La rivoluzione balla: come la disco music ha liberato il piacere - Lucy
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Giada Arena

La rivoluzione balla: come la disco music ha liberato il piacere

Marchiata dalla sinistra come disimpegnata, accusata dalla destra di essere poco virile, ecco la storia del genere musicale che non voleva essere politico, eppure lo è stato più di tutti gli altri: la disco music.

Un soffitto ricoperto da decine, forse centinaia di palloncini colorati; corpi che si scatenano uno accanto all’altro; pelli bianche, nere e di ogni sfumatura possibile lucide di sudore; dietro alla consolle, un giovane con le folte sopracciglia aggrottate osserva la pista da ballo con l’aria di un sacerdote nel mezzo di una liturgia. Le immagini che ritraggono il Loft di New York all’inizio degli anni Settanta sono uno sguardo su un futuro imminente, un futuro immaginato anche da quel giovane con l’aria seria: il suo nome è David Mancuso, colui che nel 1970 decide di aprire il proprio appartamento al Greenwich Village e invitare chiunque abbia voglia di ascoltare la sua selezione di dischi soul e funk a “fare festa e fare amicizia”.

I palloncini gli ricordano quelli che suor Alicia usava per decorare l’orfanotrofio cattolico in cui ha trascorso i primi anni della sua vita, dove ogni scusa era buona per alzare il volume del giradischi e regalare un po’ di felicità a dei bambini che altrimenti non avrebbero saputo dove trovarla. Come suor Alicia, Mancuso usa le sue feste per aggregare e intrattenere una gioventù traumatizzata, quella degli Stati Uniti post-Nixon: la guerra in Vietnam si è appena conclusa, la crisi petrolifera interrompe bruscamente la crescita dei decenni precedenti, le morti violente di personaggi come Martin Luther King e Malcolm X sono ancora una ferita aperta, e la cosiddetta “war on drugs” criminalizza chi vive in condizioni difficili.

In quel loft ampio, che gli evoca la propria infanzia nel secondo dopoguerra (“Penso che risalga all’orfanotrofio. In un modo o nell’altro mi sono sempre identificato con grandi spazi, vecchi edifici…”) Mancuso porrà le basi della rivoluzione musicale e culturale dell’era disco: il suo obiettivo è creare un mood che possa coinvolgere chiunque abbia voglia di ballare senza distinzioni di ceto, etnia o orientamento sessuale. Al Loft la pista da ballo è “un’utopia egualitaria”, come ricorda il critico Alexis Petridis, e proprio in quel periodo il mondo sembra accorgersi per la prima volta del potenziale del djing, che passa dall’essere considerato un’alternativa mediocre ai gruppi dal vivo a una nuova arte, in grado di generare hit e plasmare le evoluzioni della musica da ballo.

È il 1972 e in un negozio giamaicano di Brooklyn Mancuso si imbatte nel brano proto-disco in lingua douala Soul Makossa, registrato dal sassofonista camerunense Manu Dibango come B-side di una canzone celebrativa della Coppa d’Africa. Nel primo articolo che si interessa del fenomeno disco, pubblicato su Rolling Stone nel 1973, il giornalista Vince Aletti scrive di Soul Makossa: “Il 45 giri veniva distribuito da una società d’importazione africana quando un amico lo portò all’attenzione del DJ Frankie Crocker. Crocker iniziò a trasmetterlo sulla WBLS-FM di New York, una stazione nera molto affine al sound disco, ma il brano si affermò sulle piste da ballo, dove il ritmo ipnotico e le misteriose voci africane facevano impazzire le persone”. L’amico citato è David Mancuso e la pista da ballo è probabilmente quella del Loft; il successo del brano fu tale che le poche copie disponibili a New York finirono subito e almeno 23 artisti realizzarono in fretta e furia delle cover per capitalizzare sulla richiesta.

