lasciarono immediatamente sedurre: avremo decine di posti a sedere in più, senza pagare l’affitto e senza pagare i camerieri, capisci? 

Io capivo, ma ero perplesso, perché intuivo che quei molti coperti in più e il fatturato immaginario che ne sarebbe derivato sarebbero pesati unicamente sulle mie spalle. 

Poche settimane dopo, la mia postazione di lavoro in cucina era stata invasa da un groviglio di cavi che collegavano fra loro tre tablet appesi in modo precario, le rispettive piccole stampanti, e in mezzo a quel groviglio di cavi cercavo di servire i clienti che avevo in sala e altri sconosciuti che stavano a casa loro. Se ci ripenso oggi è quasi commovente, perché sugli scontrini e sulle ordinazioni – in barba a qualsiasi tutela della privacy – c’era scritto nome e cognome della persona che aveva ordinato, che quasi sempre ci telefonava per chiedere di cambiare un ingrediente. Capitava spesso che il proprietario del ristorante ordinasse i piatti del suo locale da casa sua. 

Quel ristorante non esiste -

Ma quali erano questi ristoranti migliori? Non erano gli stellati o i ristoranti di lusso: erano i luoghi più in vista della ristorazione giovane e dinamica delle più grandi città europee. In una parola, erano i ristoranti piccoli e cool dove non si trovava mai posto. Sarà come avere 40 coperti in più senza pagare l’affitto. 

Il cibo che si ordinava non era quello delle pizzerie da asporto e dei fast-food, ma era quello dei nostri “ristorantini” preferiti: e noi eravamo felici di ordinarlo perché era tutto nuovo, perché era comodo ma soprattutto perché ci sembrava poter sostenere una piccola economia di quartiere. Questa nostalgia per come sarebbero potute andare le cose è un sentimento assai frequente per chi lavora col cibo nelle grandi città: andavamo nelle vinerie sgarrupate a bere vini che alcuni chiamavano “naturali”, perché le persone che li servivano erano simpatiche e alla mano; compravamo il pane fatto di lievito madre in panifici senza insegna e ci sentivamo parte di qualcosa di piccolo, buono e giusto. Nel giro di pochi anni le storie e le parole che usavamo per i nostri ristoranti, per i nostri vini e per i nostri cibi sono state recuperate da decine di locali dall’architettura scintillante che però si somigliano tutti. Ed è difficile non sentirsi, a posteriori, le cavie di un esperimento.  

Sono passati dieci anni e non ho mai più lavorato in locali che facevano consegne a domicilio. 

L’unico menù possibile 

Franco ha la mia età, quindi circa 30 anni, e fino al 2020 gestiva due attività in Abruzzo, lavorando in cucina. Dopo due anni di chiusure amministrative e alcuni tentativi di consegne a domicilio, all’inizio del 2022 decide di trasferirsi a Milano con la sua compagna e di affittare uno spazio in un nuovo complesso di ghost kitchen nella periferia nord della città. 

“Le storie e le parole che usavamo per i nostri ristoranti, per i nostri vini e per i nostri cibi sono state recuperate da decine di locali dall’architettura scintillante che però si somigliano tutti. Ed è difficile non sentirsi, a posteriori, le cavie di un esperimento”.  

“Avevamo valutato anche dei locali fisici, ma io ero molto stanco del contatto col pubblico, e in generale avevo paura di ulteriori chiusure”. Curiosamente, mi racconta Franco, i costi di un piccolo locale aperto al pubblico sarebbero stati inferiori: “la cucina di 12 metri quadri che ho affittato io costava 2300 euro al mese più IVA, escluse le spese, ma la società ci prometteva guadagni stratosferici, e allora mi sono lasciato convincere”. 

Quei guadagni non sono mai arrivati, in compenso sono arrivate le bollette: “quest’estate ci sono stati quasi sempre 37 gradi a Milano, devi immaginare un capannone col solo piano terra, sopra batte il sole tutto il giorno. Lo spazio è diviso in 25 cucine, tutte attive e senza finestre, quindi con fuochi, piastre, friggitrici, forni, ma soprattutto frigoriferi: per lavorare eravamo costretti a tenere l’aria condizionata sempre accesa, e si arrivava comunque a 44 gradi. Ma la notte dovevamo tenerla accesa lo stesso, solo per mantenere la temperatura sotto i 35 gradi, perché se si supera quella temperatura i frigoriferi si rompono.” 

Franco inaugura il suo ristorante virtuale di polpette ad aprile. In luglio, con la città vuota e una media di 10 ordini al giorno, arriva a spendere 5000 euro in tutto, solo per l’affitto e l’energia elettrica. Ha firmato un contratto che lo vincola a restare in quello spazio per almeno un anno, ma rapidamente si rende conto che le promesse della società che gestisce tutta la struttura non sono neanche lontanamente mantenute: a fine luglio decide di interrompere l’attività, perché gli costerebbe di più accendere i macchinari che lasciarli spenti, e comincia una battaglia legale che gli permetterà di rescindere il contratto a fine settembre. “Quasi tutti quelli che hanno cominciato insieme a me se ne sono andati, o ci stanno provando: sono rimaste solo multinazionali o aziende molto grandi. Per esempio c’è un brand creato da una grande azienda italiana che fa pollame: chi compra da casa pensa di stare ordinando del pollo di qualità, non può sapere che – di fatto – è quello del supermercato.”

