Fare palestra per non impazzire - Lucy
articolo

Alcide Pierantozzi

Fare palestra per non impazzire

Del corpo non ci si può fidare quando si ha un grave disturbo psichico. Anche gli psicofarmaci alterano le percezioni sensoriali e hanno importanti conseguenze sul fisico. In questo toccante pezzo autobiografico, allenarsi in palestra può rappresentare un argine alla malattia.

La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi.

Joker di Todd Phillips (2019)

Sono le tre del pomeriggio di un giorno di marzo, di un anno in cui ogni mattina ho pensato di farmi del male. 

Le medicine che prendo al risveglio fanno effetto verso l’ora di pranzo, ma a volte l’incantesimo è impuntuale. 

Sono in cura da due neuropsichiatri (uno qui a San Benedetto, l’altro a Milano) che non mi credono: le molecole di questi psicofarmaci non hanno il timer, si sono accampate da tempo nel mio organismo.

Eppure il paesaggio industriale, oltre i vetri della palestra, non ondeggia più come qualche minuto fa e il mio cervello sta sperimentando un riassetto delle proporzioni. 

Sono le tre del pomeriggio di un giorno di marzo e il sole si consolida sulla realtà che si snebbia. Da qui si vede solo la sommità dei Sibillini, la base è coperta da un’infilata di centri commerciali e di fabbriche. C’è un odore di solfatara nella sala pesi, le filacce di muffa tremano sulle travature del soffitto.

Eccomi, con la felpa e il cappuccio perché ho sempre freddo, con lo sguardo nittitante da antipsicotici, con una certa urgenza sudaticcia nelle mani, ma ancora in catalessi mentre guardo gli altri che si allenano. Mi sto svegliando da un’immobilità minerale. Sotto i piedi comincia ad ardermi una fiamma piccola. Ho una massa di cento chili per un metro e novantadue e occupo parecchio spazio, anche se il peso della mia disabilità psichica eccede di molto quello del corpo. 

Mentre riscaldo le cuffie dei rotatori con l’elastico, nello stomaco mi si accumula l’acido di quello che è successo stamattina. Dopotutto adesso sto bene. Stamattina mi faceva schifo tenere questa lingua in bocca.

Stamattina ho sentito più forte del solito l’urto della malattia, ho cercato su internet il kit per il suicidio che vendono in Canada, una maschera al nitrito di sodio; e insomma ho cercato, cercato, con una zuppa al posto del cervello. Adesso il mio corpo è pronto a due ore di allenamento intensivo e si appresta a riguadagnare in muscoli quello che ha perduto in lucidità mentale.

“Eccomi, con la felpa e il cappuccio perché ho sempre freddo, con lo sguardo nittitante da antipsicotici, con una certa urgenza sudaticcia nelle mani, ma ancora in catalessi mentre guardo gli altri che si allenano”.

A fine allenamento, quando farò la sauna, il calore mi farà andare il sangue in pappa. Sentirò disgiungersi gli arti – braccia, gambe – disossati. Due sudori diversi mi confluiranno allora sulla pelle, di cui uno mi appartiene e l’altro è putrido di scarti chimici.

Dal 2020 prendo sette pasticche al giorno per sopravvivere, cinque la mattina e due dopo cena. Noradrenalina-dopamina, paroxetina, antipsicotici e antiepilettici, in due uniche indigeribili razioni. 

Dal 2020 mi alleno tre-quattro ore al giorno, sei giorni su sette, e ho cambiato del tutto fisionomia: anche se la mia vita è un continuo crollo d’ossa, ho trenta kg di muscoli in più e la pelle luccicante di un ventenne. Se ricorro al reagente della sauna non è per vanità: farmi colare il corpo addosso è diventata una liturgia serale di svelenamento. 

Ma voglio essere preciso nel raccontarvi questa storia. Devo solo attenermi alla regola di non inventare niente, di appoggiare la matita sul foglio e andare veloce. Scrivere per me è diventata un’attività motoria della mano, ormai, più attendibile della mia mente. Raccontare i fatti miei mi metterebbe a disagio come scrittore se mi sentissi ancora tale, ma è finita: io sono stato colpito nel punto in cui hanno sede le forze della scrittura. Episodi di dissociazione continui, allucinazioni, autolesionismo, corse al pronto soccorso, tentativi e minacce di suicidio che hanno annichilito la mia famiglia. 

