Pura felicità - Lucy
racconto

Pura felicità

11 Novembre 2024

Sono pochissimi gli scrittori che riescono a fermare sulla pagina il fremito delle cose che esistono. Tra questi c'è Katherine Mansfield che, nei suoi libri, pone al centro quella che Sara De Simone, curatrice di una nuova edizione di racconti per Feltrinelli, chiama "vita della vita".

Pura felicità

Nonostante i suoi trent’anni, Bertha Young aveva ancora momenti come quello, momenti in cui voleva correre invece che camminare, salire e scendere dal marciapiede a passo di danza, giocare con il cerchio, lanciare qualcosa in aria e riacciuffarlo al volo, o starsene ferma e ridere, ridere di nulla – proprio di nulla.

Che si può fare se a trent’anni, girato l’angolo della propria strada, ci si sente improvvisamente sopraffatti da un sentimento di pura felicità – felicità assoluta! – come se uno, di colpo, avesse inghiottito un frammento luminoso di quel sole tardo pomeridiano, e questo gli bruciasse nel petto, diffondendo una pioggia di scintille in ogni particella, in ogni dito della mano e del piede…?

Oh, ma c’è un modo di esprimerlo senza sembrare degli “ubriachi molesti”? Com’è idiota la civiltà! Perché mai ci è dato un corpo, se poi bisogna tenerlo chiuso in una custodia come un raro, rarissimo violino?

“No, questa faccenda del violino non è proprio quello che intendo,” pensò, mentre saliva in fretta i gradini e frugava nella borsa in cerca della chiave – come sempre, l’aveva dimenticata – e faceva tintinnare la cassetta della posta. “Non è quello che intendo, perché… Grazie, Mary” – entrò nell’atrio. “È rientrata la bambinaia?”

“Sissignora.”

E la frutta è arrivata?”

“Sissignora. È arrivato tutto.”

“Porti la frutta in sala da pranzo per favore. La sistemerò prima di andare di sopra.”

La sala da pranzo era semibuia e piuttosto fredda.

Bertha si tolse ugualmente il cappotto; non poteva sopportare quella stretta un minuto di più, e l’aria fredda le piombò sulle braccia.

Ma nel petto c’era ancora quel frammento luminoso e ardente – quella pioggia di scintille. Era quasi insopportabile. A malapena si azzardava a respirare per paura che le bruciasse di più, e tuttavia respirò a fondo, a fondo. A malapena si azzardava a guardare nello specchio freddo – ma guardò, e quello le restituì l’immagine di una donna raggiante, con le labbra frementi, sorridenti, e grandi occhi neri e l’aria di chi è in ascolto, in attesa di qualcosa di… divino che accada… che sapeva sarebbe accaduto… immancabilmente.

Mary portò la frutta su un vassoio assieme a una ciotola di vetro e un piatto blu, molto bello, con una strana lucentezza, come se fosse stato immerso nel latte.

“Accendo la luce, signora?”

“No grazie, ci vedo ancora bene.”

C’erano mandarini e mele screziate di rosa fragola.

Qualche pera gialla, liscia come la seta, dell’uva bianca ricoperta da una patina d’argento e un grosso grappolo di uva viola. L’aveva comprata perché s’intonava col nuovo tappeto della sala da pranzo. Sì, poteva sembrare forzato, assurdo, ma aveva comprato l’uva proprio per quello. Mentre era nel negozio aveva pensato: “Devo proprio prendere qualcosa di viola per abbinare il tappeto al tavolo”. E lì per lì le era sembrato più che ragionevole.

Quand’ebbe finito, e composto due piramidi di quelle splendide forme tondeggianti, si allontanò dal tavolo per vedere l’effetto – che era davvero singolare. Perché il tavolo scuro sembrava dissolversi nella penombra ed era come se il piatto di vetro e la ciotola blu fluttuassero nell’aria. Questo, visto il suo stato d’animo, le parve incredibilmente bello… Cominciò a ridere.