A Philadelphia, nel frattempo, il batterista Earl Young inventa il cosiddetto four-to-the-floor, il ritmo in 4/4 uniformemente accentato che da quel momento caratterizzerà la musica disco. Lo fa in The Love I Lost di Harold Melvin & The Blue Notes, un brano che, come Soul Makossa, occupa una posizione d’onore nell’albero genealogico della disco. Entrambi i pezzi sono composti da musicisti neri, così come altri artisti ispiratori del genere—Isaac Hayes, Barry White, James Brown. Un genere che quindi, proprio come il rock ‘n roll, nasce da afrodiscendenti e raggiunge il suo apogeo commerciale dopo un’appropriazione bianca.

“Al Loft la pista da ballo è un’utopia egualitaria”

In quegli anni complessi, luoghi come il Loft accolgono persone discriminate, che trovano uno spazio sicuro su una pista da ballo inclusiva, meticcia e promiscua. Così le neonate discoteche diventano la casa di una comunità il cui impatto sulla musica disco è indubbio, quella LGBTQ+. È un’America post-Stonewall, la rivolta del 1969 scelta simbolicamente come data di nascita del moderno movimento di liberazione gay, e nel 1971 a New York viene abrogata l’assurda legge che impediva il ballo corpo a corpo tra persone dello stesso sesso. Inebriati dal ritmo, ora tutti possono scatenarsi, testimoni e artefici di un nuovo modo di vivere il dancefloor, che diventa il campo base di battaglie inedite. “Gli anni clou della disco hanno rappresentato una ‘Intifada’ psicologica per i gay”, ha affermato il giornalista Richard Goldstein.

C’è un artista in particolare che ha sprigionato la luccicanza arcobaleno della musica disco: Sylvester. Dichiaratamente gay, esordisce nel mondo drag e indossa regolarmente sia abiti maschili che femminili, diventando prima una leggenda a San Francisco (amico di Harvey Milk, sfilerà con lui e Grace Jones al Pride del 1977) e poi “the Queen of disco”. Le foto dell’epoca ritraggono un artista mai uguale a se stesso, che sfida il binarismo di genere alternando caftani di paillettes a giacche di pelle, copricapi di perline a voluminose criniere afro. Guardando Sylvester, mi viene in mente una definizione in inglese praticamente intraducibile: larger-than-life, che si colloca semanticamente tra il fuori dall’ordinario e la leggenda. 

Per esempio, la sua hit You Make Me Feel (Mighty Real) è rivoluzionaria non solo per l’innegabile carica erotica, ma anche per l’uso del falsetto. Nell’articolo Fakin’ It/Makin’ It: Falsetto’s Bid for Transcendence in 1970s Disco Highs, Anne-Lise François spiega infatti che il falsetto trascende il genere grazie al suo registro soprannaturale, che non appartiene né al maschile né al femminile: per Sylvester è uno “strumento per il superamento del genere”. Il titolo di un servizio di TV Sorrisi e Canzoni dedicato all’artista nel 1979 è tanto eloquente quanto ridicolo: “Travestito nero, ugola d’oro”. Così come la gioiosa promiscuità dell’era disco, anche la vita di questa icona verrà stroncata dalla drammatica diffusione dell’HIV/AIDS: morirà nel 1988, dopo aver vissuto pubblicamente la malattia con l’obiettivo di sensibilizzare i fan in una fase in cui il discorso intorno al virus era ancora fortemente stigmatizzante.

Sylvester ha incarnato una straordinaria declinazione queer dell’archetipo disco per eccellenza, quello della Disco Diva. Un nuovo modello di donna, finalmente in possesso di un erotismo ostentato e fiero—e di abiti meravigliosi: “Halston, Gucci, Fiorucci”, cantavano le Sister Sledge. Gloria Gaynor, Diana Ross, Grace Jones e le altre dive sono state espressione di un’epoca nuova, in cui le donne potevano appropriarsi della pista da ballo senza dover più aspettare il cortese invito di un uomo. Tra tutte, ne spicca una: Donna Summer, che con Giorgio Moroder e Pete Bellotte ha indicato la direzione alla musica dei decenni successivi. La loro rivoluzione inizia in Europa, più precisamente nella Germania dell’Ovest dove Summer si trasferisce nel 1968: a Monaco la sua strada incrocia quella di un produttore altoatesino—Moroder, appunto. Un incontro inaspettato, possibile solo nel melting pot della Germania dell’epoca, complessa ma feconda terra di confine.

