E se l'amore fosse un luogo? - Lucy
articolo

Emanuele Dattilo

E se l’amore fosse un luogo?

Tentiamo da sempre di definire e mappare l'amore, invano. Ma se invece di viverlo come un sentimento provassimo a immaginarlo come uno spazio?

Nonostante tutti gli sforzi di definire, descrivere e catalogare sempre più minuziosamente il desiderio erotico, in tutte le sue forme e declinazioni, c’è qualcosa nell’amore che rimane oscuro e intangibile, che si sottrae a ogni domanda di conoscenza. Ne vorremmo fare l’oggetto di un sapere chiaro e condiviso, trasmissibile, che si insegna nelle scuole e nelle università, eppure amore resta il luogo dello smarrimento, del balbettio, la notte oscura dell’anima.

In questa notte profonda Eros dorme il suo sonno beato, non turbato dalle nostre smanie classificatorie, dai nostri stolidi tentativi di appropriazione – ma ecco, si risveglia, secondo la favola, solo per la cera bruciante di una candela che Psiche gli avvicina, nel buio, per osservarlo. Quale può essere la nostra candela? 

Nessuno tra i saperi che nell’ultimo secolo hanno segnato così profondamente le nostre conoscenze sull’essere umano ha davvero molto da dirci sull’amore. È questa, credo, la prova della sua regale clandestinità, della sua barbara beffarda maestà. Forse la psicoanalisi o l’antropologia o le neuroscienze hanno qualcosa da dirci sul desiderio, sulle identità sessuali, sulla chimica dei sentimenti e sui loro contesti storici. Il diritto ha qualcosa da dirci sul matrimonio o sulle sue sopravvivenze postume, l’etnologia ha qualcosa da dirci sui differenti istituti in cui amore abita in culture diverse dalla nostra. Sono tutti ambiti toccati da amore, zone che lo interessano e lo evocano, ma a cui amore è irriducibile ed entro cui non si lascia rinchiudere.

Amore infatti non è riducibile al desiderio o all’identità sessuale, e non è forse neanche propriamente un sentimento, seppure il sentimento lo accompagni e lo segua. Né tantomeno– c’è bisogno di dirlo? – è riducibile al matrimonio, alla coppia o alle altre differenti forme che il diritto può regolare. 

Un sapere sull’eros, dunque – nonostante i sexy shops, le psicoterapie, le app di incontri, le confidenze delle amiche e degli amici, o gli specialismi –, non esiste. Eppure quando amiamo, in quell’istante ci appare chiara l’esistenza di un sapere, ma è un sapere che proprio a noi sembra precluso.

E se l’amore fosse un luogo? -

Lo cerchiamo dappertutto, lo invochiamo negli amici, nei conoscenti, negli sconosciuti, nelle canzoni ascoltate per caso alla radio. Nei fiori – m’ama non m’ama? – nelle stelle. Perché sempre, quasi tutti siamo consapevoli, nel fondo, di non saper amare. “C’è salvezza ma non per noi”, diceva Kafka. Eravamo assenti il primo giorno di scuola. Chi è innamorato sa che non c’è soluzione, almeno non per lui. 

“Nessuno tra i saperi che nell’ultimo secolo hanno segnato così profondamente le nostre conoscenze sull’essere umano ha davvero molto da dirci sull’amore. È questa, credo, la prova della sua regale clandestinità, della sua barbara beffarda maestà”.

È una forma molto particolare di non sapere. A mancarci non è una nozione o una serie di nozioni, né ci si può consolare dicendo che “non c’è nulla da sapere”. Facciamo esperienza, qui, non solo dell’impossibilità di conoscere qualcuno, ma della nostra propria non conoscenza, del nostro proprio personale mistero – quello che solo noi, forse, non possiamo risolvere, ma possiamo solo vivere. È un non sapere che avanza a tentoni, una non conoscenza attiva, simile a quella descritta da Agostino quando parla delle parole di cui non conosciamo il significato. È un presagio, uno stato che possiede in modo virtuale ciò che non ha. La tenebra ci è garante. 

Ora, se il sapere si accresce, si accumula, nei secoli e nei millenni, e la conoscenza avanza la sua marcia in avanti, difficilmente si può dire lo stesso del non sapere. Noi non sappiamo – se intendiamo non una condizione provvisoria di mancanza, ma come un certo rapporto con l’ignoto – allo stesso modo dei greci, degli etruschi, dei babilonesi. L’urto con l’ignoto resterà lo stesso, per quanto diverse ne siano le modalità e i modi di esprimerlo. Di questo urto, amore è la cicatrice sempre aperta. Era in fondo ciò che anche Mario Equicola, l’autore rinascimentale di un trattato sull’amore, affermava in una fantasiosa etimologia della parola amore: la parola amor “benché da α greca (privativa particula) sia et mo in compositione modo possa notare, che non facilmente chi ama se mesura”. Non perché sia necessariamente smisurato, ma perché non ne possediamo il metro. 

