Arturo Marzano
03 Novembre 2023
“Sionismo” è una parola utilizzata spesso con accezione negativa. Ma la storia di questo movimento politico-religioso, che ha varie sfumature ideologiche e che si può intendere al plurale, è lunga e complessa. Conoscerla è importante per inquadrare meglio quello che sta accadendo in Medio Oriente.
Che cos’è il sionismo? Un movimento di liberazione nazionale che ha permesso agli ebrei di costruire un proprio Stato nazione? Un movimento coloniale, una tipologia di settler colonialism – ‘colonialismo di insediamento’ – che ha portato alla cacciata della popolazione arabo-palestinese? Un movimento razzista, come sostenuto dalla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite n. 3379 adottata nel novembre del 1975? Se la stessa organizzazione ha poi revocato quella risoluzione nel dicembre del 1991, confermando così la assoluta strumentalità di tale affermazione, è invece rilevante rispondere alle prime due domande per meglio comprendere la natura del sionismo e le ricadute politiche che questa ideologia ha avuto in Palestina/Israele.
Il termine sionismo fu utilizzato per la prima volta il 16 maggio 1890 dallo scrittore e giornalista austriaco Nathan Birnbaum (1864-1937) sulla sua rivista «Selbst-Emanzipation!» (‘Auto-emancipazione!’) per definire un movimento politico che, oltre ad appoggiare la creazione di colonie agricole nella Palestina ottomana, come stava avvenendo da circa un decennio, cercasse l’appoggio di una potenza mondiale, a partire proprio dall’Impero ottomano, per raggiungere il sogno di un proprio Stato.
Fu però solo alcuni anni dopo che un altro giornalista, l’ungherese Theodor Herzl (1860-1904), riuscì a creare un’organizzazione politica con l’obiettivo di realizzare concretamente l’idea di una rinascita nazionale ebraica, in Eretz Israel (‘la Terra di Israele’), come il sionismo si riferiva alla Palestina ottomana, o altrove.
Nel suo volume Der Judenstaat: Versuch einer moderner Lösung der Judenfrage (‘Lo Stato degli ebrei. Tentativo di una soluzione moderna del problema ebraico’), pubblicato nel 1896, Herzl parlò di uno Stato con una propria sovranità su uno specifico territorio all’interno del quale gli ebrei avrebbero dovuto essere maggioranza della popolazione.
La morte impedì a Herzl di vedere i progressi compiuti dal sionismo in Palestina nei primi decenni del Novecento, grazie, da un lato, al sostegno della Gran Bretagna e dall’altro alla realizzazione concreta del progetto di nation-building e state-building portato avanti dal sionismo socialista.
Quale era l’ideologia alla base di questa proposta ideologico-politica? Come ha illustrato lo storico israeliano Zeev Sternhell, il sionismo laburista che dominò l’Yishuv – la comunità ebraica residente in Palestina – prima, e lo Stato di Israele poi, finì per sacrificare i valori più tipicamente socialisti e internazionalisti in nome di un nazionalismo che poco aveva a che vedere con il “modello francese” ereditato dalla Rivoluzione del 1789; centrato sul concetto di cittadinanza e di adesione alla nazione in virtù di un progetto politico democratico, era decisamente più simile al “modello tedesco” nella sua matrice herderiana, basato sull’adesione a una nazione originaria che si fondava sull’unità di sangue e di stirpe.
“Herzl parlò di uno Stato con una propria sovranità su uno specifico territorio all’interno del quale gli ebrei avrebbero dovuto essere maggioranza della popolazione”.
A conferma di quanto scrive, Sternhell cita il discorso che David Ben Gurion, leader del sionismo socialista e futuro Primo ministro di Israele, tenne al congresso di Ahdut ha-‘Avodah (‘Unione del lavoro’), il partito politico che maggiormente ne incarnava gli ideali, nel dicembre del 1922, e che rappresenta una vera e propria sintesi del suo pensiero politico. Obiettivo del movimento sionista era, per Ben Gurion, “la conquista del paese e la sua edificazione attraverso una vasta immigrazione. Tutto il resto [era]no mere parole e fraseologie. (…) [I sionisti erano] i conquistatori di questo paese”. Come sottolinea Sternhell, nel discorso di Ben Gurion non compariva “alcun accenno all’eguaglianza, alla giustizia, a valori universali o alla creazione di una società alternativa”. Il socialismo era sostanzialmente diventato “uno strumento, […] un mezzo per la realizzazione del sionismo”1, non un “collante di obiettivi universali”.
