Maly, Maly, Maly - Lucy
racconto

Anthony Veasna So

Maly, Maly, Maly

Anthony Veasna So è morto a 28 anni consegnandoci una raccolta di racconti in cui brilla il suo talento. In questa storia seguiamo le vicende di due cugini annoiati e del "sentimento di amore" che sta sotto le loro malefatte.

Maly, Maly, Maly

INTRODUZIONE di Emiliano Ceresi

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Tutte le volte ci trovano inappropriati, ma oggi in particolare. Ce ne stiamo senza alcun posto dove andare e niente da fare, dentro un furgoncino arrugginito, quello che perde olio, con le trasmissioni più sfondate della motosega di Non aprite quella porta. Ce ne stiamo col motore acceso per l’aria condizionata, le portiere spalancate per far prendere un po’ di fresco alle gambe.

Perché per sopravvivere all’afa, dalle nostre parti, è tutto ciò che abbiamo Un’ora fa siamo diventati due reietti. Una persona fra noi – non io – non chiude quella cazzo di bocca. E dato che le Ma stanno cucinando per i monaci e hanno bisogno di concentrarsi, a noi ci hanno cacciati fuori a soffocarci con le folate di concime che spirano dalle fattorie d’asparagi tutt’intorno, nella nostra città, questo posto del cazzo pieno di gente pallosa che piscia verde puzzolente.

E a giudicare dalle nostre Ma, tutto di noi appare allo stesso tempo troppo mascolino e troppo femmineo: la nostra postura – le schiene arcuate come fanno le modelle sulle nostre riviste rubate, gli strappi sui vestiti, le borchie, le frange ai pantaloni – per loro non hanno un minimo di senso. Dove posi gli occhi siamo sbagliati, noi due. Anche se Maly, la cugina femmina, ha l’aria di essere un po’ meno sbagliata del cugino maschio, ovvero io.

“Ma Eng può venire qui a succhiarmi l’uccello” dice Maly, senza chiudere ancora quella cazzo di bocca, i lunghi capelli che le svolazzano al vento intriso di gas, i riflessi biondo-arancio che danzano, o ci provano, almeno. “Ma che c’hanno nel culo? Sul serio, sull’organizzazione di questa festa dovrei poter dire la mia, porca troia. Per diritto di nascita!” “Per lo meno di te a Ma Eng gli frega qualcosa” dico io, col mento a riposo sul volante. Sotto al furgoncino, il vialetto crepato di Ma Eng sembra ribollire e, giuro, scotta persino la polvere nell’aria, respirare è un inferno. Non riusciamo nemmeno ad ascoltare la radio, capito? Non possiamo focalizzarci su niente che non sia il nostro sudatissimo tedio.

Io alzo gli occhi al cielo blu intenso, a come sembra schiacciare le nostre villette a due piani in mattonato. Sto cercando di distogliere la mia attenzione da Maly, ma la sua nitida presenza, quel vortice di mèches da due soldi, mi sfianca. In più, mi sta prendendo a schiaffi sulle tempie. “Ves, Ves, Ves!” dice Maly. “Guardami!” “Che Cristo” piagnucolo io, scacciandola via con la mano. “Avevo capito che te ne fregava zero della festa. Che ti importa se fanno l’amok o no?” “È quello che voglio mangiare io, va bene, ed è a me che è morta la mamma.” Poi schianta giù la testa di lato per farsi scrocchiare il collo. “Cioè, a quanto pare non è più morta morta, ma comunque…” Incerto su cosa dire, stringo i denti e abbozzo un sorriso sbilenco.

Non posso fare a meno di ammirare il suo look, come mi capita sempre. Con orgoglio, quasi. Maly riesce sempre ad averne uno, arruffata o meno che sia. Persino oggi, in questa domenica d’agosto come mille, mentre aspettiamo di celebrare la rinascita dello spirito di sua madre nel corpo della figlia di nostra cugina di secondo grado, ha un aspetto impeccabile.

Ha la gamba sinistra appoggiata sul cruscotto, e non mi meraviglierei se ora cominciasse a tagliarsi le unghie. Indossa un paio di shorts rubati a un’altra cugina, che comunque era troppo in carne per entrarci, e una maglietta bianca ritagliata a canotta – rubata pure quella – che si è infilata nelle mutandine per farti notare quanto sia snella. Difficile dire se l’abbia fatto apposta, visto come le stanno i vestiti, tutti di seconda mano, che è l’effetto che vuole, credo, per ciancicarsi quei ragazzi troppo idioti per capire che poi a risputarli ci metterà mezzo secondo.

Dietro i suoi occhiali finti le riesco a vedere gli occhi a palla che mi guardano in faccia e attraverso allo stesso tempo, un’espressione che sancisce come mi sento ogni tanto, come se fosse di mia responsabilità, come se non fossi altro che una ramazza morta e reincarnata in essere umano, l’unico scopo della mia vita ripulire ogni suo casino – qualunque cosa abbia voglia di fracassare Maly la prossima volta.

“Smettila di fare la melodrammatica”  le dico, ticchettando sul volante con le dita. “Lo sai che sono tutte minchiate – il rito, i monaci, la cugina di terzo grado o quello che cazzo è.” Non so bene se credo davvero a quello che dico o se cerco soltanto di farla sentire meglio. “Non ha alcun senso, no?” aggiungo. “Cioè, non è che sono esperto, ma per quale ragione tua madre dovrebbe riapparire sulla faccia della terra dopo dieci anni?” Maly scrolla le spalle, adesso del tutto indifferente, troppo piena di sé per dare corda ai miei tentativi di consolarla.

