C’era una volta un mese di maggio - Lucy
racconto

C’era una volta un mese di maggio

16 Gennaio 2025

L’occupazione nazista in Danimarca vista attraverso gli occhi di due bambini. Un racconto di Stig Dagerman compreso nella raccolta “L’uomo che non voleva piangere” (Iperborea, 2025).

C’era una volta un mese di maggio

Era ormai quasi l’una e tutti quelli che erano lì in attesa cominciavano a sudare e a farsi rossi in viso. Chi era davanti veniva spinto verso la strada da chi era più indietro e la calca si fece insopportabile anche per chi aveva i gomiti spigolosi. Vista dalle finestre più in alto, la folla sui marciapiedi sembrava formare due neri steccati, tra questi due steccati chi si era smarrito doveva passare per le bacchette, cercando di trovare un buco in cui infilarsi. Le automobili avanzavano tra la gente con i freni tirati, come insetti enormi e cauti, e di tanto in tanto arrivava sferragliando un tram che suonava la campana a morto.

Il sole annaffiava la città e raramente arrivava un vento rinfrescante. Sven percorreva il lungo viale che dal ponte di Djurgården porta fino a Karlaplan. Non conosceva il nome della strada e, pur tenendo per mano il fratellino, si sentiva solo e spaesato. I palazzi erano tanto alti, qui, tutto era così diverso. “Dove siamo?” chiese il fratello, tanto piccolo da essere solo d’intralcio. Una signora con la pelliccia sbottonata lasciava che il suo cane bagnasse un albero, un ciclista in impermeabile sfrecciò loro accanto.

“Siamo a Östermalm”, rispose Sven masticando quella parola come un pezzo di carne stopposa, “a Östermalm.” “La mannifestazione arriva presto?” Göran cominciava a essere impaziente. La strada da Söder era lunga e gli era stato promesso un gelato solo perché era il Primo maggio. “Quando posso mangiare il gelato?” domandò Göran. “Guarda quel cagnolino, perché la vecchia è in pelliccia?” “Zitto”, disse Sven. “Il gelato te lo compra papà. Prima dobbiamo andare in manifestazione, è già in corso”. “Eh? Dobbiamo andare sul corso?” disse Göran. “Su, andiamo”, rispose Sven, “ci saranno altri cagnolini”.

Arrivarono a una traversa, una via lunga che attraversava quasi tutta la città finché, all’improvviso, si imbatteva in un parco, molto, molto lontano. “Cacchio, quanta gente”, disse Göran. Gli era proibito dire parolacce, ma gli sembrava di non poter usare nessun’altra parola per quello che voleva dire. Aveva solo sei anni e pensava di non aver mai visto tanta gente come in quel momento. Alcuni poliziotti, in divise luccicanti, arrivarono ballonzolando sui loro cavalli. Le briglie scintillavano d’argento e i distintivi d’oro. “Cavalli”, disse Göran, e avrebbe voluto fermarsi, ma Sven se lo tirò dietro e risalirono velocemente la via, i cavalli passarono al trotto accanto a loro, con le code mozze e gli zoccoli lucenti, sollevando nuvole di polvere. 

“Sono gli sbirri”, disse Sven, si tirarono da parte e ammutolirono entrambi. Göran non diceva niente perché in strada non si parla degli sbirri. E Sven non diceva niente perché aveva paura e il suo fratellino non doveva saperlo, non doveva sapere di avere un fratello maggiore pauroso. Ma la paura ce l’aveva, e quando vide sobbalzare la groppa dei cavalli della polizia e luccicare il pallido argento degli zoccoli posteriori si ricordò esattamente quel che era successo. La polizia a cavallo aveva svoltato l’angolo proprio quando la folla aveva circondato la testa del corteo nazista e il loro capo aveva lasciato cadere la bandiera; la colonna aveva dovuto arrestarsi e si era allargata a semicerchio sulla strada e sui marciapiedi. Sven si era ritrovato sul marciapiede, più o meno all’altezza della testa del corteo, e aveva visto due nerboruti ragazzi in divisa nazista agitare i manganelli all’altezza dei gomiti e urlare ai manifestanti qualcosa che non era riuscito a capire.