Io impazzisco e mi dicono che la realtà è sempre qui, attorno a me, un po’ più indietro, un po’ più avanti, o come un vento laterale: ma imprendibile per il mio cono d’occhio, impossibile da raccontare. 

Ho sempre pensato che lo scopo della scrittura fosse quello di interrogare la realtà del presente in cui viviamo – non di mettere in dubbio la realtà in quanto tale. Adesso, a sollevare le pietre delle mie parole, emergono tagli di decubito sulla pagina, un humus di vermi.

Indovina il nome della malattia

La mia malattia è mentale, ma riguarda il corpo. 

Forse solo all’inizio sono stato investito da una grande tristezza cosmica, ma ero troppo piccolo per potermene ricordare. Ho perso un fratellino quando avevo solo un anno, e mia madre… be’, sono cresciuto con una ragazza poco più che adolescente e il suo sguardo alluttato. Di colpo, per osmosi con lei che non era più in grado di camminare eretta, che gattonava a terra fissando il pavimento, mi è caduta la visione da lontano. 

Tutti gli psichiatri da cui sono stato in cura sono d’accordo su un unico punto: ho avuto una terribile depressione infantile. Poi ci sono state diagnosi sempre diverse e nomi-mandala che mi hanno raschiato le orecchie ogni giorno: depressione maggiore con disturbo ossessivo-compulsivo invalidante e psicosi fino ai vent’anni; sindrome di Asperger (scoperta dopo) con depressione ciclotimica fino ai trenta; bipolarismo di tipo 1 con depressione psicotica fino a oggi.

Purtroppo, con i disturbi psichiatrici, il nome preciso della diagnosi non è sempre scontato: faccio la stessa terapia di chi è schizofrenico o bipolare, ma siccome non esiste una tac per scansionare la psiche, procedo curando per tentativi una malattia innominata.

La scuola per me è stata un incubo, perché ai tempi nessuno mi aveva diagnosticato né un possibile autismo né il disturbo depressivo, e gli insegnanti non facevano altro che umiliarmi e bocciarmi. Le droghe, e soprattutto l’alcol che il mio corpo ha assimilato dai venti ai trent’anni, hanno formato, mescolati con la paroxetina – ai tempi prendevo solo quella – una personalità abituata a continui episodi di dissociazione.

All’inizio si impazzisce nella convinzione di essere particolarmente presenti a se stessi, per eccesso di analisi, come per un vizio di congettura: si sentono le campane che cozzano, ma sono così lontane da fare cincin. C’è un mezzo gaudio, all’inizio, che ti fa sentire invaso da un tempo accelerato, che ti spinge a fare mille cose, che ti fa credere nel paranormale. Si impazzisce con la sicurezza di rappresentare il meglio in fatto di raziocinio. Il dirompere vero e proprio della malattia credo lo si scelga, forse per sfinimento.

Io l’ho scelto, verso i trentacinque anni. C’è un accenno di crudeltà, negli occhi di chi sta per fare una scenata di rabbia, che spiega molto bene questa decisione. Spalancato quello che non andrebbe spalancato, mostrata l’impronta minatoria che non andrebbe mostrata mai, alla fine saltano i bottoni del cervello, ed è liberante l’accanimento con cui ci si desidera sempre più pazzi.

La mia malattia mentale, ormai da cinque anni, ha raggiunto la sua acme e si riassume in qualcosa di spaventoso: adesso ad esempio me ne sto qui, immobile davanti al foglio, e mi tocco a mani nude l’ugola sul palato perché sono convinto che stia sparendo. È un’operazione che richiede ore, a volte giorni, un’arte carabiniera del dettaglio. L’attendibilità scientifica delle mie diagnosi è ovviamente inesistente: non ho una laurea in medicina. I dati cogniti (la mia ugola è sempre lì) sono sempre soverchiati da quelli incogniti dell’incertezza e della possibilità. È come se mi mancasse quell’intelligenza di fondo che porta ogni persona sana non tanto a scacciare un brutto pensiero, o ad andare dal dottore, ma a comprenderne l’infondatezza, la portata fantastica. 