Mi ricorda quando andavo a dormire da lei. Ogni volta che mio padre si sbronzava come un cane, mia madre mi spediva da Ma Eng. Con me lì presente non diventava mai violento, ma chi lo sa cosa succedeva dai miei mentre dormivo sul pavimento di Maly, soprattutto negli anni in cui mio padre era senza lavoro – dopo che gli era fallito il ristorante e prima che lo pigliassero alla mensa di quella scuola di figli di papà – e quando poi è diventato ovvio che non ero proprio, come dire, un ragazzino normale, ma una checca rammollita che odiava lo sport e passava le ore davanti ai film più assurdi. Prima della pubertà avevo già fatto coming out, ed ero palesemente segnato. È già così complicato per quelli come noi, mi ripeteva mia madre.

Tutto scontato, per carità, la tipica storia strappalacrime da gay, ma a spiegarlo meglio non ce la faccio. I miei genitori immigrati sono questi. Comunque, durante quella cosa che mia madre chiamava “legare con nonna” – anche se tecnicamente Ma Eng sarebbe la mia prozia – Maly mi svegliava ogni notte dandomi di gomito per chiedermi qualcosa di urgente solo per lei, tipo Sono abbastanza carina secondo te, o divertente? Per mesi si era flagellata sul nostro insegnante d’inglese, sul perché le avesse detto che non era pronta per un vero percorso di studi e come mai si era rifiutato di scriverle una lettera di raccomandazione. Perché i professori ce l’hanno sempre con me? E se quell’infame avesse ragione? Ogni notte le ripetevo Sei fantastica, sono tutti dei coglioni, e così via, solo per scoprire che si era addormentata ancor prima che finissi di parlare.

Sono sempre stato lì per Maly, dove voleva che fossi, sul pavimento accanto al suo letto, a dispensarle rassicurazioni finché non sprofondava nei sogni. Anche se in questi giorni forse è peggiorata, più bisognosa del solito. Perché in meno di una settimana io sarò diretto a Los Angeles per i prossimi quattro anni di università, mentre lei è bloccata qui, impantanata con Ma Eng per altri due anni, minimo, nel frattempo che si arrangia al community college.

Maly ha chiuso la portiera dell’auto e messo la testa fuori dal finestrino. Si appoggia con il fianco destro sulla portiera, spinge il piede sinistro sulla console sopra il freno a mano, e rimane così un momento, aggrappata sul tettuccio del furgone finché non si blocca e immobilizza del tutto, neanche stesse in posa per un fotografo famoso. Io me la guardo, un po’ scettico, mentre lei si azzarda a rimanere in equilibrio senza mani, infilandosi le dita in bocca e lasciando partire un fischio assordante. “Siamo qui, stronza!” urla, e io sento tutti gli arti che mi si irrigidiscono.

A venirci incontro è Rithy, con le braccia in grembo attorno a una palla da basket, i pantaloncini larghi e calati. Ha la stessa faccia di sempre, la tipica boria da ragazzino nero. È di quelli che sanno a memoria i testi di 50 Cent e adorano Boyz n the Hood e 8 Mile anche senza capirne – sospetto io – il vero contenuto politico. Quest’estate Rithy e Maly hanno iniziato a scopare, cosa che ha una sua logica, dato che entrambi hanno la mamma morta e il padre testa di cazzo, ora però devo ricordare a me stesso che conosco da una vita anche lui. Che non è soltanto il giocattolino personale di Maly. Il suo toy boy, come dice lei.

Maly si lascia andare sul sedile facendosi cadere gli occhiali sul naso e passandosi la lingua sui denti. Rithy non ha avuto neanche il tempo di arrivare che eccotela lì: Lolita. Nessuno dei due ha letto il libro, io ho visto solo il film, ma quando lavoriamo al noleggio ci passiamo le ore a fissare quel poster sbiadito. Spesso strafatti. Abbastanza da farci risucchiare in quegli occhialetti a forma di cuore, in quello sguardo così selvaggio e strafottente, la sfrontatezza assurda della frase sopra – COM’È STATO MAI POSSIBILE REALIZZARLO? – mentre masterizziamo dvd illegali per farli noleggiare a quel pezzente di nostro zio.

“Non dovresti stare tipo a preparare una festa?” la stuzzica Rithy, mentre si stira le gambe appoggiandosi alla portiera. È zuppo fradicio, probabilmente gli uno contro uno a casa di suo cugino, e quasi riesco a sentirne l’odore. Tutte le cose che mi racconta Maly sul suo corpo mi vorticano in testa. “Ci hanno esiliato” gli risponde lei monocorde. “Dal genocidio sono tutte psicopatiche. Tipo che finché non fai un colpo di stato e instauri un regime comunista puoi fare lo stronzo quanto ti pare.” Poi si mette a ridere, tutta soddisfatta di sé. “Tua nonna spacca e lo sai” risponde Rithy. “Fa una carne secca che levati, la vecchietta.”