“No, no. Sto diventando isterica.” Afferrò la borsa e il cappotto, e salì svelta al piano di sopra, nella nursery.

La bambinaia era seduta a un tavolino basso e dava da mangiare a Little B dopo il bagnetto. La bimba aveva un camiciotto di flanella bianca e una giacchina di lana azzurra, e i capelli, bruni e sottili, erano pettinati all’insù con una buffa crestina. Quando vide la madre alzò lo sguardo e si mise a saltellare.

“Su, tesoruccio, mangia tutto, da brava,” disse la bambinaia, atteggiando le labbra in un modo che Bertha conosceva, e che significava che ancora una volta era entrata nella nursery al momento sbagliato.

“Si è comportata bene, Tata?”

“Un angelo, tutto il pomeriggio,” sussurrò la Tata. “Siamo andate al parco, io mi sono seduta su una sedia e l’ho presa dal passeggino, poi è arrivato un cagnone che mi ha messo la testa sulle ginocchia e lei gli ha afferrato un orecchio e l’ha tirato. Oh, doveva vederla.”

Bertha avrebbe voluto chiedere se non era pericoloso lasciare che tirasse le orecchie di cani sconosciuti. Ma non osò. Rimase a guardarle, le mani lungo i fianchi, come la ragazzina povera davanti alla ragazzina ricca con la bambola.

La bimba alzò di nuovo gli occhi, la fissò, poi sorrise in modo così irresistibile che Bertha non poté trattenersi dal gridare: “Oh, Tata, lasci che finisca io di darle da mangiare, mentre lei sistema le cose del bagnetto!”.

“Qualche pera gialla, liscia come la seta, dell’uva bianca ricoperta da una patina d’argento e un grosso grappolo di uva viola. L’aveva comprata perché s’intonava col nuovo tappeto della sala da pranzo”.

“Be’, signora, non dovrebbe passare da una mano all’altra mentre mangia,” disse la Tata, sempre sussurrando. “La scombussola; basta un niente a inquietarla.” Che assurdità. Perché mai avere un bambino se lo si deve tenere – non chiuso in una custodia come un raro, rarissimo violino – ma fra le braccia di un’altra donna?

“Oh, devo proprio!” disse lei.

Molto offesa, la Tata gliela porse.

“Non me la ecciti dopo la pappa. Lo sa che con lei succede, signora. E dopo passo io con lei dei brutti quarti d’ora!”

Grazie al cielo! La Tata uscì dalla stanza con gli asciugamani da bagno.

“Ora ti ho tutta per me, mio piccolo tesoro,” disse Bertha, mentre la bimba si appoggiava a lei.

Mangiava che era una delizia, sporgendo le labbra verso il cucchiaio e agitando le manine. A volte non voleva lasciare andare il cucchiaio, altre, appena Bertha lo aveva riempito, lo spargeva ai quattro venti.

Finita la minestrina, Bertha si rivolse verso il camino.

“Sei carina, sei così carina!” disse baciando la sua bimba calda. “Ti adoro. Mi piaci.”

Amava davvero così tanto Little B – il suo collo proteso in avanti, le dita squisite dei piedini che brillavano trasparenti alla luce del fuoco – che quel sentimento di pura felicità tornò di nuovo, ma ancora una volta lei non sapeva come esprimerlo – che cosa farne.

“È desiderata al telefono,” disse la Tata, rientrando trionfante e riprendendosi la sua Little B.

Corse giù. Era Harry.

“Oh, sei tu Ber? Senti, farò tardi. Prenderò un taxi e cercherò di arrivare il prima possibile, ma tu ritarda la cena di dieci minuti se puoi. Va bene?”

“Sì, benissimo. Oh, Harry!”

“Sì?”

Che aveva da dire? Non aveva niente da dire. Voleva solo sentirsi in contatto con lui per un istante. Non poteva certo mettersi a gridare in modo assurdo: “Che giornata divina è stata!”.

“Che c’è?” fece bruscamente la vocina.

“Niente. Entendu,” disse Bertha, e riappese il ricevitore, pensando a quanto la civiltà fosse più che idiota.