Il 10 marzo ero in Abruzzo, dove ho la residenza, ma non sono andato a votare per le elezioni regionali. Sulle scarpe quella mattina vedevo dei piccoli serpenti vivi. Si erano infilati negli occhielli della tomaia, al posto delle stringhe, e si dibattevano senza riuscire a districarsi. Avevo inoltre la convinzione che un’enorme farfalla con le ali sporche di escrementi umani si fosse nascosta in casa, perché ne sentivo l’odore (ma perché proprio una farfalla? mi chiedeva mia madre).

Fare palestra per non impazzire -

Sono ossessionato dalla degenerazione della sanità abruzzese, dalla corruzione nella provincia di Teramo, ho passato l’invernata a documentarmi su questi argomenti, ma quel giorno sono andato in tilt. Quando molti pensieri entrano in collisione tra loro, ciascuno con la propria risonanza lirica, i sintomi della malattia sfociano in una crisi autistica di tale portata da richiedere l’intervento tempestivo di molte persone: lo psichiatra, il medico condotto, la mamma, il fratello. Devo aumentare i farmaci e devo espormi alla luce del sole. Fisicamente comincio a tremare e ad avere tutta una serie di movimenti stereotipati: batto le mani, roteo i polsi, ripeto la stessa parola per giorni, mi tocco e massaggio alcune parti del corpo fino a farle sanguinare. Mi sento ridotto a puro peso. Divento disfunzionale. Cerco aiuto e supplico il ricovero in clinica. È come essere una tartaruga rovesciata incapace di girarsi da sola. Un pezzo d’acqua che attraversa i deserti del mondo in cerca di una bocca.

L’odore dei giorni

C’è sopra la mia testa una specie di super-coscienza in grado di discernere tutto, diciamo una zona franca dell’intelligenza, ostacolata però da continui scompensi vascolari e da sbilanci energetici. È una coscienza che se ne sta al di fuori di me, e che attende con orrore il marameo dei pensieri. A volte sento fisicamente il mio cervello, avverto i suoi gangli malati, i suoi ronchi, ho proprio l’impressione di avere un cavolo cappuccio marcio avvitato nella scatola cranica, pinzato con una forchetta. Una gengiva enorme e rotonda, inguainata in un intrico di filo interdentale. 

Lo percepisco come uno di quei posacenere col filtro mangiafumo, con la sigaretta dentro che continua a bruciare. Ma è impossibile chiedermi di fare perno su questa consapevolezza per arginare le crisi e comportarmi in modo normale, chiedermi insomma di alzarmi e andare a votare. Sarebbe come chiedere a qualcuno di tenere gli occhi aperti senza battere le ciglia per ore. L’ansia mi spreme tutto, la perdita di contatto con quella zona franca è un’occlusione. 

Solo quando alzo i pesi in palestra riesco a sbollentare questo dolore cronico e a impedirmi di avere una crisi ingestibile ogni giorno. Il cervello mi chiede qualcosa da masticare, e io lo sazio affaticando il corpo, provo a non dargli il tempo di concentrarsi sui suoi pensieri di aberrazione. 

Un po’ alla volta, negli ultimi anni, sono tornate le allucinazioni che avevo da ragazzino. Allucinazioni visive ma soprattutto uditive e tattili. Le immagini un bel giorno hanno incominciato a trasfigurarsi e confondersi, i suoni a sfilacciarsi. Se stavo all’aperto la luce non variava in base al flusso delle nuvole, ma a qualcosa che mi partiva dalle cispe degli occhi. A Milano giravo dieci volte l’isolato prima di trovare casa mia, ogni secondo dovevo ricostruire il lampione che i miei occhi vedevano spezzato. Se ero in un luogo silenzioso mi arrivavano delle schitarrate senza senso nelle orecchie. La musica nelle cuffie mi riempie ancora di stonature e nelle mie aree uditive c’è sempre un suono di fiammiferi sfregati, anche sotto la doccia. La terapia ha peggiorato il mio rapporto con gli odori: quelli reali mi stremano, ma la maggior parte delle volte li sento solo io. Sia il giardino di casa, sia la palestra, sia la gente che incontro: non c’è più nulla che non abbia l’odore falciforme di un gabbiano in decomposizione, di un paio di mutande pisciate.