A questa tesi si possono opporre numerose, anzi, innumerevoli obiezioni. Anzitutto quella che chiamerei storicistica, secondo cui ogni società vive e realizza la propria peculiare forma di amore, storicamente determinata, come la letteratura o l’antropologia ci mostrano perfettamente. Non esiste amore, esistono le forme che gli esseri umani inventano per amarsi.

“‘C’è salvezza ma non per noi’, diceva Kafka. Eravamo assenti il primo giorno di scuola. Chi è innamorato sa che non c’è soluzione, almeno non per lui”. 

Le forme sociali non hanno influito e non influiscono forse sui nostri modi di vivere e concepire l’amore? Senz’altro sì, enormemente. Ma questa nozione di un amore storicizzato, chiuso interamente nella propria determinata forma sociale, mi pare talmente realistica da risultare in fin dei conti un po’ povera e meccanica, e vorrei opporle una idea più primitiva, meno centrata sull’essere umano, sui suoi costumi storici e i suoi progetti di bonificazione culturale. Non perché gli argomenti storicistici o antropologici siano falsi e non abbiano la loro realtà, ma perché mi pare che ci sia, nell’amore, qualcosa di decisivo che sfugge a ogni determinismo meccanico, a ogni nostro tentativo di appropriazione storica e conoscitiva. 

Se partissimo proprio da questa esperienza di non conoscenza, da questa intensità vibrante che attraversa il corpo e la mente? Se partissimo, insomma, da amore come condizione, come stato – come facevano gli antichi, che concepivano l’amore come un morbo – ancora prima che dalla nostra capacità o incapacità di amare qualcuno, dalle forme che diamo ai rapporti d’amore? 

Potremmo immaginare che amore sia un luogo, una regione, in cui si entra e da cui si esce. Si può dire allora che esistono discorsi che si muovono fuori da quella regione, che cercano di circoscriverla e di delimitarne i confini, e discorsi che si muovono invece dentro quell’esperienza, pur non trattando necessariamente di amore. Certo sarebbe diverso il nostro parlare o la nostra scrittura, anche saggistica, se ogni parlare su fosse un parlare con, se prestassimo animisticamente la voce alle cose di cui vorremmo parlare. Se parlassimo sempre per contagio. E forse questa è proprio una prima involontaria definizione di amore, che esige sempre una complicità, un’ustione. Forse non lo conosciamo, ma è amore che ci fa conoscere – e dunque, per conoscere l’amore, bisognerà parlare dentro di esso.

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La domanda su che cosa sia l’amore è una domanda che già si pone al di fuori di amore, che lo vuole circoscrivere in una zona esatta e separata. È il paradigma della conoscenza per distanza: posso conoscere solo ciò che non sono, ciò che mi è distante, ciò che vedo (e che dunque non sono). A questo modello se ne può opporre un altro, più desueto ma altrettanto nobile: posso conoscere soltanto ciò che sono, ciò che mi tocca e mi trasforma. Più precisamente, si può ipotizzare che amore sia il rapporto instabile tra queste due forme: quella che descrive, osserva, calcola la distanza, e quella, invece, che confonde e trasforma.  

La difficoltà di conoscere amore consiste, credo, nella sua strutturale e mitologica duplicità, che lo rende inafferrabile: Eros, infatti, è giovane e antichissimo; è celeste e terreno; è virtuoso e vizioso; è malattia e balsamo; è muto e parla e canta; non sa e conosce. Non lo si è, non ci assegna un’identità, ma ci fa dubitare di chi siamo e di che cosa siamo. Non lo si ha, non diventa mai un capitale, ma si dissipa irrimediabilmente. Anche la persona più insignificante e banale appare, illuminata da quella luce ambigua, ricca di insolubili contraddizioni. Si può capire, dunque, come le nostre forme di conoscenza abituali, diurne, su cui facciamo affidamento per orientarci nel mondo, siano abbastanza inadeguate a comprendere la natura di questa esperienza. Serve un altro tipo di conoscenza, eterogenea alle altre. 

In un trattato del diciassettesimo secolo, il “Pantheon Argutae Elocutionis”, dell’antiquario ed erudito Caiteano Felice Veranius, viene riportata un’antica iscrizione ritrovata che ha come oggetto l’amore. La lapide sepolcrale inizia: “Né uomo né donna né androgino. Né fanciulla né giovane né vecchio. Né casta né meretrice né pudica. Ma tutto ciò insieme”. Così l’iscrizione prosegue in modo simile fino alla conclusione, in cui l’autore ammette che egli stesso “scit et nescit quid cui posuerit“, ‘sa e non sa che cosa ha dedicato’. Ciò perché, prosegue Veranius commentando l’iscrizione ritrovata, le contraddizioni e gli enigmi di amore sono tali che le sue parole non possono che essere insieme conoscenza e non conoscenza

“Mi pare che ci sia, nell’amore, qualcosa di decisivo che sfugge a ogni determinismo meccanico, a ogni nostro tentativo di appropriazione storica e conoscitiva”. 