Avevano ospiti a cena. I Knight – una coppia molto perbene – lui sul punto di aprire un teatro, lei appassionatissima di decorazione d’interni; un giovanotto, Eddie Warren, che aveva appena pubblicato un libriccino di poesie e che tutti invitavano a cena; e Pearl Fulton, una “scoperta” di Bertha. Che cosa facesse Miss Fulton, Bertha non lo sapeva. Si erano conosciute al club e Bertha si era innamorata di lei, come sempre le capitava di innamorarsi delle donne belle che avevano un che di strano.

La cosa intrigante era che, sebbene si fossero viste diverse volte e avessero parlato a fondo, Bertha non riusciva a metterla a fuoco. Fino a un certo punto, Pearl Fulton era meravigliosamente sincera, come sanno esserlo in pochi, ma quel “certo punto” era lì, e lei non andava oltre.

Ma c’era davvero qualcosa oltre? Harry diceva di no. La reputava insipida e “fredda come tutte le bionde, con un pizzico, forse, di anemia cerebrale”. Bertha non era d’accordo; non ancora, almeno.

“No, quel suo modo di sedersi con la testa un po’ piegata di lato, sorridendo… C’è qualcosa dietro, Harry, e io devo scoprire cos’è.”

“Con ogni probabilità c’è uno stomaco di ferro,” replicò Harry.

Gli piaceva punzecchiare Bertha con risposte di quel tipo… “Fegato congestionato, mia cara,” oppure “pura flatulenza”, o ancora “disturbi ai reni”… e così via. Per qualche strana ragione a Bertha piaceva, e quasi lo ammirava per questo.

Andò in salotto e accese il fuoco; poi prese i cuscini uno per uno – quelli che Mary aveva sistemato con tanta cura – e li lanciò su poltrone e divani. La differenza era tutta lì: in un attimo, la stanza prese vita. Era sul punto di lanciare l’ultimo cuscino quando si sorprese a stringerlo a sé, con passione, con passione. Ma questo non placò la fiamma che aveva nel petto. Oh, al contrario!

Le finestre del salotto si aprivano su una terrazza che dava sul giardino. In fondo, contro il muro, c’era un alto ed esile albero di pere in piena, florida fioritura; se ne stava lì, perfetto, come arenato contro il cielo verde giada. Bertha non poté fare a meno di sentire, anche a quella distanza, che non aveva neppure un germoglio o un petalo appassito. In basso, nelle aiuole del giardino, i tulipani rossi e gialli, tutti fioriti, sembravano curvare i loro steli sul crepuscolo. Un gatto grigio avanzava attraverso il prato strisciando sulla pancia, seguito da uno nero, la sua ombra. A vederli così assorti, così rapidi, Bertha sentì uno strano brivido.

“Che creature sinistre sono i gatti!” balbettò, e si allontanò dalla finestra, e cominciò a camminare avanti e indietro…

Com’era forte il profumo delle giunchiglie nella stanza calda! Troppo forte? Oh, no. Eppure, come sopraffatta, si lasciò cadere sul divano e si premette le mani sugli occhi.

“Sono troppo felice – troppo felice!” mormorò.

E le parve di vedere attraverso le palpebre chiuse il bel pero con tutti i boccioli aperti, come un simbolo della sua stessa vita.

Davvero – davvero – aveva tutto. Era giovane. Lei e Harry erano innamorati come sempre, e andavano magnificamente d’accordo ed erano davvero buoni amici. Aveva una bambina incantevole. Del denaro non c’era da preoccuparsi. La casa e il giardino erano assolutamente soddisfacenti. E avevano amici moderni, amici entusiasmanti, scrittori e pittori e poeti e persone che s’interessavano di questioni sociali – proprio il genere di amici che desideravano. E poi c’erano i libri, c’era la musica, e lei aveva trovato una fantastica sartina, e sarebbero andati all’estero quell’estate, e la loro nuova cuoca faceva delle omelette squisite…

“Sono assurda. Assurda!” Si tirò su; ma si sentì così stordita, come se fosse ubriaca. Doveva essere la primavera.