Il tatto a volte mi si sfila dalle mani e scantona su superfici lontane, comincio a sentire cose inesistenti sul corpo. Pustole, ghiandole, la sporgenza di un osso. Prima dei farmaci, durante ogni episodio allucinatorio, era come se mi si stringesse di un buco la cintura che avevo attorno alla testa. C’è una fontana con i pesci rossi, vicino casa mia, con una madonna di pietra al centro, e una sera ho visto un immenso pesce rosso di pietra al posto della vergine. Mi sono avvicinato e ho visto nuotare nell’acqua delle piccole, anfibie madonnine azzurre. La maggior parte delle volte sono differimenti sensoriali di questo tipo, che mi fanno vedere le cose nello stato in cui sono (più o meno) ma non nel posto reale in cui si trovano. 

Come è successo stamattina, ad esempio.

Il cane e la mamma

Stamattina sapevo benissimo che il mio cane era il mio, ma la mente dopo colazione ha comunque preteso una verifica. 

“So che sei tu, ma devo controllare una cosa” gli ho detto attraverso la finestra, dopo averlo chiuso in balcone. Andando in bagno a fare pipì ho capito subito che sarebbe stata una giornata nera. 

“Spalancato quello che non andrebbe spalancato, mostrata l’impronta minatoria che non andrebbe mostrata mai, alla fine saltano i bottoni del cervello”.

Già il bagno come luogo per me comporta delle complicazioni: se mi giro per sbaglio verso lo specchio e vedo qualcosa di strano sulla faccia, un brufolo, un taglietto, posso avere un episodio clinico. Da due anni non mi specchio più e mi lavo e mi vesto con la luce spenta. L’esercizio della toilette è diventato laborioso, mi faccio la doccia e il bidet all’ombra e nell’ombra, al tasto trovo l’incavo delle ascelle, la radura della schiena, l’inguine e i testicoli. Un essere umano ridotto a puro tatto, che sente ogni piega della pelle come il bordo di una ferita che si stacca e si attacca incapace di guarire. 

A trentanove anni per tacitare i pensieri ho bisogno della mamma. Se intravedo una macchiolina sul braccio, o se percepisco un linfonodo gonfio sul collo, mi faccio controllare da lei. È più facile per entrambi, considerato che se mi guardassi da solo potrei avere un episodio allucinatorio e pretendere di andare subito al pronto soccorso o da uno specialista. 

Stamattina ero in casa da solo, così ho preso il cellulare e mi sono seduto sulla tazza per fare pipì. Ho preso anche un foglio e una penna e ho tracciato uno schema di linee sulle quali ho scritto cosa mi stava mettendo quei dubbi sul cane. Ho guardato le foto del cane su Instagram e ho scritto i dettagli più rilevanti: cane dalmata, macchia nera semiovale sotto l’occhio sinistro, capezzolo nero… Io in questi momenti di panico ho la necessità di sentire che la penna non va da sola con un procedimento furioso, come mentre scrivo questo articolo, ma che la carrucola della mia mano gli apponga la forza della lentezza. Queste parole pigre, che sono solo uno stretching cerebrale, mi calmano, funzionano da assestamento logico. Sono l’ultimo riparo tra me e l’irreparabile. 

Dopo aver preso i miei appunti sono tornato in balcone per studiare meglio il cane, l’ho annusato. L’odore era più o meno il suo odore di sempre. A sentire la vescica piena, a un certo punto, dovevo tornare nuovamente in bagno: gli stavo controllando la coda da quasi un’ora, gobbo su di lui, zitto. Fino a quando nell’orbita oculare mi è entrato un dettaglio, ho visto che aveva un canino scheggiato e ho avuto la garanzia che fosse lui. Nella testa tutto è tornato in ordine, ma solo perché nel frattempo si è fatto sotto un pensiero più spaventoso. Dovevo andare di corpo.