Dopo quelle urla era calato il silenzio, un breve istante di silenzio, perché poi gli zoccoli dei cavalli avevano cominciato a battere sulla strada e la folla, di cui Sven faceva parte, si era messa in movimento, prima con lentezza, poi sempre più velocemente. Correvano sui marciapiedi, su per la salita, ma la salita era ripida e quelli con meno fiato rimanevano sempre più indietro, così alla fine un cavallo era alle calcagna degli ultimi e uno di loro aveva inciampato trascinando Sven e qualche altro nella caduta, come in una valanga. Sven si era ritrovato disteso sotto un tubo di scarico, da terra vedeva il cavallo danzare sopra di lui, ritto sulle zampe posteriori, e il poliziotto tendere la sciabola lungo il collo dell’animale. Era rimasto ad aspettare che il cavallo si abbattesse su di lui con tutto il suo peso e aveva chiuso gli occhi nell’attesa, ma non era successo niente e, quando li aveva riaperti, il cavallo stava galoppando giù verso l’imboccatura della via. Si era districato dal groviglio ed era strisciato lungo il muro per poi infilarsi in un portone, dove era rimasto a lungo, con le gambe molli e, nello stomaco, uno spesso grumo di terrore che si rivoltava e voleva salire.

“Anche i nazi fanno la mannifestazione?” domandò Göran. “Canteremo l’Internazionale? La senti, la musica?” “Eh?” fece Sven. “Suonano”, disse Göran, e intanto arrivarono in Karlaplan. La fontana zampillava e bianche barchette a vela sfrecciavano avanti e indietro nel bacino. “Cacchio, quante barche!” disse Göran. “Andiamo a vedere”. “Dai che adesso arrivano”, disse Sven, e affrettarono il passo attraversando la piazza. C’era un po’ di spazio nella fila di spettatori, all’angolo di Karlavägen, e loro ci si infilarono veloci. “Li vedi?” chiese Göran allungando il collo, ma ancora non si vedeva niente e quasi non si sentiva nemmeno niente, perché quelli dietro parlavano e ridevano e spingevano. Una piccola automobile nera, con il tettuccio aperto, passò così vicino alla folla che si sarebbe detto un invito a salire.

“Bella macchina”, disse Göran, “proppio come quella di Barcellona”. “Ma sei matto?” rispose Sven, “quello era un camion ed era della C.N.T, e stavano tutti in piedi sul cassone”.

“Però Erik è più vecchio di quello lì”, disse Göran indicando l’autista che cercava di voltare la macchina senza fare il giro della piazza. “Adesso sarà in aviazione”, disse Sven, “con le Brigate internazionali”. Pronunciò queste parole, che gli pareva avessero una loro solennità, in tono grave e dignitoso, e benché non avesse che tredici anni, sapeva con la stessa certezza con cui sapeva di trovarsi in quel momento in Karlaplan che in Spagna si combatteva e perché si combatteva, e che in un modo o nell’altro era coinvolto anche lui. Sapeva che le bandiere e i canti, oggi, erano tutti per la Spagna.

“Vedi l’aereo?” domandò Göran, e tutti e due stettero a guardarlo come un puntino nel cielo che discese e sparì dietro il fogliame verde degli alberi di Narvavägen. Poi però tornò finalmente la musica, ormai era vicinissima e si vedevano le bandiere rosse sopra la folla. Ecco, ora entravano nella piazza, il vento le faceva sventolare e si videro anche gli uomini alla testa del corteo, sudati. Poi venivano una serie di striscioni e la banda che suonava. “È l’Internazionale?” domandò il fratellino, ma era Figli del lavoro ed era una grande banda, più grande di quella del corpo di guardia, e tra i musicisti Sven riconobbe un ragazzo che era stato in classe con lui. Poi vennero altri striscioni, Sven li leggeva ad alta voce e li traduceva per Göran, in ultimo sfilò un interminabile corteo di persone senza bandiere né striscioni, ogni tanto però spuntava una bandiera, creando subito un po’ di varietà. Più o meno come la foto su una rivista, pensò Sven, poi Göran, che aveva sete, era stanco e aspettava il suo gelato, domandò: “Adesso arrivano mamma e papà?” “Ancora no”, rispose Sven: “Non sono in questo corteo, ma dopo arriveranno”. “Allora posso avere il mio gelato?” disse Göran. Ma la manifestazione durò ancora a lungo, la folla sui marciapiedi si accalcava e gli uomini del servizio d’ordine, sudati e con la fascia al braccio, sfilavano davanti a loro. 

“Dopo quelle urla era calato il silenzio, un breve istante di silenzio, perché poi gli zoccoli dei cavalli avevano cominciato a battere sulla strada”.