Sì, era la primavera. Era talmente stanca da non riuscire a trascinarsi di sopra per vestirsi.

Un vestito bianco, una collana di perle di giada, scarpe e calze verdi. Nulla di premeditato: aveva pensato a quella mise molte ore prima di affacciarsi alla finestra del salotto.

Nell’atrio i petali frusciavano appena, mentre lei baciava la signora Knight, che si stava sfilando un cappotto divertentissimo, color arancio con una processione di scimmiette nere sull’orlo e sul davanti.

“…Perché?! Perché?! Perché la borghesia è così noiosa – così assolutamente priva di senso dell’umorismo? Mia cara, è solo per un caso fortunato che sono qui, e il caso fortunato è Norman. Perché le mie care scimmiette hanno così scombussolato il treno che tutti sono saltati su e mi hanno semplicemente divorato con gli occhi. Non ridevano – non erano divertiti – quello mi avrebbe fatto piacere. No, mi fissavano e basta – una seccatura infinita.”

“Ma la ciliegina sulla torta è stata…” disse Norman, premendo sull’occhio un grosso monocolo cerchiato di tartaruga. “Non ti dispiace se lo racconto, vero, Face?” (A casa e fra amici si chiamavano “Face” e “Mug”.“La ciliegina è stata quando lei, che non ne poteva più, si è girata verso la donna seduta accanto e le ha detto: ‘Non ha mai visto una scimmia in vita sua?’.”

“Oh, sì!” La signora Knight si unì alla risata. “Non è stata proprio la ciliegina, quella?”

Pura felicità -

E la cosa più divertente era che, tolto il cappotto, sembrava davvero una scimmia molto intelligente, così intelligente da essersi cucita quel vestito di seta gialla con le bucce di banana. Quanto agli orecchini d’ambra, sembravano delle noccioline penzolanti.

“Come si cade in basso!” disse Mug, fermandosi davanti al passeggino di Little B. “Quando il passeggino arriva nell’atrio di casa…” e con un gesto della mano lasciò cadere il resto della citazione.

Il campanello suonò. Era lo smunto, pallido Eddie Warren, come sempre in uno stato di grande smarrimento.

“È la casa giusta, vero?” supplicò.

“Oh, credo di sì – voglio sperarlo,” disse Bertha in tono brillante.

“Ho avuto un’esperienza spaventosa con un tassista, un tipo assolutamente inquietante. Non riuscivo a farlo fermare. Più bussavo e lo chiamavo, più lui accelerava. E al chiaro di luna, quella figura bizzarra con la testa schiacciata, china su quel pic-colo volante…”

Rabbrividì, mentre si toglieva un’immensa sciarpa di seta bianca. Bertha notò che anche i calzini erano bianchi – elegantissimi.

“Davvero spaventoso!” esclamò lei.

“Sì, davvero,” disse Eddie, seguendola in salotto. “Mi sono visto correre per l’Eternità in un taxi atemporale.”

Conosceva i Knight. Avrebbe scritto una commedia per N.K., una volta che il progetto del teatro fosse decollato.

“Ebbene, Warren, come va con la commedia?” chiese Norman Knight, togliendosi il monocolo e concedendo all’occhio un momento per risalire in superficie, prima di ricacciarlo giù.

E la signora Knight: “Oh, signor Warren, che calzini indovinati!”.

Molto felice che le piacciano,” disse lui, guardandosi i piedi. “Da quando è spuntata la luna mi sembra si siano fatti perfino più bianchi.” E rivolse la giovane faccia smunta e dolente verso Bertha. “Sa, c’è una luna.”

Lei avrebbe voluto gridare: “Sono sicura che c’è – spesso – spesso!”.

Lui era davvero affascinante. Ma anche Face lo era, accucciata davanti al fuoco nelle sue bucce di banana, e così pure Mug, che fumava una sigaretta scrollando la cenere con dei colpetti: “Poiché lo sposo tardava…” disse.