Sono tornato a sedermi sulla tazza e non avevo che da espletare le mie funzioni fisiologiche, ma dopo pochi secondi, velati di confusione, ho cominciato a temere che insieme alle feci avrei buttato fuori anche gli organi interni. La realtà ha ricominciato a schiodarsi da sé stessa. Allora ho pensato a mia madre che rientrando dal lavoro avrebbe trovato il fegato e i polmoni nella tazza, con l’involucro di suo figlio a terra. Ho ripreso il telefonino e ho cercato: perdita degli organi durante la defecazione. Sulla pagina di Google è apparso il solito messaggio: possiamo aiutarti, e un numero verde. Per distrarmi da questo nuovo assillo ne ho cercato un altro, mi sono posto alla destra dello specchio e sono stato attirato dal pomo d’Adamo. Mi sembrava cresciuto.

Vedersi impazzire è sentire le ginocchia che tremano a furia di pensarci sopra, e io le ho sentite. Vedersi impazzire è sentirsi straniero alla grande realtà eppure da questa agganciato, è sentire la paura che dimora nel midollo delle ossa, è sentirsi perseguitati da un’entità che cerca a tutti i costi di dirci qualcosa. Vedersi impazzire è sovrapporsi ad altri corpi, ad altre personalità, è inventarsi ogni giorno un nuovo sentiero per dare un senso alle cose, è ripercorrere continuamente lo scritto e il cancellato della memoria. 

Vedersi impazzire è fare a botte con la luce, orientarla nei punti giusti del corpo, evitare che si sbrindelli tra le ombre.

Fare palestra per non impazzire -

Il sole diretto non va bene quando mia madre deve visitarmi. Di solito torna all’una e mezza. A quest’ora del giorno il sole si sfoga nei vuoti, nelle nicchie, o fascia gli occhi. Se abbassassi le tapparelle, l’emisfero del lampadario acceso non basterebbe: in base all’angolatura del mio braccio la luce confonde le prospettive e riconfigura lo spazio tra le ombre. Se invece rialzassi le tapparelle, il pomo d’Adamo sparirebbe per eccesso di cangianza.

In pieno inverno è più facile trovare la frequenza giusta della luce per farmi visitare da mia madre. Così mi bastano la torcia del telefonino e schermare la finestra con la tenda. 

Lei mi guarda, mi tasta, mi rassicura. Oggi, già che c’ero, ho preteso che oltre al pomo d’Adamo mi osservasse un punto della gola, molto in fondo, mentre il cane guardava la scena con espressione impartecipe. Lei invece mi guardava dentro la bocca con sacrosanta concentrazione, dentro la bocca di questo figlio matto per essere matto, che come dicono tutti avrebbe bisogno di uno bravo, e ripeteva “non c’è niente, non vedo niente” con una faccia da gomma per cancellare. 

Quando si dice che non tutti hanno il coraggio di guardarsi dentro è vero solo in parte: io ho cercato una sostituta che lo facesse per me. Io ho preso la cosa alla lettera. Me ne sto ogni giorno con gli occhi aperti dietro le palpebre chiuse mentre mia madre mi visita. La mia mente nel frattempo è impaniata nell’attesa. Il terrore è sovradimensionato. A volte vorrei che mi guardasse anche dentro. Mi sdraio sul letto e resto da solo nella stanza. Tra i rumori illocalizzabili del mio corpo comincio a sentire le pulegge di un ascensore. Devono essere pulegge a meno che non mi fischino le ossa. Con un dondolio di cigoli i paranchi delle mie corde vocali fanno scendere un piccolo ascensore lungo il tubo dell’esofago. Le porte dell’ascensore si aprono sulla bocca dello stomaco per dissolversi nell’odore caramelloso dei succhi gastrici, sul cardias allentato dagli psicofarmaci, sulle sfasature del mio ritmo sistolico che produce suoni di ventosa, e mia madre si affaccia vestita con una cuffia da infermiera e il camice verde, tra le mucose che gli si serrano attorno come montagne di carne e le sartie delle ossa, pronta a uno scrupoloso esame diagnostico dell’interno di suo figlio. 