Insediamenti ebrei in Palestina dal 70 A.C. al 1947, fino al piano di partizione delle Nazioni Unite. Fonte: Center for Israel Education, 2019.
Per Ben Gurion, dunque, socialismo e sionismo erano un tutt’uno. Tuttavia, tra sionismo e socialismo, prevalse il primo. Come ha sintetizzato lo storico Ilan Greislamer, “gli obiettivi della lotta nazionale” ebbero la assoluta priorità “sul progetto collettivista”2. E la conseguenza principale di tutto ciò sui rapporti con la popolazione araba palestinese fu che quest’ultima non fu mai presa in considerazione dal progetto socialista, per il semplice motivo che non faceva parte della nazione ebraica.
Gli arabi furono infatti esclusi da ogni organizzazione e associazione sionista, a partire dall’Histadrut ‘Ha-histadrut ha-klalit shel ha-‘ovdim Be-Eretz Israel, l’organizzazione generale dei lavoratori di Eretz Israel’, il principale sindacato della Palestina britannica, cui potevano iscriversi solo i lavoratori ebrei.
Che spazio ebbero dunque gli arabi della Palestina nel progetto sionista? In che senso si può affermare che il sionismo, oltre ad essere un movimento che puntava a creare uno Stato-nazione per il popolo ebraico, fu anche un settler colonialism? A partire dalla distinzione di David K. Fieldhouse – che individua quattro diverse tipologie di colonie: le colonie di occupazione, le colonie miste, le colonie di piantagione, e le colonie pure di insediamento 3, – il sociologo israeliano Gershon Shafir ne introduce una quinta, la colonia pura di piantagione. Questa si basava sul controllo della terra da parte dei colonizzatori e sul contemporaneo impiego di manodopera, anch’essa colonizzatrice, fatta arrivare appositamente dalla madrepatria.
Secondo Shafir, i sionisti al loro arrivo in Palestina a fine Ottocento si trovarono di fronte alla scelta se realizzare una colonia di piantagione oppure una colonia pura di insediamento. Se, cioè, seguire il modello del sud degli Stati Uniti, nel quale l’economia si basava sull’impiego di lavoratori neri, da cui i bianchi si distinguevano grazie a un regime di segregazione che prevedeva la loro netta superiorità sui neri, oppure quello dell’Australia, del Sud Africa, e del nord degli Stati Uniti, in cui la popolazione indigena era stata allontanata quando non sterminata.
Il modello scelto fu una terza via, la colonia pura di piantagione, simile al modello francese in Algeria. Come scrive Shafir, gli ebrei si comportarono come “militanti nazionalisti che cercarono di creare una società ebraica omogenea in cui non vi fosse sfruttamento dei palestinesi, né competizione con i palestinesi, perché non ci sarebbero più stati palestinesi”4.
“Che spazio ebbero dunque gli arabi della Palestina nel progetto sionista? In che senso si può affermare che il sionismo, oltre a essere un movimento che puntava a creare uno Stato-nazione per il popolo ebraico, fu anche un ‘settler colonialism’?”
Se lo Stato di Israele fu il prodotto della proposta ideologica del sionismo laburista, nei decenni successivi alla sua creazione il 14 maggio 1948 due altri sionismi trovarono sostegno all’interno del discorso politico israeliano.
Il primo era il sionismo religioso, nato già a fine Ottocento, ma divenuto una tendenza rilevante a partire dalla Guerra dei sei giorni e dalla conseguente conquista, tra gli altri territori, della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est.
Se la maggioranza dei rabbini ortodossi europei si era opposta al sionismo, ritenendolo un movimento di ribellione al volere di Dio, una minoranza di loro aveva maturato una posizione diversa, sulla base della possibile combinazione tra ideali sionisti ed osservanza religiosa.