Se lo riconosciamo cieco e non conoscente, sembra una passione. Se lo consideriamo conoscitivo, appare razionale. Ma ciò dipende da un errore prospettico. Se esistessero anche passioni conoscenti? E se esistesse una razionalità cieca e non conoscente? Farne esclusivamente una passione e un sentimento, infatti, come siamo abituati da qualche secolo a fare, ci fa perdere di vista il fatto che amore – come abbiamo detto – è anche fondamento della conoscenza, “intelletto d’amore” dantesco.

La soluzione del dilemma è nel fatto che tale conoscenza non ha sede nella ragione, dove vengono registrati i dati sensibili e dove calcoliamo, bensì nell’immaginazione: è una conoscenza per immagini. Senza di essa, ogni amore – anche quello più felice – appare spento e opaco, insipido. Quando l’immaginazione si è accesa, invece, anche l’amore più infelice appare fecondo e vibrante: un fiume in piena.

L’amore  andrebbe giudicato allora non in quanto felice o infelice, in quanto ci fa soffrire o divertire, ma se è capace o meno di farci entrare in questa dimensione più viva. Questa facoltà impura, che partecipa dei sensi e del pensiero, l’immaginazione, è il brancolare attivo, l’altra forma di conoscenza. 

Tutti i discorsi su razionalità e irrazionalità, i due spettri cristallizzati dalla nostra cultura, dipendono dall’aver frainteso e misconosciuto questa facoltà più originaria, l’immaginazione, dall’averla ridotta a un vuoto fantasticare soggettivo e dal non saperne cogliere, così, la consistenza concreta e reale. Una volta riconosciuta l’immaginazione nella sua potenza, razionalità e irrazionalità appariranno come le due figlie disperse di una medesima madre, ignote a loro stesse e inconsapevoli della loro origine comune.  

La presenza ipertrofica del linguaggio psicologico, nelle nostre vite, ci ha offerto molti concetti: la proiezione, la rimozione, le intenzioni inconsce, il narcisismo, e in fondo la stessa nozione di sessualità, così debordante e inafferrabile. Tali concetti – utili, come tutti i concetti, solo se maneggiati come strumenti provvisori – rischiano di sostituire le immagini, o di impoverirle, rendendole soltanto metafore, fisse e definite. Ma le immagini non sono metafore. La loro potenza erratica non risiede nella loro forma, nel loro essere immagini di qualcosa, bensì nella loro formazione, ossia nel nostro attivo immaginarle.

L’amore è ovviamente un delirio interpretativo, poco importa che si eserciti con gelida furia descrittiva o in mutua tenerezza. Ma la sua ambizione finale, il suo obiettivo, è la chiusa apparenza, la superficie, l’abbandono dell’interpretazione.  

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Quando evochiamo le immagini nel nostro discorso, tutto si tinge di uno spessore diverso, inedito. Se i concetti inchiodano, le immagini liberano. Se i concetti vogliono conoscere, le immagini vogliono vivere. I concetti sono armi (spesso di difesa); le immagini sono chiavi. Questo perché le immagini sono naturalmente ambigue. Non vogliono essere spiegate, ma proseguite, sviluppate, portate fuori. È grazie a loro che io posso essere, insieme, uomo donna e androgino; fanciulla giovane e vecchio. Le immagini tendono – ed è il motivo per cui godono di cattiva fama –alla promiscuità ontologica. Solo grazie a questa dilatazione immaginale di me io potrò essere me stesso, ciò che non posso non essere.  

Ci possiamo riconoscere nelle immagini, sentiamo che ci riguardano, ma non ci descrivono. Il rischio del linguaggio psicologico è invece quello di appiattirci, di farci vedere i nostri vissuti come strettamente personali, come se dovessimo infine riconoscerci nel nostro amore e nei modi in cui avviene. Ma la vita erotica, fortunatamente, ci sfugge e non potremo mai rispecchiarci in essa. 

“L’amore è ovviamente un delirio interpretativo, poco importa che si eserciti con gelida furia descrittiva o in mutua tenerezza”.

Una “vita erotica soddisfacente”? Ma che incubo. “Conoscere i miei desideri”? Quale orrore. “Devo capire che cosa voglio”? Mai e poi mai. Non fa parte di ogni ebbrezza erotica la maschera, la metamorfosi, e soprattutto la confusione? E non è parte integrante dell’amore il culto del caso, dell’evento fortuito, dell’incontro, ovvero il culto dell’errore? La peggiore disgrazia per chi ama sarebbe, allora, venire riconosciuto, essere amato perché lo merita.  

Emanuele Dattilo

Emanuele Dattilo è filosofo. Il suo ultimo libro è La vita che vive (Neri Pozza, 2022).

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