“Eccolo che arriva.”

La porta si aprì e si richiuse con un tonfo. “Salve, gente! Cinque minuti e scendo,” gridò Harry. Lo sentirono affrettarsi su per le scale. Bertha non poté fare a meno di sorridere. Sapeva quanto amasse fare le cose sotto pressione. In fondo che cambiavano cinque minuti in più? Ah, ma lui avrebbe preteso che fossero determinanti. E poi si sarebbe fatto un punto d’onore ad arrivare in salotto esageratamente calmo e composto.

Harry aveva un tale gusto per la vita. Oh, quanto le piaceva questo aspetto di lui. E la sua combattività – quel suo modo di cercare in ogni ostacolo una nuova prova della sua forza, del suo coraggio – lei capiva anche questo. Anche se qualche volta lo rendeva un po’ ridicolo agli occhi degli altri, di chi non lo conosceva bene. Perché c’erano momenti in cui lui si buttava in battaglia, quando di battaglie non c’era neanche l’ombra… Lei chiacchierò e rise, e finché Harry non entrò in salotto (proprio come se l’era immaginato), si scordò completamente che Pearl Fulton non era arrivata.

“Che si sia dimenticata?”

“Suppongo di sì,” disse Harry. “È sull’elenco telefonico?”

“Ah! Ecco che arriva un taxi.” E Bertha sorrise con quell’arietta da proprietaria che assumeva sempre con le sue scoperte femminili nuove e misteriose. “Lei sui taxi ci vive!”

“Allora finirà per ingrassare,” disse Harry seraficamente, suonando il campanello per la cena. “Pericolo spaventoso per le bionde.”

“Harry… smettila,” lo ammonì Bertha, ridendo.

Passò un altro breve istante, mentre tutti aspettavano, ridevano e parlavano, un po’ troppo a loro agio, un po’ troppo incuranti. E poi Miss Fulton apparve, tutta in argento, con un nastro d’argento a reggerle i capelli biondo chiaro, sorridendo, con la testa un po’ piegata di lato. “Sono in ritardo?”

“No, affatto,” disse Bertha. “Entra.” La prese per un braccio, e si avviarono in sala da pranzo.

Cosa c’era nel tocco di quel braccio fresco che riusciva a ravvivare – sì, ravvivare – che faceva fiammeggiare – fiammeggiare – quel fuoco di pura felicità di cui Berta non sapeva che fare?

Miss Fulton non la guardò; ma raramente guardava in faccia le persone. Le palpebre pesanti le coprivano gli occhi, e uno strano mezzo sorriso le andava e veniva sulle labbra, come se vivesse più ascoltando che guardando. Ma improvvisamente Bertha capì, come se si fossero scambiate il più lungo, il più intimo degli sguardi – come se si fossero dette: “Anche tu?” – che Pearl Fulton, mentre rigirava la bella zuppa rossa nel piatto grigio, provava esattamente quello che provava lei.

E gli altri? Face e Mug, Eddie e Harry, con i cucchiai che si alzavano e abbassavano – mentre si tamponavano le labbra coi tovaglioli, sbriciolavano il pane, giocherellavano con forchette e bicchieri, e chiacchieravano.

“L’ho incontrata allo spettacolo dell’Alpha – una personcina davvero bizzarra. Non solo si era tagliata i capelli, ma sembrava avesse tagliato via una grossa porzione di gambe, braccia, collo, e perfino del suo povero nasino.”

“Non è molto lièe con Michael Oat?”

“Quello che ha scritto Amore con la dentiera?” “Vuole scrivere uno spettacolo per me. Atto unico. Un solo personaggio. Decide di suicidarsi. Espone tutte le ragioni per farlo o per non farlo. E proprio quando si è deciso a farlo o non farlo – sipario. Non male come idea.”

“E che titolo gli darà: Disturbi di stomaco?”

“Ho l’impressione di essermi imbattuto nella stessa idea in una pic-cola rivista francese, che in Inghilterra non conosce nessuno.”