Nel 1975 strattonano l’industria discografica con Love to love you baby, brano iperorgasmico definito “sex rock” dai commentatori dell’epoca perché il termine “disco” non era ancora entrato ufficialmente nel vocabolario. Vagamente ispirato a Je t’aime… moi non plus, ribalta la prospettiva di quest’ultima: la donna non è più oggetto, ma cantrice del desiderio, felina e suadente. Nel 1976, l’energia erotico-musicale sprigionata dai tre raggiungerà il suo picco con la pietra miliare I Feel Love, un brano ipnotico, che riesce a essere carnale sebbene sia suonato con uno strumento “freddo” come il sintetizzatore—una scelta rivoluzionaria di Moroder, in un periodo in cui le sonorità elettroniche di artisti come i Kraftwerk erano ancora un’eccezione. C’entra sicuramente la presenza scenica di Summer, che nelle versioni dal vivo del pezzo vediamo cantare con gli occhi chiusi mentre ondeggia sinuosa, in estasi.

Sarà una certa autonarrazione femminile a porre le basi della storia della disco music in Italia. Il 1974 vede infatti l’uscita di due brani prodromici, e in entrambi il punto di vista è quello di una donna che vuole prendersi (o riprendersi) un uomo con un approccio nuovo, meno timido del passato. Il primo lo ricordano in pochi, esce nel maggio di quell’anno ed è Nessuno mai di Marcella Bella, in cui l’artista interpreta un’amante stanca: “Lei si serve di te mentre io ne ho bisogno per vivere/Lei è signora, io donna libera”. L’altro, invece, è Rumore di Raffaella Carrà, che con le parole “quando ho deciso che facevo da me” ha sciolto le briglie alla fantasia di molti. Una nota performance del pezzo vede una della Carrà più dionisiache di sempre, al centro di un’orda di ballerini con i pantaloni a zampa, dominatrice assoluta di una bizzarra ammucchiata psichedelica.

Negli anni dell’esplosione disco, tra il 1976 e il 1978 (anno in cui verrà regolamentato l’aborto in Italia), saranno moltissimi gli artisti a esplorare le nuove sonorità con degli inni alla disinibizione: tra tutti, spiccano Ornella Vanoni con Ti voglio (“Ti voglio, ti voglio, mi piaci, mi spoglio/Mi spoglio dei mille problemi che c’erano in me”), Renato Zero con Triangolo (“Il triangolo, no/Non l’avevo considerato/D’accordo, ci proverò/La geometria non è un reato”) e Adriano Celentano con Che cosa ti farei (“Sei molto bella sai, che cosa ti farei/Che cosa ti farei/Se non fossi mia, ti vorrei”). Sono apprezzabili anche le incursioni musicali di una giovane Cicciolina, che negli stessi anni darà il via alla sua fortunata trasmissione erotica su Radio Luna, Voulez-vous coucher avec moi?, diventando l’incarnazione della neonata liberazione sessuale degli italiani.

Quegli anni vedono un’Italia ancora democristiana affollarsi di figure che mostrano modi nuovi e diversi di stare sul palco e, in generale, al mondo. C’è il già citato Renato Zero, alieno glam al di là del genere, avvolto da tutine glitterate a cui il recente immaginario genderless forgiato da stilisti come Alessandro Michele è decisamente debitore (basti pensare alle celebrità vestite da Gucci come Harry Styles, Achille Lauro o i Måneskin). E poi c’è Amanda Lear, esotica e ambigua: a causa della voce profonda e delle origini difficili da ripercorrere, si diffuse quasi subito una leggenda metropolitana secondo la quale l’artista sarebbe nata uomo, una leggenda durata decenni anche a causa della morbosità di un pubblico poco abituato ad artiste così androgine. Lei stessa giocò a lungo con queste voci, dichiarando in seguito che si trattava di una trovata pubblicitaria escogitata da lei e Salvador Dalí, di cui fu a lungo musa.