Esponente di punta del sionismo religioso era stato il rabbino lituano Abraham Isaac Kook (1865-1935), secondo il quale – nonostante il comportamento laico, per non dire anti-religioso, di molti sionisti – il sionismo aveva una natura sacra e la sua esistenza era un segno di imminente redenzione. Fu suo figlio Rav Zvi Yehuda (1891-1982) a rendere tale proposta la base su cui costruire posizioni politiche radicali dopo il 1967.
Le conseguenze della Guerra per Israele furono infatti enormi: “un’ondata di espansionismo a tinte messianiche spazzò il paese” 5. Il fatto che la guerra fosse durata sei giorni, esattamente lo stesso tempo in cui Dio aveva creato il mondo prima di riposarsi il settimo giorno, venne interpretato come un evidente segno divino. Dio stesso aveva voluto che Israele rientrasse in possesso dei luoghi più santi dell’ebraismo, a partire proprio da Gerusalemme.
Il sionismo religioso, pertanto, mise al centro della sua proposta politica la creazione di insediamenti su tutta Eretz Israel e, in particolare, la Cisgiordania, cui si riferiva con i nomi di Giudea e Samaria, così da garantire il controllo israeliano sui luoghi più sacri per l’ebraismo che si trovavano proprio in quel territorio, dalla Tomba dei patriarchi a Hebron, al Kotel (‘muro occidentale’) nella città vecchia di Gerusalemme.
Il secondo era il sionismo revisionista, anch’esso nato tra fine Ottocento e i primi del Novecento, ma rimasto un movimento di minoranza fino al 1977, quando il partito Likud (‘Consolidamento’), suo erede, vinse le elezioni politiche andando al governo.
Gerusalemme nel 1890.
Oltre a una diversa politica economica – il sionismo revisionista sosteneva l’iniziativa privata diversamente da quanto affermava la tendenza socialista, che invece credeva nel ruolo dello Stato come motore dell’economia – l’elemento più innovativo del sionismo revisionista era rappresentato da una politica più “muscolare”. Questa avrebbe dovuto essere portata avanti dall’Yishuv sia nei confronti della Gran Bretagna, ritenuta poco incline a sostenere il disegno sionista, sia degli arabi.
Per Vladimir Ze‘ev Jabotinsky (1880-1940), ideologo del sionismo revisionista, questi ultimi non avrebbero mai accettato le aspirazioni nazionali ebraiche e avrebbero certamente combattuto contro la loro realizzazione. Per questa ragione, centrale era per Jabotinsky l’utilizzo della forza: gli insediamenti ebraici avrebbero potuto svilupparsi solo dietro “un muro di ferro” che la popolazione araba non sarebbe riuscita a infrangere. Sarebbe stato quel “muro di ferro” a garantire la possibilità che il sionismo avesse successo creando in Palestina uno Stato ebraico. Jabotinsky non disegnava però un futuro di guerra. Riteneva, al contrario, che quanto prima l’opposizione araba si fosse infranta contro quel “muro”, tanto prima si sarebbe giunti ad un accordo6.
Mappa di Gerusalemme, XIX secolo.
A partire dal 1977 il Likud è stato quasi ininterrottamente al potere in Israele. Tuttavia, il sionismo dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu (1949- ), leader del Likud, è molto diverso da quello di Jabotinski. Come sottolinea la politologa Raffaella Del Sarto, quello che sempre più studiosi definiscono “sionismo neo-revisionista” è una versione radicalizzata del classico sionismo revisionista, perché gli aspetti militari hanno prevalso su quelli politici, e gli elementi messianici ed etno-religiosi sono diventati centrali, a seguito della commistione con il sionismo religioso.
Il governo israeliano che aderisce a questa ideologia, dunque, porta avanti politiche unilaterali, preferisce l’uso della forza, è convinto che la comunità internazionale sia intrinsecamente ostile a Israele ed è assolutamente contrario a perdere il controllo della Cisgiordania 7.
Da quanto detto, risulta evidente come il sionismo sia un movimento plurimo, che ha diverse anime al suo interno, la cui prevalenza ha di volta in volta orientato le politiche dello Stato di Israele. Che bilancio si può dare oggi di un movimento che ha sostanzialmente raggiunto l’obiettivo che si era prefisso, vale a dire la creazione di uno Stato nazione per il popolo ebraico? Secondo l’interpretazione del cosiddetto “post-sionismo”8, il sionismo ha sostanzialmente messo al centro della storia – e dunque della politica israeliana – un determinato soggetto, trascurando (o intenzionalmente escludendo) tutta una serie di altri soggetti. Il modo discriminatorio con cui il sionismo prima e lo Stato di Israele poi si sono relazionati con i palestinesi ha rappresentato uno dei punti di partenza del post-sionismo.