No, loro non condividevano quella sensazione. Erano cari – cari – e lei era felice di averli lì, alla sua tavola, e di offrire loro cibo e vino deliziosi. In realtà, avrebbe proprio voluto dirglielo, quanto erano adorabili, e che bel gruppetto decorativo formavano, com’erano ben assortiti, quanto le ricordavano una commedia di Čechov!

Harry si stava godendo la cena. Faceva parte della sua – be’ non esattamente della sua natura, e certo non delle sue pose, ma del suo… qualunque cosa fosse… parlare di cibo e gloriarsi della propria “passione smodata per la polpa bianca dell’aragosta” e “il colore del gelato al pistacchio – verde e gelido come le palpebre delle danzatrici egiziane”.

“La cosa più divertente era che, tolto il cappotto, sembrava davvero una scimmia molto intelligente, così intelligente da essersi cucita quel vestito di seta gialla con le bucce di banana”.

Quando la guardò e disse: “Bertha, questo soufflé è una meraviglia!” si sarebbe quasi messa a piangere di gioia, come una bambina. Oh, ma perché quella sera si sentiva così tenera verso il mondo intero? Tutto era buono – era giusto. Tutto quello che accadeva sembrava colmare la sua coppa già traboccante di felicità.

Eppure nella sua mente, sullo sfondo, c’era l’albero di pere. Ora, alla luce della luna del povero caro Eddie, doveva essere d’argento, proprio come Pearl Fulton, che sedeva rigirandosi un mandarino tra le dita snelle e così pallide che sembrava emanassero luce.

La cosa che proprio non riusciva a capire – la cosa miracolosa – era come aveva fatto lei a indovinare lo stato d’animo dell’altra con tanta precisione, così all’istante. Perché neppure per un momento aveva pensato di essersi sbagliata, eppure, cosa aveva in mano per dirlo? Meno di niente.

“Credo che questo capiti di rado, molto di rado, fra donne. Fra uomini, mai,” pensò Bertha. “Ma quando servirò il caffè in salotto, lei forse mi darà un ‘segno’.”

Che cosa intendesse per “segno” non lo sapeva nemmeno lei, e che cosa sarebbe potuto accadere dopo non riusciva neanche a immaginarlo.

Mentre faceva questi pensieri, si vide intenta a chiacchierare e ridere. Doveva chiacchierare, perché aveva voglia di ridere.

“Devo ridere, o muoio.”

Ma quando notò la piccola buffa abitudine di Face di infilarsi qualcosa nel bustino – come se tenesse una piccola riserva segreta di noccioline anche lì – Bertha dovette affondare le unghie nei palmi delle mani, per non ridere troppo.

Era finita, finalmente. “Venite a vedere la mia nuova macchina del caffè,” disse Bertha.

“Qui si cambia macchina del caffè non più di una volta ogni due settimane,” disse Harry. Fu Face a prenderla sottobraccio questa volta; Miss Fulton piegò la testa di lato e le seguì.

Il fuoco si era affievolito e sembrava un “nido di piccole fenici”, rosso e tremolante, disse Face.

“Lasciate la luce spenta ancora per un momento. È così bello.” E di nuovo si accucciò davanti al camino. Aveva sempre freddo… “ Senza il suo giacchino di flanella rossa, naturalmente,” pensò Bertha.

In quel momento Miss Fulton “diede il segno”.

“Avete un giardino?” mormorò la fredda voce sonnolenta.

Lo disse in modo così squisito che Bertha non poté che obbedire. Attraversò la stanza, tirò le tende e aprì le lunghe finestre.

“Ecco!” sussurrò.

E le due donne rimasero fianco a fianco, a guardare l’esile albero in fiore. Nonostante fosse così fermo, sembrava, come la fiamma di una candela, allungarsi, affilarsi, palpitare nell’aria chiara, e crescere, crescere sempre più davanti ai loro occhi – quasi fino a lambire l’orlo della tonda luna d’argento.