“Tu hai bisogno di uno bravo”.

“Qui ci vuole la neuro”.

“Quello si deve curare!”

Ormai non li sento più che attraverso una foschia di suoni. 

Credo sia una conseguenza della terapia, ma ogni offesa la vivo come se qualcuno mi avesse pugnalato con l’ombra di un coltello.

O forse non è vero, visto che ne sto scrivendo.

Mi segue uno degli psichiatri più famosi di Italia, al San Raffaele, eppure ogni giorno devo sentirmi dire che ho bisogno di uno bravo. Magari dalle stesse persone che non mi direbbero mai “frocio” o “handicappato”. 

Comunque ho imparato a non farci caso. Ci sono situazioni, però, dove una parola può essere in grado di vulnerarmi più di un cazzotto. Se le medicine non hanno fatto effetto, una parola anche solo immaginata può provocare automatismi di pensiero che da un dettaglio irrilevante mi spingono verso una ridda di congetture – figuriamoci cosa può combinare una parola reale. 

“Me ne sto ogni giorno con gli occhi aperti dietro le palpebre chiuse mentre mia madre mi visita. La mia mente nel frattempo è impaniata nell’attesa”.

Le parole, per i matti, sono feconde. Io ne conosco tantissime di parole, perché sono l’unico strumento che mi consente una ricostruzione degli eventi fededegna della realtà. 

Sono sempre in cerca di parole assolute, che estraggano luminosità dal grigiore, che mettano un po’ d’ordine nello zibaldone che ho in testa.

Non è un caso se la poesia è diventata l’unico richiamo all’inadeguatezza della mia esistenza: ne leggo una durante le pause tra le serie. Sport e poesia mi fanno resistere davanti alla perdita progressiva di senso. 

Se nel mio cervello tutto sconfina, dentro una poesia l’immensità è limitata.

L’arte di insultare i maschi

L’altro giorno, nello spogliatoio, c’era un insetto che trascinava una lente a contatto sulla mensola dello specchio. Non capivo che insetto fosse, sembrava una formica gigante con le ali, né cosa potesse farci con una lente secca, caduta da chissà quale occhio (forse il mio). La cosa più curiosa era il suo corpicino filettato di muscoli che, mentre si spostava sulla mensola, raddoppiava la propria immagine nella lente. 

Ogni tanto l’insetto si fermava, pur restando in assetto di marcia, finché si è diretto verso il bordo dello specchio e, a contatto con la superficie lucida, ha fatto un passetto indietro. Ma io l’ho placcato con l’indice riportandolo nel punto di prima. 

L’insetto ha incominciato a scalare l’Everest dello specchio con la sua lente addosso, allo stremo dei nervi, e io lo fissavo con gli occhi a raggi X mentre due energumeni sui cinquant’anni, eminentemente di estrema destra, si erano messi a fissare me. 

Io ero lì a osservare il prodigio dell’insetto e della lente, e questi due cominciano un rito conversazionale sulle regionali in Abruzzo e sulla vittoria di Marsilio. Nel frattempo mi guardano con la faccia rossa da un solo lato. 

Io già mi sentivo in colpa per non essere andato a votare, poi ero troppo interessato all’insetto per starli a sentire. Ero così concentrato sull’insetto da non essermi accorto del mio corpo nudo poco più indietro, con le spalle enormi, la riga mediana dei pettorali. Mi sono girato di lato per vedere i glutei, il profilo del pene, la cotenna dei testicoli, e qualcosa mi si è cagliato nella gola. Ma non perché avessi visto qualcosa di anomalo. C’erano, tra le cose attorno a me, correlazioni di significato che per un po’ mi hanno distratto dai discorsi dei due melonizzati, ma poi è successo. Quella porca bocca ha parlato.

“Comunque qua dentro uno normale non ci sta!” ha detto uno dei due.

