Irene Graziosi
Il film di Luis Ortega è straripante e caotico, eppure tenero nel mostrare il desiderio di rinascita di un uomo.
Nella prima scena di El jockey, film dell’argentino Luis Ortega in concorso a Venezia 81, il fantino Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart) è sciolto sulla sedia di un bar di Buenos Aires. Il locale è popolato da personaggi stravaganti, tra cui una donna sensualissima che balla da sola mentre fuma una sigaretta e un uomo senza arti. Il fantino dorme dopo una notte di eccessi, la bocca aperta e gli occhi chiusi nascosti da un paio di eccentrici occhiali da sole, fino al momento in cui tre uomini dalle facce patibolari fanno irruzione nel bar, infilandogli un frustino in gola per svegliarlo. Gli uomini lavorano per Sirena (Daniel Giménez Cacho), il mafioso per cui corrono sia Remo sia la fidanzata Abril (Úrsula Corberó Delgado), che non è affatto contento delle sregolatezze del suo fantino prodigio, anche perché ha appena fatto arrivare il costosissimo cavallo Mishima dal Giappone affinché sia lui a cavalcarlo. Ma Remo, che parla molto poco, è infelice. Si strafà tutto il giorno, evidentemente il suo lavoro non gli dà gioia, anche se è stato uno dei più grandi nel mestiere, venerato in vita come una leggenda. Ama Abril, certo, che è bella, competitiva e responsabile, ma la ama come amano le persone che non lo sanno fare: solo in teoria, senza sforzi, e lei non ne può più. Come fare a farsi amare di nuovo da lei, le chiede subito prima di proporle di pisciargli sopra? “Devi morire e rinascere”. Una risposta che per gli spettatori vale come una frase qualunque pronunciata da un’amante intenerita e un po’ stanca, e che invece improvvisamente diventa il leitmotiv di tutto il film, che è matto, caotico, imperfetto, eppure adorabile. Dopo poco, infatti, Remo Manfredini sarà costretto a (o sceglierà di?) morire e rinascere davvero, risvegliandosi dopo un incidente con un turbante di garza in testa e una vaga idea del suo passato da fantino, e si aggirerà per le strade di Buenos Aires con un’elegante borsa da donna al braccio e lunga pelliccia ad avviluppare il bozzolo di ciò che diventerà.
“‘Devi morire e rinascere’. Sembra una frase qualunque e invece diventa il leitmotiv di tutto il film, che è matto, caotico, imperfetto, eppure adorabile”.
Il mondo costruito da Luis Ortega sembra suggerire che tutti i maschi soffrono, e che ciascuno lenisce il proprio dolore come può: con il potere, con la violenza e infine, i più sensibili, con l’oblio. Le donne invece costituiscono un universo a parte, universo che tentano di mostrare agli uomini che hanno accanto, e che per i quali però rimane invisibile o impenetrabile. El jockey è un film che racconta il movimento di un uomo per liberarsi dell’uomo, e in gran parte è sostenuto dal viso di Nahuel Pérez Biscayart (sosia di Buster Keaton), che è perfettamente inespressivo e vuoto quando è un infelice fantino, e curioso e intimorito e tenero quando entra nelle farmacie per pesarsi sulla bilancia che gli restituisce uno 0, neanche 21 grammi: non esiste ancora, è appena nato. La cosa buffa poi è che la pellicola, come la mente del protagonista, è a sua volta immersa in uno strano liquido onirico che rallenta i movimenti e gli affetti di tutti i personaggi, come se agissero sott’acqua. Ortega non vuole impressionare o drammatizzare. Il suo è un mondo simbolico, lo si guarda da lontano, si riconoscono gli archetipi, si empatizza con la timida e furtiva fuga del protagonista da se stesso, che forse è segretamente ciò che tutti gli uomini desiderano.
Rimane poi da capire come mai Ortega abbia scelto proprio un fantino come protagonista, e perché in generale abbia voluto ambientare una storia in fondo universale in un contesto come quello delle corse dei cavalli. Me lo sono chiesta mentre guardavo El jockey, perché in fondo i fantini, almeno fisicamente, sono già persone dai corpi compatti ed esili, leggerissimi. Perché non usare fisicità diverse, più robuste, più tipicamente maschili? Chissà, forse è proprio questo corpo infantile, a metà tra ciò che è maschio e ciò che è femmina, ciò che è ragazzino e ciò che è adulto, a permettere a Manfredini di varcare così facilmente la soglia del genere, e infine dell’età.
“Il mondo costruito da Ortega sembra suggerire che tutti i maschi soffrono, e che ciascuno lenisce il proprio dolore come può: con il potere, con la violenza e infine, i più sensibili, con l’oblio”.
Fuori dalla sala, alcuni dicevano che nel film ci sono troppe cose. Impossibile dargli torto: molto sopra le righe, un finale pasticciato, molti balli, un film che è una sorta di mercatino delle pulci pieno di chincaglierie e ammenicoli e molle che saltano fuori ovunque ti giri. E però è anche vero che non è una scelta pretenziosa, anzi, è portata avanti con determinazione e leggerezza, molte battute e trovate divertenti – tra tutte, il signor Sirena che ha sempre un neonato in braccio, ogni volta diverso, e quando gli viene fatto notare che quello attuale è nero e quello prima bianco dice: “Crescendo diventano così”. Forse è questa atmosfera così surreale e straripante a far sì che il film non appaia, malgrado i temi che lo innervano – l’identità di genere, il movimento del maschile al femminile – scontato o già visto. È anche il film più riuscito di Ortega, dopo un paio di serie andate molto bene in Argentina, un film del 2002, scritto a 19 anni, che in effetti ai tempi era molto piaciuto, e infine El ángel, nel 2018, che non era granché.
C’è insomma un fragile equilibrio tra le tantissime componenti di questa giostra che la rende però irresistibile, come vedere, che so, un gruppo di topolini dotati di cappelli che fanno acrobazie e infine formano una piramide in bilico su un filo di seta sospeso nel vuoto.
Irene Graziosi
Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).
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