Si è alzato l’orlo della maglietta per asciugarsi il sudore dalla fronte, lasciando intravedere un pezzo di addome. Se lo ha fatto apposta nemmeno mi interessa. “A che ora hai detto che era la festa?” Maly alza le mani in direzione di casa, come a spingerla lontano. “Vaglielo a chiedere tu a Ma Eng. Mi sono rotta delle sue cazzate.” “Non puoi dirmelo tu, tesoro?” dice Rithy, mordendosi le labbra. “Senti, al compleanno di mia madre possiamo arrivare pure in ritardo, ok? È tranquilla.” Maly colma un po’ la distanza fra il suo viso e quello di Rithy. “Siamo giovani e belli e il concetto stesso di tempo ci fa cascare le braccia.” “Alle sei dovrebbe andare” scampanello io. “Oh, ehi, Ves” fa Rithy, senza preoccuparsi di quanto gli stia fissando le vene dell’avambraccio. “Eccitato per il college?” “Non è che ti avanza un po’ d’erba, Rithy?” interferisce Maly, ricadendo indietro sul sedile. Sul volto di Rithy spunta un sorriso ancora più grande. “Secondo te?” Con mezzo cenno del capo, Maly mi dice che torna subito e che se non mi rivede si incazza. Esce dal furgoncino e accompagna Rithy alla villetta di suo zio, un isolato più giù, come portasse a spasso un cuccioletto spaurito.

Le mani di lui le scendono sulla schiena aleggiandole sopra il culo, che a ogni passo ondeggia quanto basta. Lui tira indietro la testa, come per accertarsi di Maly al suo fianco, prima di tornare a guardarsi davanti.

Persino da qui riesco a vedere quanto sia preso da lei, quanto la sua fortuna sfacciata lo lasci senza parole, che in vita sua gli abbia detto così bene e così presto, a soli tre mesi dalla vita adulta che aspetta tutti quanti noi.

Ecco la parte in cui diventa tutto comune, pronti? O meglio, ecco che le vecchie lenzuola da letto singolo con sopra i Power Rangers si fanno romantiche, permettendo alla srey di capire come gli uomini vedono il suo eyeliner e le sue unghie finte, e di lasciare che il proh affermi il suo potere, nonostante la pelle scura e quel drogato di suo padre con le sole due frasi di inglese che riesce a smozzicare.

Ecco la parte che pare una rivelazione finché non ce la dimentichiamo perché la vita va avanti, perché non c’è niente di speciale in un’esistenza passata in culo alla California, il posto perfetto secondo certi funzionari di governo per un manipolo di rifugiati con la sindrome da stress post-traumatico, pronti a scorreggiare via i loro sogni neanche fossero intolleranti al successo.

Questa è la parte che assomiglia ai lakorn thailandesi, quelle soap di Bangkok doppiate in khmer e poi masterizzate sui dischi vergine che trovi al Costco. La srey – povera e cenciosa, irrorata del sangue di una nobiltà perduta, arrabbiata per le pugnalate alla schiena del testamento e dell’eredità – si insinua tra le braccia del principe la cui famiglia è la vera causa delle proprie disgrazie. Ma solo per lasciare che il suo progetto di redimere il nome della famiglia accechi il sentimento di vero amore che brulica sotto le proprie malefatte, i capitomboli, quel suo carattere impossibile e capriccioso.

Tanto poco ne è cosciente che tutto le sembra presto un’opportunità perduta per sempre, non appena il principe si arruola nell’esercito per dar prova della sua mascolinità, perché ogni principe thailandese in ogni singola soap thailandese, come ogni merdosissimo proh in ogni suo merdosissimo quartiere, ambisce sempre a un qualche scopo più alto. Per il momento, però, la srey si crogiola nell’alito caldo del principe, lo stupore di certi tocchi segreti, il fervore delle manipolazioni. E poi, oh, almeno non è il suo fido compare, quel frocetto del migliore amico. Perché eccotelo lì, puntuale in ogni versione della stessa stupida storiella: lo kteuy, relegato in tribuna, a cuocersi sotto al sole, destinato a eccitarsi non per il suo proh ma per l’idea stessa di lui che fa sua la srey di cui è tanto amico.

Ovviamente, a parte tutti questi pensieri deprimenti, e a prescindere da quanto sia avvilente, sono sollevato di potermi godere un po’ di pace nell’attesa che Maly e Rithy finiscano di scopare. Sono persino felice per lei, che riesca a trovare conforto nel corpo tonico del suo toy boy in questa giornata da incubo. Anche se sto tirando a indovinare su come si senta. È raro che Maly parli seriamente di sua madre Butto un occhio dentro la finestra della villetta dove Ma Eng vive dagli anni Ottanta, prima che la mamma di Maly, sua nuora, si suicidasse, e molto prima che suo padre si dimostrasse l’ennesimo cambo del cazzo. In cucina Ma Eng sta puntando il dito in faccia alle altre Ma con fare accusatorio, istruendole su come preparare certi piatti – non l’amok – per la festa di stasera. Probabilmente è ancora incazzata con Maly per il poco rispetto che ha dimostrato per i preparativi della cerimonia.

Mi chiedo come debba sentirsi Ma Eng in questo momento, così aggrappata al disperato desiderio che venga data una seconda chance alla figlia morta di sua sorella morta pure lei, che le forze della reincarnazione abbiano messo in campo i loro incantesimi voodoo per ridare corpo alle anime perdute. Specialmente quelle finite in modo assurdo come la mamma di Maly, una rifugiata semplicemente incapace di superare i ricordi del genocidio, una madre single che guardava al domani, e al giorno dopo ancora, solo per vederci più sofferenza. In tutta onestà, se ci penso troppo, finisce che ci divento matto. Lo so che è una domanda terribile, ma come ha fatto anche solo a decidere di avere una figlia? E perché solo a lei è concesso poter dire basta? Be’, fatti suoi, comunque, visto che ora dovrà scontarsi una seconda vita, e un’altra volta qui nel G Block, come se non bastasse.