Ho calcolato la probabilità che avessi sentito male, poi mi sono diretto verso di loro passando davanti alla finestra per farmi crescere l’ombra sotto la direzione della luce. Lo sguardo si impone soprattutto se è seguito dal silenzio. Ho incordato la schiena, il trapezio, i dorsali, e per un tempo dieci volte superiore a quello che ci avevo messo a osservare l’insetto, li ho riempiti di insulti ineguagliabili sul loro aspetto fisico. Li ho mortificati con la stessa intensità con cui un santo mortificherebbe se stesso. Poi, pacatamente, ho imbastito un discorso in cui prima ho riassunto la terapia che faccio, poi ho detto che sto diventando impotente, poi ho insultato il governatore uscente, e alla fine ho spiegato che i miei commenti sulla loro massa muscolare, benché sgradevoli, erano roba da niente rispetto a chi dice a un matto che non è normale, o che si deve curare.

Conosco tutto il repertorio di reazioni possibili a quando divento offensivo, so individuare il momento preciso in cui il silenzio diventa uno sprizzo di brace. 

Ma la risposta che ho ricevuto si è sfaldata nei vapori provenienti dagli scanni delle docce. 

“Però, scusa se mi permetto” ha detto uno dei due, tutto tranquillo “… a me sembra che ragioni bene”.

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La maggior parte delle persone non sa distinguere tra la disabilità psichica e quella intellettiva. Io scrivo libri, scrivo sui giornali, sono altrettanto maniacale nell’onorare gli impegni lavorativi, nel seguire la scena letteraria, nell’adorazione dei miei amici. Io sono generoso perché è l’unica cosa a cui posso servire, far sì che qualcuno continui la mia storia al posto mio. Eppure non riesco a essere altrettanto disciplinato nell’essere “io”, e ogni episodio in cui la malattia si rivela viene visto dagli altri come un sopruso, come se pretendessero, data la mia presunta intelligenza, uno sforzo in più per non essere matto.

Non sanno che il più delle volte è per un eccesso di logica che vado in tilt: in questi casi provare a convincermi di una cosa anche semplice può diventare un’impresa. Vedo il lampione davanti casa sotto la pioggia, ad esempio, e mi aggroviglio le mani pensando che non può essere lo stesso che vedevo ieri sotto il sole. Se mi concentro sull’insieme mi viene addosso il paesaggio, ma anche prese una per una le immagini diventano bistabili. Osservo la mia camicia appesa nell’armadietto senza il mio corpo dentro. Libera dalla mia carne, non so se più vera o più falsa della mia carne. Mi chiedo se è lei a essere nuda o se lo sono io senza di lei. Più la giornata va avanti, più per fortuna la situazione migliora: dopo l’allenamento comincio a sentirmi più lucido, di un peso più vivo. I pensieri ci sono sempre, ma non diventano voce. L’apporto dell’oscurità provoca in me delle aggiunte e delle sottrazioni di memoria in grado di riscrivere la giornata appena trascorsa.

Ma riscendo ogni mattina per la china da cui sono salito la sera prima. Mi sveglio con il cervello paralizzato come un arto per la posizione in cui ha dormito. E sono incapace di darmi ragione del fatto che in fondo non spetta più a me essere gentile con gli altri, o adeguarmi a un sistema di norme, visto che sono sempre meno padrone di me stesso. Ormai non è più mia la colpa. Piove, ma non ci credo. Se sono permanentemente arrabbiato è perché sento su di me tutta l’ipocrisia umanitaria che mi circonda. Se scrivere mi fa paura è perché la scrittura rischia di legittimare i disastri che combino.

Munito di una vivandiera di pasticche, sono io che mi dirigo in quel camposanto giù in fondo. E anche questo è un problema. Pensando a me nella bara, un po’ mi viene un gran desiderio di cenere e un po’ me la rido, se penso che prima delle fiamme dev’esserci comunque il cerimoniale della vestizione. Io non voglio che mi si guardi il corpo dopo morto. Il corpo nudo con gli addominali rilassati e i bicipiti lessi, e con addosso le mani di qualcuno che possa pensare: con tutta quella palestra, ero convinto fosse più tonico. Era già in cut questo ragazzo quando è morto o era ancora in massa? Oppure potrebbero… ma no, lascio stare, è impossibile che chi mi vestirà dica ottimo pumping, il petto è da gara. E un corpo, penso, un corpo non solo può morire parecchio prima che se ne vedano i segni, ma anche mentre migliora. 