“Ti voglio, ti voglio, mi piaci, mi spoglio
Mi spoglio dei mille problemi che c’erano in me”

Due nomi meno conosciuti, esempi perfetti di questa nuova era, sono quelli del pittoresco Amadeo e della raffinata Astha Puthli, entrambi habitué di trasmissioni televisive di una Rai che sperimentava ben oltre i rassicuranti confini del classico varietà. In questo Pantheon, merita un posto speciale Stryx, probabilmente il programma più folle ed esoterico mai prodotto da Mamma Rai. Nato dall’intuito di Enzo Trapani, prende il nome dalla strige, leggendario animale antropofago e maledicente, e sconvolge l’Italia del 1978, concedendo qualche evasione a una gioventù afflitta dalla violenza degli anni di piombo.

Lo show musicale viene costruito intorno al binomio satanismo-erotismo e celebra con irriverenza ciò che l’autrice Carla Vistarini ha definito “il mondo del mistero, la stregoneria, la magia… Tutto quello che non è conoscibile, il misterioso che ha costellato la vita dell’umanità e che, in quel momento ma oggi ancora di più, si nascondeva e si tendeva a dimenticare”. Lo fa con scenografie psichedeliche, riferimenti espliciti all’occulto e una nudità orgiastica che non sarà perdonata: Stryx verrà sospesa in anticipo a causa delle polemiche, nonostante le performance preziose di artiste quali Grace Jones, Mia Martini, Anna Oxa, Amanda Lear, Gal Costa o gli Area.

In Italia la disco è stata snobbata negli ambienti più colti e schifata in quelli impegnati perché considerata un divertissement di destra, colonna sonora di una frivolezza capitalistica che poco aveva a che fare con le lotte di quegli anni. Così come accaduto con Lucio Battisti, non proporre testi esplicitamente politici o evitare di prendere posizione nell’asfissiante bipolarismo dell’epoca significava ricevere una lettera scarlatta, la D di Disimpegno o, ancora peggio, la F di Fascio. Eugenio Finardi scriveva: “Due furono i killer del movimento studentesco: i brigatisti rossi e i Bee Gees”.

La storia della disco music di Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano raccoglie le testimonianze dell’epoca, a dimostrazione di quanto fosse trasversale l’astio nei confronti di un genere nuovo e, per questo, poco rassicurante. Su «il manifesto», i comunisti affermavano che “il mito di Travolta è il volto nuovo con cui hanno deciso di aggredire i giovani. Dopo la droga e le religioni adesso li vogliono ipnotizzare così”; in un volantino del 1980, i fascisti di Terza Posizione proclamavano che “il fascista anni ‘80 non si riconosce nelle culture importate e nei modelli dei borghesi annoiati: il jazz, la disco music”; i cattolici si chiedevano su Famiglia Cristiana se avesse ragione chi definiva i giovani “in termini di menefreghismo, riflusso, travoltismo e disimpegno”. 

Pregevole è, quindi, la lucidità di un reportage pubblicato su «Repubblica» nel 1978, In sala da ballo ci salveremo, firmato da Natalia Aspesi: esplorando le abitudini dei giovani di sinistra nell’hinterland milanese, la giornalista scopre che—ebbene sì!—anche i proletari vanno a ballare e la discoteca può rappresentare uno spazio di decompressione per i militanti, con buona pace dei compagni di Lotta Continua che arrivarono a proporre un piano per sostituire la musica disco (dal “grosso potenziale fascista”) con quella rock, trasformando così le discoteche in “discoteche di ascolto”.

Quasi nessuno sembrava essersi accorto che La febbre del sabato sera, film che segnò l’esplosione mainstream della disco, è un ritratto brutale del sottoproletariato urbano italoamericano, una categoria sociale emarginata nella land of opportunity che trovava nel ballo la possibilità di emergere, esprimersi e liberarsi. Inoltre, oggi riusciamo a percepire un certo pregiudizio machista in chi detestava i cosiddetti “travoltini”: all’epoca, soprattutto in un luogo come l’Italia, il ballo era percepito come un’attività svirilizzante. Roba da femmine o, con un immancabile pizzico di omofobia, da gay.