La serranda del garage si apre, un boato di parole in khmer tuona via dalla casa. Due Ma che riconosco dal noleggio cominciano a spazzare per terra, dove pregheremo e mangeremo durante la festa, su tappetini di iuta che ci riempiranno le gambe di strisce rosse e palpitanti. Mi volto di nuovo verso la finestra della cucina, però Ma Eng non è più nel mio campo visivo. Stringendo il volante fra le mani, valuto se filarmela dritto al college in questo preciso momento, lasciandomi alle spalle le mie proprietà senza alcun valore, i miei vestiti di seconda mano, ogni cosa. Finalmente potrei iniziare a vivere, ripartire da zero. Solo che non posso, non ancora, le altre Ma venute ad aiutare Ma Eng mi hanno parcheggiato dietro, bloccandomi a tempo indefinito l’uscita. Sto quasi per addormentarmi, l’aria fredda della ventola sulla mia pelle in competizione con la canicola asciutta del pomeriggio, quando Maly salta in piedi da sotto il finestrino e mi urla “Buh!”. “Che cazzo di problema hai?” le dico, nella crisi di tosse in cui mi ritrovo per lo spavento, con Maly che invece cerca di riprendersi dalle risate isteriche provocate dalle sue stesse buffonate. Mi tira una canna fra le gambe. “Come si dice?” mi chiede, mentre saluta le Ma in garage con un sorriso falso sulle labbra. Loro si limitano a fissarla, tenendo strette le scope come fossero pronte a prenderci a scudisciate. “Almeno non ci tocca restare lucidi per l’intera lagna.” Eppure, come tutte le volte che ha nascosto i lubrificanti o le bottiglie di birra in camera mia per offrirmene poi un goccio, Maly riesce sempre a pensare a me rimanendo nel profondo totalmente assorbita da se stessa. “Be’, mica possiamo fumare qui” le dico. “Non davanti agli sgherri di Ma Eng.”

Decidiamo di andarcela a fumare al noleggio, dato che quando siamo fatti ci piace cazzeggiare con i gingilli di nostro zio, quindi iniziamo a farci il mezzo chilometro che serve per uscire dal G Block, attraversando una villetta dopo l’altra, tutte stipate di famiglie cambo e contornate di reti metalliche e zolle di terra dove dovrebbe esserci il prato. A metà strada vedo la villetta rosa che avevano affittato i miei prima di trasferirci, e mi passa per la testa che il G Block una volta veniva chiamato Ghetto Way.

Penso a quanto scrauso e poco ispirato sia tutto quanto, questi nomignoli, questo quartiere. Quando ci troviamo davanti alla fila di negozi prima del noleggio siamo già zuppi di sudore. Il tizio iraniano col negozio di alcolici si sta fumando una sigaretta sul marciapiede. Ci ignora del tutto, occupato com’è a guardare storto i ragazzini vietnamiti appena fuori da Adalberto’s. Si stanno tirando dei miniciccioli sotto i piedi, passandosi a turno un bicchiere di cartone – probabilmente horchata, il pezzo forte di Adalberto – e penso a questi ragazzini, a come si trasformeranno in Rithy pronti ad accoppiarsi con le rispettive Maly. Adesso sono sbottati a ridere perché uno di loro ha dato di matto per le scintille di un petardo. Il poveraccio salta all’indietro e Maly gli grida “Corri Forrest, corri!”.

Nel negozio deserto ci appicciamo la canna, due tiri per uno, poi resto a guardare Maly mentre si passa in rassegna i film d’arte che lo zio ha ereditato dal vecchio proprietario. Di solito se ne va dritta nel retro a spaparanzarsi sul divano, ma oggi no. Fa finta di essere una cliente, per farsi due risate e cazzeggiare, e mi sa che faccio finta anche io, visto come le sto attorno. Di solito ci dividiamo pure una horchata extra-large, e un burrito di carne asada, se ci rimangono due spicci in più – alla californiana, riempito di patatine fritte – ma soltanto Maly riesce a non ingrassare, la stronza.

Non dovrei lamentarmi, in realtà, anche se l’erba mi gonfia. Col fisico sto abbastanza a posto, e le poche volte che ho fatto cruising per Victory Park ho scoperto che i ragazzi non vanno troppo per il sottile se inumidisco la bocca e tengo sotto controllo i denti. Ovviamente è stata Maly a insegnarmi a fare i pompini come si deve.

Mi sparo un altro tiro e metto a fuoco la sala d’ingresso. Il pacchianissimo espositore per le magliette da dieci dollari con sopra l’Angkor Wat. La sprovveduta stupidità di nostro zio nel piazzare i dispenser per le candele – palesemente per bambini – giusto accanto alla tendina della sezione porno. Il negozio in teoria dovrebbe assomigliare a un Blockbuster, ma i ripiani e i cestini sono disposti a caso, con certe corsie larghe al massimo per una persona e certe altre abbastanza spaziose da poterci fare la ruota.