Ma a tale critica se ne sono aggiunte altre: da quella nei confronti dell’atteggiamento coloniale tenuto dagli ebrei ashkenaziti, vale a dire gli ebrei emigrati dall’Europa, verso gli “ebrei arabi”, cioè gli ebrei provenienti dai paesi a maggioranza musulmana, a quella sul modo in cui il sionismo ha portato avanti una politica maschilista e sessista9.
Dal punto di vista politico, la cifra distintiva del post-sionismo è l’idea che Israele, nato nel 1948 come Stato nazione del popolo ebraico, abbia svolto il proprio compito e debba evolvere in qualcos’altro. Nello specifico, in “uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini”. Proprio riconoscendo le discriminazioni e le sofferenze che il sionismo ha inferto al popolo palestinese – si pensi alla Nakba ‘catastrofe’ nel 1948, quando 750.000 arabi palestinesi divennero rifugiati lasciando il territorio del neonato Stato di Israele; al regime militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966; all’occupazione di Gaza e della Cisgiordania che prosegue ininterrotta dal 1967 – per il post-sionismo è necessario voltare pagina, passando da uno “Stato ebraico e democratico” come Israele si è definito nel 1992, a uno “Stato democratico per tutti i suoi cittadini”, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, nazionale, religiosa.
Porta di Damasco, Gerusalemme, 1890 circa.
Mentre termino questo articolo, la guerra tra Israele e Hamas prosegue ancora e i livelli di violenza raggiunti in questi giorni sono altissimi. Si fa dunque sempre più urgente la riflessione sul modo in cui si possa porre fine a un conflitto che dura ormai da più di 140 anni.
Secondo il post-sionismo, il solo modo perché la pace si realizzi è proprio la creazione di uno Stato unico tra il Giordano e il Mediterraneo, in cui tutti i suoi cittadini siano riconosciuti come pari. E sono molti gli intellettuali, si pensi tra i tanti al politologo americano Ian Lustick10, per i quali non esiste altra alternativa, visto che la proposta di pace basata sul principio due popoli-due Stati, su cui si fondava il processo di pace di Oslo, è ormai del tutto irrealizzabile.
Quanto realistica sia questa soluzione è difficile dirlo, ma sono in molti a credere che la situazione drammatica di questi giorni renda necessario l’impegno di tutti per lavorare concretamente in quella direzione.
Zeev Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni (Baldini & Castoldi, 1999, pp. 41-42, ed. or. 1995).
Ilan Greilsammer, Il sionismo (il Mulino, Bologna, 2007, p. 64, ed. or. 2005).
David K. Fieldhouse, Colonialism 1870-1945. An Introduction (St Martin’s Press, 1981).
Gershon Shafir, Zionism and Colonialism. A comparative Approach, in Ilan Pappe (Ed.), The Israeli/Palestine Question (Routledge, 1999, pp. 81-96, p. 88).
Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, (Rizzoli, 2001, p. 415, ed. or. 1999).
David J. Goldberg, Verso la Terra promessa. Storia del pensiero sionista (il Mulino, 1999, p. 230, ed. or. 1996).
Raffaella Del Sarto, Israel Under Siege: The Politics of Insecurity and the Rise of the Israeli Neo-Revisionist Right, (Georgetown University Press, 2017).
Laurence J. Silberstein, The Postzionism Debates. Knowledge and Power in Israeli Culture (Routledge, 1999).
Ella Shohat, Sephardim in Israel: Zionism from the Standpoint of Its Jewish Victims («Social Text», n. 19/20, 1988, pp. 1-35).
Ian S. Lustick, Paradigm Lost: From Two-State Solution to One-State Reality (University of Pennsylvania Press, 2019).
Arturo Marzano
Arturo Marzano è professore associato presso il Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa. Si occupa di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente e ha coordinato diversi progetti sul campo in Palestina. Il suo ultimo lavoro si intitola Terra laica. La religione e i conflitti in Medio Oriente (Viella, 2022).
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