Ho chiesto a Franco di aiutarmi a infiltrarmi, perché voglio vedere lo spazio dall’interno; chiede aiuto a un collega che sta appunto cercando di svincolarsi. Lo stabile, al piano terra, è diviso in venticinque piccole cucine pressoché identiche: in ogni cucina c’è una porta, che dà sul corridoio dove entriamo noi dipendenti, e dove ci sono spogliatoi e bagni. Dall’altro lato c’è un altro corridoio, che si affaccia sull’esterno, dove però non c’è la porta: ci sono delle finestrelle con un grande davanzale e un’anta che si chiude, che funzionano proprio come le finestre nei portoni che vediamo ancora a volte negli sceneggiati televisivi di ambientazione medievale, e che furono inventati per scambiarsi provviste proteggendosi dalla peste. 

Questo posto, a differenza del precedente, non funziona come una cucina tradizionale, ma come una ghost kitchen da manuale: ogni piccola cucina è un “ristorante”, con un adesivo sulla porta e delle scatole dedicate. Il vostro ristorante preferito potrebbe essere uno di questi. L’amico di Franco gestisce una ghost kitchen di hamburger. Siamo in due, un responsabile ed io: mi mostra le salse, le carni già pronte, le patatine surgelate, il pane confezionato, gli anelli di cipolle già tagliati, impanati e anch’essi surgelati. Di fatto noi dobbiamo cuocere o rigenerare le cose, metterle nelle scatole e poi pulire la cucina. 

Stesso discorso per gli ordini: in Italia sono attive una manciata di piattaforme per delivery, e naturalmente un commerciante ha interesse a essere presente su tutte. Nel complesso di ghost kitchen dove ha lavorato Franco, per contratto, tutti sono costretti a servirsi di un “aggregatore” di piattaforme, di fatto un’app che raggruppa gli ordini di tutte le altre app, e che trattiene il 2% dell’incasso di ogni ordine. Detto così sembra comodo, in realtà questa strategia permette di trattenere i dati di tutti coloro che hanno ordinato tagliando fuori i singoli marchi e le singole cucine. L’aggregatore, naturalmente, è di proprietà della multinazionale che gestisce il capannone. 

Nella sua versione più estrema e più redditizia, il modello si basa su semilavorati prodotti in grande quantità da aziende terze, e poi adattati con pochi dettagli a concept leggermente diversi. In alcuni casi, i semilavorati sono prodotti dall’azienda che possiede l’intero stabile della ghost kitchen. In alcuni casi, chi affitta uno spazio per “creare” il suo ristorante virtuale, per contratto, non può rifornirsi altrove. Di conseguenza il repertorio di ciò che si mangia è sempre più ridotto e corrisponde con un canone molto preciso: il comfort food internazionale. Burger, ramen, sushi, pollo al curry, falafel, kebab e ovviamente pizze. Pochissimi piatti, nutrizionalmente uniformi e in parte discutibili (carboidrati, fritti, sale), che rappresentano un’antologia perfetta e indispensabile di ciò che tutte le grandi civiltà messe insieme considerano più buono e rassicurante. 

Ci sono un sacco di cose che l’umanità considera o ha considerato cibo: ciascuno di noi si nutre abitualmente solo del 3% di queste. 

In Italia, per esempio, il 35% dei dolci ordinati nei ristoranti “normali” è un tiramisù. I tre piatti più ordinati in tutta Italia nel 2021 su una delle più diffuse piattaforme di delivery sono: pokè, pollo arrosto, pokè di un’altra catena. 

Quel ristorante non esiste -

Non ci sono molti modi per convincere le persone a mangiare cose diverse da quelle che sono abituati a considerare cibo: ci sono i giornali e la pubblicità; ci sono i clienti degli altri tavoli che forse – pensiamo, sbirciando mentre andiamo in bagno – la sanno più lunga di noi perché hanno ordinato qualcosa che non conosciamo. Ci sono, soprattutto, i camerieri esperti, che in tanti anni hanno imparato a costringerci dolcemente a ordinare le cose che ancora non sappiamo di volere. 

E’ facile intuire che proporre piatti più insoliti e originali nel menù virtuale di un’app di consegne a domicilio sarebbe commercialmente inutile e dannoso: non li ordinerebbe nessuno. 

Mi viene voglia di allargare un po’ lo sguardo su tutta la questione, pensando agli ultimi due decenni, in cui le cose che mangiamo e che beviamo hanno conquistato uno spazio nelle nostre vite che molti considerano essere eccessivo. 

Questa invasione del discorso è fondata su una manciata di valori e di pratiche: il racconto del prodotto e della ricetta, la percezione della filiera corta, la sostenibilità ambientale e umana, l’elemento sociale, la scoperta della novità. Non è questo il momento per dire se questa piccola rivoluzione culturale sia positiva o negativa, ma non posso fare a meno di notare il modello delle ghost kitchen cancella con precisione chirurgica tutto ciò che diciamo e riteniamo di amare nella cultura gastronomica contemporanea. Forse perché non lo vogliamo davvero?