Per quanto rimasero così? Entrambe, per così dire, catturate in quel cerchio di luce sovrannaturale, in una comprensione perfetta l’una dell’altra, creature di un altro mondo, incerte su cosa fare in questo con tutto quel tesoro di felicità che bruciava nei loro petti e grondava sotto forma di fiori d’argento dai loro capelli e dalle loro mani.

Per sempre – per un momento? E Miss Fulton aveva mormorato: “Sì. Proprio questo”. O era stata Bertha a sognarlo?

Ma di colpo la luce si accese, Face si mise a fare il caffè e Harry disse: “Mia cara signora Knight, non chiedermi di mia figlia. Non la vedo mai. Non proverò il minimo interesse nei suoi confronti finché non avrà un fidanzato”, e Mug tirò per un momento l’occhio fuori dalla teca e poi lo rimise sotto vetro, e Eddie Warren bevve il suo caffè e appoggiò la tazza con una smorfia di angoscia, come se dopo aver bevuto avesse visto il ragno sul fondo.

“Quello che voglio fare è offrire un palcoscenico ai giovani. Sono convinto che Londra brulichi di commedie di prim’ordine, non ancora scritte. Quello che voglio dire ai giovani è: ‘Ecco il teatro. Fatevi avanti’.”

“Sai, cara, devo decorare una stanza per Jacob Nathan e signora. Oh, sono così tentata di fare uno schema a spina di pesce fritto, con gli schienali delle sedie a forma di padelle e adorabili patatine fritte ricamate sulle tende.”

“Il guaio coi nostri scrittori giovani è che sono ancora troppo romantici. Non si può viaggiare per mare senza avere il mal di mare e aver bisogno di una bacinella. Bene, perché non hanno il coraggio di usarle, queste bacinelle?”

“Una poesia terribile su una ragazza che era stata violentata da un mendicante senza naso in un piccolo bosco.”

Miss Fulton sprofondò nella poltrona più bassa e profonda, mentre Harry fece il giro per offrire le sigarette.

Dal modo in cui le stava di fronte, scuotendo la scatola argentata e domandando brusco: “Egiziana? Turca? Virginia? Sono tutte mischiate”, Bertha si rese conto che non solo Miss Fulton lo annoiava, ma che non gli piaceva affatto. E dal modo in cui Miss Fulton rispose: “No, grazie, non ho voglia di fumare” fu certa che anche lei se n’era accorta, e la cosa la ferì.

“Oh Harry, non volerle male. Ti sbagli sul suo conto. È meravigliosa, meravigliosa. E poi, come puoi pensarla così diversamente su qualcuno che significa tanto per me? Stanotte, quando saremo a letto, proverò a spiegarti cosa è successo. Cosa abbiamo condiviso io e lei.”

Pura felicità -

A quelle ultime parole qualcosa di strano e quasi terrificante attraversò la mente di Bertha. E questo qualcosa, cieco e sorridente, le sussurrò: “Presto gli ospiti se ne andranno. La casa si farà silenziosa – silenziosa. Le luci verranno spente. E tu e lui sarete soli – nel buio della camera – nel letto caldo…”.

Saltò su dalla poltrona e corse verso il pianoforte.

“Peccato che nessuno suoni!” gridò. “Peccato che nessuno suoni.”

Per la prima volta in vita sua Bertha Young desiderava suo marito. Oh, l’aveva amato – ne era stata innamorata, naturalmente, in tutti gli altri modi, ma in quello proprio no. E del resto, naturalmente, aveva capito che per lui era diverso. Ne avevano discusso tante volte. Inizialmente l’idea di essere così fredda l’aveva molto spaventata, ma dopo un po’ la cosa sembrò non essere tanto importante. Erano così schietti l’uno con l’altra – così buoni amici. Era questa la parte migliore dell’essere moderni.

Ma ora – ardentemente, ardentemente! La parola tormentava il suo corpo ardente! Era a questo che aveva voluto condurla quel sentimento di felicità? Ma allora, allora…

“Mia cara,” fece la signora Knight, “conosci la nostra infamia. Siamo vittime degli orari e dei treni. Viviamo a Hampstead. È stata una bella serata.”