In questo esatto momento Maly si trova in una di quelle strette mentre io sto in una corsia più spaziosa, l’isola dei dvd horror a separarci. Nostro zio, che è effettivamente il cugino sia di mia madre sia della madre di Maly, ha fatto ciao ciao a tutti e se n’è tornato in patria per un mese – probabilmente per giocare al papà buono con l’altra famiglia – lasciando suo fratello minore in carica e noi con le chiavi di riserva. Con il fratello in trasferta, l’altro zio si volatilizza quasi tutti i giorni dall’ora di pranzo fino a chiusura. In più, si rifiuta di lavorare i weekend, il che spiega perché il negozio adesso è chiuso.

Una settimana fa ci era stato chiesto di masterizzare l’ultimo carico di lakorn thailandesi, per renderci finalmente utili a qualcosa, e invece ci siamo messi a fumare erba a turno dietro il vicolo, finendo per strafogarci di caramelle alla banana prese al distributore automatico. Ci alziamo dal divano per stare dietro alla cassa solo quando suona il campanello d’ingresso.

Non trascorrerò l’ultima settimana qui a casa a bruciare cd vergini sul Dvd Shrink di un portatile obsoleto. Ecco perché le Ma di tutto il G Block sono così scontrose, piene di astio, su un sentiero di guerra karmico fatto di occhi alzati al cielo. Non gli abbiamo copiato i nuovi lakorn, togliendogli l’unico piacere che hanno in America, lontane migliaia di chilometri dalla prima cosa che sono capaci di sopportare. O almeno questo è quello che mi dico da solo, adesso, fatto come una pigna.

“Giuro su Dio” mi fa Maly, che ha ancora addosso quegli occhiali spropositati, pure qui, in questo noleggio di dvd farlocchi. “Questi film mi inquietano ma di brutto.” Nel riflesso scuro delle lenti vedo Maly che mi tara nei vecchi vestiti di sua madre mentre io barcollo sui tacchi, le labbra di entrambi piene di rossetto, le palpebre impiastricciate d’ombretto, prima di mettere su l’ennesimo film – tipo Candyman, chissà quante volte l’avremo visto – sulla PlayStation 2 che mio padre mi aveva comprato, anche se non poteva permettersela, con la speranza che sarei diventato come tutti i ragazzini normali.

“Terra chiama Ves!” mi strilla. “Cosa cazzo è un Videodrome?” Mi strappo via dalla confusione per strizzare gli occhi contro il dvd che sta tenendo in mano, dall’angolo in alto, come fosse un pannolino sporco. “Ah sì, l’ho visto quello” le dico, ricordandomi l’ultima volta che ho visto un film davvero bello con Maly – Suspiria – e come non la finiva di sbottare a ridere. Che cazzo di demente, diceva ogni volta che un personaggio cadeva nella buca col fil di ferro tagliandosi la gola. “Parla di questo bianco sfigatissimo” le spiego “che è ossessionato da un canale televisivo che si chiama Videodrome.” Faccio un altro tiro e sbuffo cerchi di fumo nell’aria, che Maly si studia da vicino, accartocciando la faccia. “Il canale manda in onda, tipo, porno snuff. Capito, gente che si fa le torture sessuali.”

“Perché non si fanno le seghe sui veri film snuff?” mi chiede Maly. “Perché perdere tempo dietro a un mortorio di film intellettuale?” “È una metafora” le rispondo. “E la metafora sta per… cosa?” “Su quanto veniamo violati dai media e… tipo… dalle pubblicità…”

Mi prendo un secondo per scartabellare fra i lakorn che Ma Eng ci obbligava a guardare da ragazzini, cosa che, stupidamente, mi fa pensare al tema del saggio che ho portato per il college: “Come abbiamo imparato a parlare khmer con dei film thailandesi scritti a caso, le inquadrature di merda, e dei personaggi femminili tutti con la stessa voce”. Ho scritto di quello, di Maly, e della mia storia strappalacrime da gay.

“C’è questa parte nel film” riprendo “dove il ventre del tizio bianco si trasforma in una vagina, capito, e poi arriva quest’altro tizio bianco che gli ficca una cassetta nella sua vagina-pancia… Tipo, guarda come ci stuprano la mente, una roba del genere.” Non le confesso che quando ho visto quella scena per la prima volta l’ho trovata seducente, e che mi sono detestato per questo. Piuttosto, le passo la canna.

“È una cazzata terrificante.” Maly aspira il fumo dentro e fuori dai polmoni, con la canna lasciata appesa alle labbra come una ragazza francese in un film di Godard, solo marrone e spiantata. “Stuprati dai media” mi dice, e si spiccia la canna. “Sapremmo forse un’acca di inglese se non ci fosse stata Judge Judy?” “Penso che senza di lei non saremmo sopravvissuti” le dico, continuando a cercare, senza pensarci, un lakorn che possa riconoscere, qualcosa che attiri, o colpisca davvero, proprio me nello specifico. “Cioè, farci violare da tutte quelle serie che ci piacevano da bambini era obbligatorio… Gli amici di papà,Una bionda per papà, Otto sotto a un tetto – Steve Urkel che ci scopava il cervello ogni giorno dopo scuola su ABC Family. “Sono stato io a fare questo?” “Ves… ti prego, ma che cosa malata” replica Maly, e ci fissiamo negli occhi in silenzio, per mezzo secondo, prima di scivolare in una risata. Continuiamo a ridacchiare finché un lakorn non mi colpisce l’occhio.