“Su «il manifesto», i comunisti affermavano che ‘il mito di Travolta è il volto nuovo con cui hanno deciso di aggredire i giovani'”

È emblematica la critica che, nel 1978, Lotta Continua rivolse ai membri torinesi del F.U.O.R.I., una delle prime associazioni del movimento di liberazione omosessuale italiano, per aver preso in gestione una discoteca: i primi rinfacciavano ai secondi di non aver creato nulla di politicamente alternativo a causa della musica scelta, ovviamente disco, aberrante prodotto del sistema capitalistico. Le discoteche, invece, anche nel nostro paese, rappresentarono una zona franca per chi non poteva ancora esprimere liberamente la propria identità alla luce del sole, preferendo farlo sotto quella sfaccettata delle discoball.

Tra le prime e più importanti, infatti, spiccano due gay club come La Nuova Idea a Milano e l’Easy Going a Roma, che sulle sue pareti proponeva le illustrazioni omoerotiche di Tom of Finland. Per non parlare della leggendaria Baia degli Angeli, che viene raccontata così da un articolo del Corriere della Sera dell’epoca: “Con un biglietto da 5000 lire si incontra di tutto: punk simulati, tarzanine, esemplari gay, neofiti della disinibizione assoluta”. La Baia apre a Gabicce Mare nel 1975, due anni prima dello Studio 54, patinato club newyorkese che diventerà il simbolo dell’era disco grazie a celebrità viziose come Andy Warhol, Liza Minnelli, Halston e Bianca Jagger. “Domani la Storia non si permetterà (magari) di definire gli anni ‘70 come il Decennio del Terrorismo, della Discoteca e del Dibattito?”, si chiedeva Alberto Arbasino in Un paese senza: nel 2023, non mi sento di smentirlo.

La rivoluzione balla: come la disco music ha liberato il piacere -

Come spesso accade, però, dobbiamo riconoscere un fondo di verità nelle critiche rivolte alla disco nel momento della sua massima diffusione. Nel 1977, l’uscita de La febbre del sabato sera rende lampante la crescente commercializzazione, bianchizzazione ed eterosessualizzazione di un genere che viene rapidamente inghiottito dalle major discografiche, impegnate in un assalto alla sfavillante diligenza disco. Per intenderci, nelle classifiche statunitensi del 1978 troviamo delle canzoni disco al primo posto per 37 settimane su 52 e, nello stesso periodo, più o meno tutti pubblicano una traccia pensata per il dancefloor—dai Rolling Stones a Dolly Parton, da Dalida agli Eagles. Si tratta di un’evoluzione fisiologica, ma nel caso della disco l’impoverimento culturale del genere è evidentissimo: più patinata e meno istintiva, più performativa e meno giocosa, più commerciale e meno politica, più bianca e meno meticcia.

Così inizia a diffondersi una certa insofferenza, polimorfa quasi quanto l’oggetto dell’astio. C’è chi ironizza sul boom del ballo e sulla superficialità dei testi, come Franco Califano di Balla Ba o gli Squallor di I love my disco baby, e chi adotta un approccio più inquietante come il Disco Dux Klan, un gruppo di vigilanti anti-disco creato da due DJ di Detroit che, per fortuna, abbandonarono l’idea di andare in giro indossando una tunica bianca ispirata a quella del quasi omonimo Ku Klux Klan. In questo pericoloso continuum tra dissacrazione e violenza possiamo collocare la Disco Demolition Night del 12 luglio 1979, probabilmente l’evento anti-disco più noto di sempre.