Göran cominciava ad annoiarsi, si guardava intorno e guardava pieno di desiderio la fontana in mezzo alla piazza, dall’altra parte della strada, che zampillava alta verso il cielo. “Cacchio, quanto va su l’acqua, eh!” disse guardando su in alto, dove la schiuma turbinava e scintillava in tutti i colori dell’arcobaleno. Anche Sven alzò lo sguardo, e avrebbe voluto dire qualcosa di rinfrescante, ma si confuse. Quel che voleva dire gli si fermò in gola. Deglutì. Restò solo a guardare. Fisso, verso un punto subito sopra lo zampillo della fontana. “Cosa c’è?” chiese Göran, ma poi vide anche lui. Vide un balcone della casa alta dietro la fontana, un balcone grande, forse il più grande che avesse mai visto, con un parapetto di ferro nero e un vaso da fiori verde sul bordo. Su quel balcone c’erano cinque persone. La prima era una ragazza, dritta e rigida, accanto a lei c’era un giovane a capo scoperto, e dietro di loro tre uomini, molto giovani, con la schiena drittissima, quasi rigidi, anche loro a capo scoperto, e con un’espressione grave in viso. E tutto il gruppo, tutti questi cinque che se ne stavano lì al sole sul balcone, in posa rigida e a talloni uniti, tenevano il braccio alzato e teso, e non era ginnastica, era il saluto fascista.

“Nazi”, sussurrò Göran, lo sussurrò a voce molto bassa, guardò suo fratello e vide la nuova collera che gli si dipingeva in volto e sentì la sua mano stringersi. Poi la folla dei manifestanti si diradò, ci fu un momento di pausa nella marcia e la gente che fino ad allora aveva taciuto cominciò a parlare, e per tutto il tempo quei cinque rimasero lì sul balcone che guardava la piazza, immobili e con le braccia tese. Dalla folla intorno alla fontana si staccò un uomo in trench, stivali e cinturone militare; attraversò la strada a passo lento in direzione di Sven e Göran, con un pacco di giornali tenuto disinvoltamente sotto il braccio. Passò accanto agli spettatori, come passeggiando, e Göran lo riconobbe, non lui, ma il suo genere, e capì che era uno di quelli che si riunivano nel parco vicino a casa il mercoledì sera, per poi scendere fino a Slussen: in testa tamburi e drappi con la croce uncinata, il manganello infilato sotto la camicia dell’uniforme. Poi arrivò un poliziotto con il suo cavallo al passo, si fermò e l’uomo con gli stivali gli si avvicinò e gli parlò a bassa voce, e alla fine si separarono e da Karlavägen arrivò la musica, che coprì il mormorio della fontana. 

Arrivarono anche le bandiere al vento, e quando i portabandiera gli passarono davanti, Göran li riconobbe e capì che quello era il loro corteo. Tirò Sven per il braccio lanciando allo stesso tempo un’occhiata verso l’alto, oltre la fontana, e provò una specie di rabbia vedendo quei cinque con il braccio teso, anche davanti al suo corteo. Poi Sven se lo tirò dietro, perché papà e mamma erano nel corteo e c’era posto anche per loro. La banda, in testa, suonava l’Internazionale, Sven guardò indietro e fece ancora in tempo a vedere i quattro giovani uomini e la giovane donna sul balcone prima di svoltare e uscire dalla piazza. E provò un sentimento che non era propriamente collera, che non era propriamente niente di simile ai sentimenti che aveva provato fino ad allora, e si ricordò di quella scena per tutto il giorno, al Gärdet, mentre i discorsi del Primo maggio si levavano scoppiettanti verso il cielo e poi mentre la folla rifluiva di nuovo in città.

Non se la ricordò solo quel giorno. Se la ricordò mentre Madrid combatteva per la sopravvivenza e i preti fascisti allestivano sui campanili postazioni per i cecchini, e quando Erik morì a Guadalajara. E se la ricordò con grande chiarezza quando cadde Barcellona, quando tutto finì nel 1939, se la ricordò quando scoppiò la guerra e quando le armate tedesche si innalzarono ai vertici della gloria. Poi se la ricordò il 9 aprile.* Poi se la ricordò per Stalingrado. Poi se la ricordò per Amburgo. Poi se la ricordò quando un paio di compagni di classe, smarriti, furono arrestati per spionaggio a favore dei nazisti. E poi se la ricordò un giorno d’aprile del 1944, quando passò da Karlaplan e vide il balcone al quinto piano della casa. Allora pensò (e sapeva che era vero): il balcone è crollato. Era stata una tragedia per chi stava lassù e una gioia per tutti quelli che stavano in strada, che marciavano con le bandiere al vento quella volta, nel 1937. Sì, una grande tragedia e una grande gioia. E sapeva che c’erano molti balconi crollati in quella città di balconi. Lo sapeva mentre, un limpido pomeriggio dell’aprile 1944, passava accanto alla fontana, morta in inverno.

* Il 9 aprile 1940 le truppe tedesche invasero la Danimarca.

C’era una volta un mese di maggio -

Questo racconto è un estratto da L’uomo che non voleva piangere di Stig Dagerman (Iperborea, 2025), traduzione e postfazione di Fulvio Ferrari: ringraziamo l’editore per la concessione.

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