“Oh, cazzo, ti ricordi Nang Nak?” Prendo il dvd e me lo metto davanti alla faccia, nascondendo i miei occhi rossi dietro l’immagine di una pazza furiosa, i capelli nerissimi, con la pelle pastosa e una presenza fantasmatica, tipo una versione thai e low-budget di The Grudge. Quando abbasso il dvd la faccia di Maly è raggelata. “Porca zozza” mi fa, togliendosi gli occhiali. Senza molto controllo del corpo, così pare, Maly cerca di arrampicarsi sopra un cesto di film, quasi al rallentatore, come se l’aria si fosse tramutata in fanghiglia. In qualche modo raggiunge la mia corsia, a fatica, ruzzolando per terra, buttando giù l’intera sezione dedicata a Kubrick con un calcio, e subito dopo essersi ripresa dall’inutile acrobazia, mi strappa il dvd dalle mani. “Saranno anni che non ci penso. C’è tutta la serie?” Si mette a scrutare le parole in khmer che non è capace di leggere. “Non era lungo, tipo, diecimila ore?” Mi ricordo soprattutto quel grido pazzesco” dico io, e parto a imitare Nang Nak nel suo ruolo di madre fantasma e vendicativa, ma Maly non reagisce, al che mi azzittisco nel bel mezzo del mio stridio malefico. Quindi studio la sua espressione mentre contempla la copertina sbiadita del dvd, gli occhi gonfi e fissi in una gara a chi li sbatte per ultima con Nang Nak

Passa un’eternità prima che all’improvviso, con una strana sincerità, Maly mi dica: “Ho sempre pensato che Nang Nak fosse una strafiga”. Solleva il mento, e i suoi occhi, due orbite scure nella luce soffusa, mi trafiggono da parte a parte. “Dico sul serio” mi fa, “cioè… cazzo, dài. Ha perseguitato quegli infami per anni.”

In questo momento vorrei che Maly venisse con me a Los Angeles, vorrei continuare a uscire con lei finché uno dei due – Maly, ovviamente – non venisse scoperto da qualche pezzo grosso di Hollywood, e magari allora potrei scrivere un film solo per lei, perché probabilmente diventerà una grande attrice, di più, la musa perfetta, cos’altro potrebbe fare una così? Anche se allo stesso tempo è l’ultima cosa che voglio, e a dirla tutta, non è una scuola di cinema quella che frequenterò. Ho fatto domanda, e mi hanno pure accettato, ma costava troppo.

“Lo so che è stupido” aggiunge Maly, quasi tremando, “ma ci vorrei mia madre là fuori, capito? Tipo… dovrebbe essere lei a tormentarli… tutti quelli che le hanno fatto del male…” “Giusto” faccio per dire, ma incapace di dare forma al pensiero. Non sono nemmeno troppo sicuro di capire cosa intende. Le poso una mano sulla spalla – una mossa inutile, lo so, ma è l’unica cosa che posso offrirle. Restiamo così, senza parlare né guardarci negli occhi, finché Maly non smette di tremare. Poi mi scaccia via col gomito scaraventando il dvd nella corsia accanto. Mi urla dritto in faccia: “Sai cosa dovremmo fare adesso?

Dovremmo mettere su un cazzo di film! Un’ultima volta, prima che mi lasci qui, tipo, per sempre, brutta merda. E facciamo le cose in grande questa volta – epiche. Ok? Spariamoci un cazzo di porno! Davvero, smettila di blaterare di vagina-pance e cuccati un vero porno insieme a me. Vediamo quanto ci mettono i nostri cervelli a farsi stuprare dai media, che ne dici?” Non so bene come misurare il suo entusiasmo, ma in ogni caso Maly si fionda subito verso la sezione pornografica. “Vedrai che non sarà inquietante” dice, con la sua voce che si allontana e allontana da me. “Tanto tu sei gay e io una ragazza!” Il porno che Maly sceglie di mettere sul proiettore digitale di nostro zio si rivela la solita cagata – luci sparate e spiattellate su nient’altro se non tette che ballonzolano e clitoridi turgidi e cazzi venosi, dialoghi completamente artefatti ed espressioni artefatte e gemiti artefatti, gli attori tanto invidiabili quanto orrendi. Un vero bordello. Troppe inquadrature soggettive, troppe zoomate per far entrare lo spettatore nel vivo dell’azione.

Fissare un cazzo fradicio che penetra una vagina altrettanto fradicia, da sopra, che entra ed esce al ritmo rodato di un professionista, mi pare solo l’ennesimo dramma di cui negli anni sarò tutt’al più testimone, piuttosto che qualcosa da cui imparare, proprio come le olimpiadi o i dibattiti presidenziali. Il mio pene lo sento addormentato, inesistente, e non solo perché la presenza di Maly l’ha fatto rintanare dallo spavento, ma anche perché di me riesco a proiettare molto poco in quella proiezione digitale; del resto cos’altro sono, nei fatti, se non una versione piratata della donna che si fa sbattere sullo schermo, il mio cazzo un organo vestigiale e… poco più di un impiccio? E poi è già fuori luogo, se mi veda o no nel mondo del porno – quello dove un idraulico può denudare una milf maggiorata col solo aiuto di un sorrisetto maligno sotto i baffi, o l’alzata di un sopracciglio – perché, come al solito, Maly si è piazzata nel centro esatto della mia prospettiva, ostacolandomi la vista di una vagina gigante, in alta definizione.