“Vi accompagno,” disse Bertha. “Sono stata felice di avervi qui. Ma non dovete perdere l’ultimo treno. È terribile quando succede, non è vero?”

“Un whisky prima di andare, Knight?” disse Harry. “No, grazie, vecchio mio.”

Per quella risposta, Bertha gli strinse la mano un po’ più forte.

“Buonanotte, arrivederci,” gridò dal pianerottolo, sentendo che la se stessa che era stata quella sera li stava salutando per sempre. Quando tornò in salotto gli altri stavano per andarsene.

“…Allora può fare un pezzo di strada in taxi con me.”

“Sarei molto grato di non dover affrontare un’altra corsa da solo dopo la mia esperienza spaventosa.”

“Potete prendere un taxi al parcheggio in fondo alla strada. Sono solo pochi passi.”

“È un sollievo. Vado a mettermi il cappotto.”

Pearl Fulton si diresse verso l’atrio e Bertha stava per seguirla quando Harry per poco non la spinse via.

“Lasci che l’aiuti.”

Bertha capì che si stava pentendo della sua scortesia, e lo lasciò fare. Che ragazzo era in certe cose… così impulsivo – così ingenuo.

Eddie e lei rimasero accanto al camino.

“Ha letto la nuova poesia di Bilk, intitolata Table d’hôte?” chiese Harry mollemente. “È davvero meravigliosa. È nell’ultimo numero di ‘Anthology’. Ce l’ha? Vorrei mostrargliela. Comincia con un verso incredibilmente bello: ‘Perché dev’esserci sempre la zuppa di pomodoro?’”

“Sì,” disse Bertha. E si diresse silenziosa verso il tavolo di fronte alla porta del salotto. Eddie le scivolò dietro. Lei prese il libretto e glielo porse; non fecero il minimo rumore.

Mentre lui lo sfogliava, lei si voltò verso l’atrio e vide… Harry con il cappotto di Pearl Fulton tra le braccia e lei che gli dava le spalle, con la testa un po’ piegata di lato. Lui gettò via il cappotto, le mise le mani sulle spalle e la girò con foga verso di sé.

Le labbra di lui dissero: “Ti adoro” e lei gli posò le dita color della luna sulle guance, e sorrise con quel suo sorriso sonnolento. Le narici di Harry fremettero; le sue labbra si piegarono in un ghigno orribile mentre sussurrava “Domani” e con un cenno delle palpebre Miss Fulton rispose: “Sì”.

“Eccola qui,” disse Eddie. “‘Perché dev’esserci sempre la zuppa di pomodoro?’ È così profondamente vero, non crede? La zuppa di pomodoro è così terribilmente eterna.”

“Le labbra di lui dissero: ‘Ti adoro’ e lei gli posò le dita color della luna sulle guance, e sorrise con quel suo sorriso sonnolento”.

“Se preferite,” disse dall’atrio la voce di Harry, molto alta, “posso chiamare un taxi e farlo arrivare qui fuori.” “Oh, no. Non è necessario,” disse Miss Fulton, e si avvicinò a Bertha porgendole le sue dita sottili. “Arrivederci. Grazie infinite.”

“Arrivederci,” disse Bertha.

Miss Fulton le strinse la mano ancora per un istante. “Il vostro incantevole albero di pere!” mormorò. E poi uscì, con Eddie che la seguiva, come il gatto nero seguiva il gatto grigio.

“Chiudo bottega,” fece Harry, esageratamente calmo e composto.

“Il vostro incantevole albero di pere – albero di pere – albero di pere!”

Bertha si precipitò verso le lunghe finestre.

“Oh, che succederà adesso?” esclamò.

Ma l’albero di pere era incantevole, e pieno di fiori, e immobile come sempre.

Questo racconto è estratto da Pura felicità di Katherine Mansfield (a cura di Sara De Simone e con un saggio di Nadia Fusini). La traduzione è sempre di Sara De Simone. Ringraziamo © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano per la gentile concessione.

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