Le città e tutto il resto 

Le ghost kitchen sono un esempio elementare di innovazione distruttiva: un modello commerciale che non esisteva prima crea un nuovo mercato, ma per affermarsi ha bisogno di distruggere il mercato che esisteva prima. Non è necessariamente un cambiamento negativo: l’invenzione delle automobili, nel giro di pochi decenni, ha determinato la scomparsa delle carrozze trainate dai cavalli. E’ stato certamente un miglioramento per la pulizia delle strade e per la qualità di vita dei cavalli. Nei prossimi anni, si spera, le automobili elettriche ci libereranno dalle emissioni di quelle tradizionali. 

Quello che esisteva prima, nel nostro caso, sono i ristoranti tradizionali. Una ghost kitchen è – in astratto – meno rischiosa e meno costosa di un ristorante coi tavoli, e idealmente cancella la variabile umana di un settore che non è mai stato in grado di remunerare i propri salariati in modo accettabile. La storia di Franco ci dimostra che non è sempre un modello vincente per dipendenti e piccoli imprenditori, ma resta vantaggioso per le grandi aziende. 

Quel ristorante non esiste -

Non oggi, non domani, ma forse dopodomani sì: i ristoranti fantasma sono destinati a soppiantare quelli tradizionali. Le conseguenze umane e sociali di questa rivoluzione sono potenzialmente molto problematiche, ma difficili da prevedere. 

C’è però, mi sembra, una conseguenza poco considerata anche dagli studiosi, e che riguarda la vivibilità delle metropoli: i ristoranti coi tavoli, sparpagliati in tutto il tessuto urbano, significano luci accese fino a tardi, dehors popolati di persone a volte rumorose ma quasi sempre non violente; soprattutto, persone che a un certo punto tornano a casa, attraversando delle strade e dei quartieri che nessun paese democratico sarebbe in grado di mantenere sicuri senza la presenza di una popolazione pacifica che funge da agente dissuasore alla maggior parte dei crimini non organizzati. 

C’è un altro lato oscuro nel modello economico delle ghost kitchen, che non riguarda però le città, ma il contrario della città, e cioè la campagna. Perché la provincia, e soprattutto la campagna, sono tagliate fuori da questo modello, e – salvo invenzione del teletrasporto – non si intravedono sviluppi possibili: più del 60% di chi vive in Italia risiede in centri abitati con una densità di popolazione inferiore a 1500 abitanti per km quadrato, e per quasi metà di questi la densità è inferiore a 300 persone. Per dare un’idea, a Milano nello stesso spazio siamo 8000. Sono dati difficili da visualizzare, ma la soglia dei 1500 abitanti per km quadrato è quella al di sotto della quale il delivery per come esiste oggi non è redditizio, e quindi non solo il servizio non è disponibile, ma verosimilmente non lo sarà mai. E’ interessante rileggere il dato di prima, su quanti sono gli italiani che ordinano da casa almeno “occasionalmente”: il 37%. E’ un dato leggermente superiore alla popolazione residente in grandi e medio-grandi città: con un piccolo grado di approssimazione, si può dire che le persone che ordinano almeno ogni tanto, sono tutte quelli che tecnicamente possono farlo. 

“I ristoranti fantasma sono destinati a soppiantare quelli tradizionali. Le conseguenze umane e sociali di questa rivoluzione sono potenzialmente molto problematiche, ma difficili da prevedere”.

La storia, per certi versi inquietante, che ho cercato di raccontare, non riguarda quindi solo le persone che vivono nelle grandi città, ma anche tutte le altre, e cioè la maggioranza della popolazione residente in Italia. Come mangiano, e come mangeranno le persone che non vivono in grandi o medio grandi città? Sospetto che continueranno a mangiare cose cucinate dalle donne. 

Franco racconta del periodo in ghost kitchen come il più oscuro della sua vita, parla di frustrazione, depressione, estrema solitudine, problemi di coppia e decine di migliaia di euro di debiti. “Io volevo continuare a fare il mio lavoro, perché lo so fare, ma non volevo più avere a che fare con la gente, e quindi quella mi era sembrata la soluzione.”

Oggi Franco ha aperto un locale fisico, dove paga un affitto molto più basso: continua a fare le sue polpette, che si possono mangiare lì o portare a casa: ci sono dei tavoli, un piccolo bancone. Nel primo mese di attività ha già incassato più di tutti i mesi passati nella ghost kitchen messi insieme. Molti vicini già vengono a prendersi il loro piatto in pausa pranzo o dopo il lavoro. Fra poche settimane dovrebbe ottenere le autorizzazioni per mettere i tavoli fuori, sul marciapiede, in tempo per la bella stagione.

Tommaso Melilli

Tommaso Melilli è scrittore e chef. Collabora con il «Repubblica» e altre testate. Il suo ultimo libro è I conti con l’oste (Einaudi, 2020).

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2024

art direction undesign

web design & development cosmo

lucy audio player

00:00

00:00