“Guarda… mi sta letteralmente fottendo il cervello” dice Maly, in piedi di fronte al muro che usiamo a mo’ di schermo. Da dove sto seduto sul divano, è come se un membro colossale le stesse entrando e uscendo fuori dall’orecchio, da una parte all’altra e dentro la sua testa. “Fico” dico io, senza nascondere una certa noia. “Che problema hai?” schiocca Maly. “Faceva ridere” mi dice, camminando su e giù, come fa sempre durante i suoi picchi, i suoi tentativi di fare la simpatica oltrepassando i limiti della belligeranza.

Quella visione di sesso etero le si sta contorcendo attorno al profilo, avvolgendola di colori accesi. “Datti una calmata, ok?” le dico. “È il tuo porno.” Maly si porta la mano alle labbra e si mette in posa, lanciandomi uno sguardo esasperato, poi si risiede. Sullo schermo adesso gli attori si scopano in modo più aggressivo, e io mi aspetto che Maly inizi a sbraitargli contro, che tiri fuori qualche battuta su come grugnisce il tizio o come geme la tipa.

Vorrei tanto che se ne uscisse con un commento che renda bene la follia della situazione. Qualunque cosa che ci allinei entrambi a osservatori del mondo, di tutto ciò che non siamo noi, outsider in grado di vedere oltre ogni stronzata; e invece, si fa più scontrosa. Persa nei suoi pensieri, sta analizzando il porno. Quindi restiamo seduti in silenzio mentre la scena raggiunge il suo climax, con l’attore che lo tira fuori dall’attrice, si masturba vigorosamente mentre lei si contorce in estasi, con la vagina quasi in preghiera, affinché il pene si scarichi. E si scarica eccome, sul suo interno coscia, tanto che Maly, saltando in piedi, sembra esplodere di rimando per qualche ritrovata ragione. “Voglio vedere questa bambina” dice Maly, sfrecciando in direzione della porta. Rassettando per poterle correre dietro, metto in pausa il film e fatico a trovare la confezione del dvd. Poi, prima di premere il tasto “eject”, il fermo immagine sullo schermo mi costringe a esitare, e sedermi un attimo, senza parole, stonato.

Rimango esterrefatto dalla quantità di sperma sulla metà inferiore della donna, anche se non sulla vagina stessa e, malgrado i miei gusti, in qualche modo, la cosa mi fa venire in mente il fallimento. Il fallimento nella sua forma più autentica. Quando riesco a raggiungerla Maly sta già saltando oltre il cancello della villetta di nostra cugina. Magari a lei non importa così tanto che ci infiltriamo in casa sua, ma sono troppo fatto e paranoico per pensarci su, e a quanto pare Maly se ne frega della privacy di chiunque, figurati se chiede il permesso.

In ogni caso, è troppo tardi per calmarla, per convincerla che forse è poco saggio – irrompere nella cameretta di una neonata che in teoria sarebbe anche sua madre morta –, così la seguo nervosamente oltre la porta sul retro. Nostra cugina di secondo grado sta sonnecchiando sul divano, così combatto contro l’urgenza di gridare a Maly di annullare la missione, di prenderla per le spalle e ricordarle che niente di tutto ciò è importante, che non dovremmo prendere parte alle stupide follie di qualche vecchia che desidera solo una versione alternativa della sua vita, che ci bastiamo l’un l’altra, come è sempre stato, anche se fra noi ci saranno cinquecento chilometri e un’intera montagna di distanza. Fanculo tutti gli altri, voglio dirle, per averci caricato tutti e due dei loro fardelli. Torniamo a preoccuparci dei nostri problemi, solo questo. Che cazzo ce ne frega dei nostri familiari? Cos’altro hanno fatto se non tenerci in vita per trattarci di merda?

Troviamo la stanza della bambina senza troppi contrattempi, a parte il senso montante di imbarazzo nel seguire Maly giù per la sua malata tana del coniglio. Una volta entrata in camera da letto, Maly si avvicina con cautela alla bambina che dorme. Scuote la testa e si aggrappa alla ringhiera della culla. Incombe su questo minuscolo e nuovo corpo per la madre senza cui è cresciuta. “È più brutta di quello che pensavo” dice Maly. “Che ti aspettavi?” le faccio da dietro, chiedendomi cosa veda nel volto della bambina, se riconosca una scintilla dell’anima di sua madre, o niente di niente. “Io…” Scuote ancora la testa, ma più veloce questa volta. “Chi pensi che sarà mio figlio?” “Ci credi davvero?” “Voglio dire, ipoteticamente. E se mi esce Ma Eng? Capito che intendo, dopo che è morta?” “Quello sì che sarebbe karma.” “Una merda sarebbe, una merda” dice Maly. “Non ho nessuna voglia di far rinascere Ma Eng. Mi spunterebbe fuori dalla vagina che già puzza di balsamo di tigre, prendendomi per le orecchie perché, tipo… ce l’ha già con me per qualcosa. Col cavolo che la sguinzaglio di nuovo nel mondo.” Ridiamo finché non la smettiamo, e sopportiamo il silenzio insieme, lei sempre di spalle. E finalmente: “Abortirei di sicuro se lo sapessi – se sapessi davvero, cioè – che in gestazione dentro di me ci fosse Ma Eng”. “Pure da reincarnata, o da embrione morto, ti farebbe impazzire.” “Probabile” replica Maly, guardandomi di sbieco. È quasi come se non riuscisse ad allontanarsi dalla bambina, come se qualcosa la obbligasse al confronto. “Ves… pensi sia inquietante se voglio che mia madre rinasca come… mia figlia?” “Penso di no” le rispondo.