“Le discoteche, invece, anche nel nostro paese, rappresentarono una zona franca per chi non poteva ancora esprimere liberamente la propria identità alla luce del sole, preferendo farlo sotto quella sfaccettata delle discoball”

Il conduttore radiofonico Steve Dahl invitò i suoi ascoltatori a distruggere album di musica disco nel corso dell’intervallo di una partita di baseball al Comiskey Park di Chicago, uno pseudo rito pagano per evocare il ritorno della “vera musica”—ovviamente quella rock, meglio se suonata da uomini bianchi. La situazione, come è facile immaginare, degenerò. Oltre cinquantamila persone accorsero allo stadio per partecipare ai roghi e l’evento sfociò in una sommossa, con dinamiche simili a quelle che vent’anni dopo trasformarono Woodstock ‘99 in un girone infernale, in cui l’odore di plastica bruciata si fondeva a quella del sudore di corpi intrisi del proprio testosterone.

Per comprendere l’impatto politico della Disco Demolition Night, ci vengono in soccorso le parole di due testimoni: il critico musicale Dave Marsh descrisse l’evento come la realizzazione della “fantasia più paranoica sulle conseguenze della pulizia etnica istigata dalle radio rock. […] I maschi bianchi tra i diciotto e i trentaquattro anni tendono a vedere la disco come il prodotto di persone omosessuali, nere e latine, quindi sono più propensi a rispondere agli appelli per eliminare tali minacce alla loro sicurezza. Va da sé che questi appelli siano razzisti e sessisti”.

Il giornalista Mark W. Anderson, che partecipò alla Demolition Night all’età di 15 anni, scrisse successivamente che “la possibilità di urlare Disco sucks! significava più di una semplice scelta di stile musicale. È stata un’occasione per respingere una serie di dinamiche sociali che giacevano sotto la superficie di una piccola battaglia tra un DJ e una stazione radio. […] Per molte persone è stata l’opportunità di dire che non gli piaceva il modo in cui il mondo stava cambiando intorno a loro, o chi consideravano i potenziali vincitori di una guerra culturale e demografica.”

Nile Rodgers, produttore e chitarrista degli Chic con trascorsi nelle Pantere Nere, paragonò l’evento ai roghi di libri organizzati nel 1933 nella Germania nazista. Secondo diverse testimonianze, in effetti, finirono nel fuoco anche vinili non disco, ma composti da artisti neri—artisti che in quel periodo si stavano appropriando dei riflettori che nei decenni precedenti erano riservati ai bianchi.

Tommaso Labranca ne parlava così in un articolo del 2010, successivamente raccolto nel primo numero di Labrancoteque: “Erano neri che non si piangevano addosso, erano ricchi come Barry White, sexy come Donna Summer, elegantissimi come gli Chic. La disco music non divideva, ma univa. Neri e bianchi e gialli ballavano tutti lo stesso ritmo e apparivano sulle copertine chiusi nel loro luccicante mondo plasticoso dove la notte non finiva mai”.

L’incubo di ogni reazionario, insomma. E forse proprio per questo la disco è più preziosa e contemporanea che mai: in un’era martoriata non solo dall’esplosione del terrorismo bianco ma anche dalle ipocrisie del pinkwashing e dal rainbow washing, in cui la lotta per l’uguaglianza è spesso poco più di un’operazione cosmetica funzionale al mantenimento dello status quo, è di grande ispirazione ripercorrere l’impatto di un genere musicale nato invece da una sincera spinta umana, e quindi politica—e anche per questo inguistamente stigmatizzato.

La disco è stata meticcia e anarchica fin dai primi battiti del suo four-on-the-floor: come scrive Alice Echols in Hot Stuff: Disco And The Remaking Of American Culture, “promiscua e onnivora, ha assorbito suoni e stili da ogni parte, e nel processo ha accelerato il flusso transnazionale di idee e idiomi musicali”. È ironico leggere oggi chi definiva la Disco Demolition Night “la notte in cui la disco morì”, a poche settimane dalla cerimonia in cui Beyoncé è diventata l’artista più premiata di sempre ai Grammy grazie alla sua dichiarazione d’amore all’era disco, Renaissance, le cui sonorità sono una naturale evoluzione di ciò che Giorgio Moroder creava nel suo studio negli anni ’70. Non c’è rogo che tenga, quindi: la disco è più viva che mai e il suo cuore continua a battere in 4/4.

Giada Arena

Giada Arena è creative strategist e autrice di Lucy. Il suo podcast si chiama nuda e cruda.

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