Perché cos’altro posso dirle? Guardandola ridirigere il suo sguardo, mentre affonda la sua mano nella culla, non posso fare a meno di immaginarla far del male alla bambina. Lo so che non ha alcun senso, ma ho paura che stia per fare qualcosa di terribile, anche se le accarezza la testa, delicatamente, con il più gentile dei tocchi. “Ho cambiato idea” dice Maly. “È piuttosto carina, in realtà.” Ed è questa cosa, fra tutte, che mi fa salire il magone. L’aria improvvisamente soffocante, come se le dimensioni della stanza si restringessero, l’asciuttezza del palato, ogni parola che tenta di farsi strada graffiandomi su per la gola.

Cazzo, mi viene da pensare, gli occhi che mi lacrimano, mentre mi intrufolo non tanto in casa di nostra cugina di secondo grado, ma nel mondo di Maly, nell’unica opportunità di pace che ha con quella bambina. È chiaro che Maly vorrebbe stare con sua madre, a prescindere. È chiaro che non ha mai avuto bisogno di me, non per davvero. Forse ero io a essere arrabbiato con la mamma di Maly, con chiunque, tutto questo tempo. Solo io. Proprio allora, Ma Eng apre la porta, presumibilmente per portare la figlia di nostra cugina alla festa. Le sue sopracciglia collidono. È sorpresa di vederci, ma ci dice solo di sbrigarci, che è pronto da mangiare, sono arrivati i monaci, al che ci ordina di portarci dietro la bambina. Allora Maly la raccoglie e si volta. In piedi di fronte a me, con la propria mamma reincarnata premuta sul petto come un’armatura, Maly ha una postura naturale, come se si aspettasse di tenerla in braccio da una vita, la sua anarchia impertinente spazzata via come nulla fosse.

“Andiamo” bisbiglia, seguendo Ma Eng. Mi ci vuole un secondo per rendermi conto che Maly si sta rivolgendo alla bambina, e mi trovo sopraffatto dal silenzio della cameretta. Per un istante sono l’unica persona del quartiere lontano dalle celebrazioni, dai nonni e dai genitori, inclusi i miei, e dai neonati. Da tutte le generazioni, vecchie e nuove, morte e vive, persino quelle rinate. Stando qui, nella veglia di Maly, capisco davvero quanto io sia solo.

La stessa notte – dopo la benedizione dei monaci per la mamma reincarnata di Maly, dopo i brindisi di chiunque per la bambina e un banchetto di pietanze che la bambina non può mangiare, dopo che i nostri zii ubriachi hanno rovinato troppe canzoni al karaoke, e dopo che Rithy si è sbattuto Maly, per un’oretta, riportandola indietro con più succhiotti che pelle – sogno di essere nel Videodrome. Attorno a me delle torri televisive mandano in onda tutti quei programmi pensati per farci il lavaggio del cervello, le cospirazioni del nostro tempo su ogni canale, inclusa Maly in diretta su centinaia di monitor. In ogni singolo schermo è una ragazza diversa, con accanto un diverso assistente sociale che esprime in modo strano il suo affetto, che si sacrifica per crescerla e che la abbandona per una ragione o per l’altra. Rifiuti umani senza autostima e bravi ragazzi egomaniaci e modelli di riferimento sbagliati maschili e femminili aleggiano dentro e fuori dalle sue singole vite, ferendola il più delle volte, mentre altri, quando le dice bene, la sospingono in qualcosa che assomiglia alla felicità.

Tutte le volte finisce sempre per avere figli suoi, ogni tanto molti, ogni tanto uno solo, tutti cresciuti grazie a un qualche tipo di sussidio di cui non capisce niente, amando ognuno di loro, ardentemente, a prescindere. Eppure, tutte le iterazioni della vita di Maly, malgrado le tracce di ribellione, le differenze fondamentali, compongono sempre un unico mosaico, descrivono lo stesso arco fino allo stesso identico finale.

Accerchiato dalle visioni di Maly, mi sale il rimpianto che di queste vite non ne ricorderò nessuna, e però mi porterò dietro questo: io solo dentro il Videodrome, che guardo mia cugina trasformarsi in sua madre con ognuno dei suoi sé reincarnati, e mi interrogo sulla mia kteuy-tudine, su quanto si incastri bene nell’equazione che ho davanti, poco o niente. Al che mi sveglio. Mi sollevo sul mio letto singolo, mi guardo attorno nella stanza, la luce dalla finestra che mette a nudo il pulviscolo nell’aria, come il raggio fantasma di un proiettore. E finalmente, inizio a fare i bagagli.

1

La traduzione è di Emanuele Giammarco.

Copyright © 2021 by Anthony Veasna So
Published by arrangement with The Italian Literary Agency and Massie & MacQuilkin Literary Agents.

Riprodotto su gentile concessione della casa editrice Racconti.

 

2

L’artwork è di Eleonora Sabet, che ringraziamo.

Anthony Veasna So

Anthony Veasna So è stato uno scrittore americano di origine khmer. Ha pubblicato per la «Paris Review», il «New Yorker» e altre testate. Il suo primo e unico libro è Afterparties (Racconti edizioni, 2023).

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