Questi miei pensieri onniavvolgenti, che sede avranno dopo la fine del mio corpo? Chi cercavano? Di chi erano? Forse l’inganno sarà stato credere di avere avuto un cervello malmesso da cui le immagini scaturivano distorte, quando invece sono stati i miei pensieri a inventarsi il mio corpo, il mio cervello, e un giorno vorticheranno su una bara vuota in un’ellisse putrescente. 

Mi dicono i medici: dovrai convivere con la terapia per sempre. E con gli effetti collaterali, le code a sonagli delle serpi. Per sopportarli bisogna organizzare la giornata intorno a loro. La sonnolenza è continua, la bocca è sempre secca e calcinata. La ritenzione idrica, la nausea, i conati a vuoto, i rimorsi di coscienza, l’intensità suggestionata con cui mi imbambolo, i problemi di minzione, diarrea e stitichezza alternati, i controlli ciclici al cuore, i discorsi blateroni, l’impossibilità di bere alcolici, la rinuncia al mio lavoro e le disfunzioni sessuali in una vita che è diventata essenzialmente un lungo viaggio in cerca dell’accendino. 

Sessualità e marijuana

I farmaci mi hanno devastato la sessualità. Mentalmente sono ipersollecitato dai corpi nudi che vedo ogni giorno in palestra, ma è una strana forma di libido la mia, perché alla mancanza fisica di piacere corrispondono fantasie voluttuarie di rara perversione. Se non sono fatto di marijuana, guardo i film porno con la stessa sgomenta attenzione con cui leggerei Gadda; dopo aver fumato, invece, è come se i miei occhi entrassero in se stessi mostrandomi tutto contaminato di irrealtà. Ma il vero motivo per cui devo fumare – i medici non sono d’accordo, ma riconoscono che l’alcol sarebbe peggio – è perché altrimenti non avrei un’erezione. Oppure avrei un’erezione anestetizzata. 

Qualcosa sul fondo è rimasto: certi formicolii sul glande, un avanzo di vibrazioni vascolari, un’ansietta del ventre; oppure ricordi improvvisi, qualche cosa di largo, ingestibile come una gara di triathlon, qualcosa che a livello vestigiale non riesco più a riconoscere. Sono stracci di vitalità quelli che restano della mia vita sessuale, rottami di bocche, di capezzoli, di fiati e modulazioni gutturali che si affacciano e spariscono nella mia mente senza progressione lineare. Sono voci che mi hanno lasciato in eredità la loro struttura semantica e basta. Io guardo i film porno e ricordo la mia vita sessuale senza nessuna libido, con la spia della benzina che lampeggia sul cruscotto. Sono arrivato a provare invidia per i miei genitori che alla mia età facevano sesso, si chiudevano in camera ogni venerdì sera, si accoppiavano sul pavimento del bagno mentre io e mio fratello li spiavamo di nascosto. E ricordo tutti quei rumori di sgorgo, il plaft-plaft delle carni, il silenzio di decompressione che seguiva gli ultimi gemiti… 

“Il cervello mi chiede qualcosa da masticare, e io lo sazio affaticando il corpo, provo a non dargli il tempo di concentrarsi sui suoi pensieri di aberrazione”.

Stanotte mi sono chiuso a chiave in camera da letto, ad esempio, e ho spento le luci affinché nella stanza restasse solo un puro interno, senza trama, senza colore. Una canna di marjuana mi infiorava le labbra, mentre controllavo che sul comodino accanto al letto non mancasse il libro di poesie di Zanzotto. Mi sono sdraiato sul letto con il portatile a fianco, sono andato su PornHub. 

Gran parte del tempo lo passo sempre a cercare il video giusto. Non guardo mai le scene in cui gli attori arrivano all’orgasmo. A volte il cervello mi manda immagini supplementari che si innestano su quelle che ho sotto gli occhi: un dito in uno sfintere diventa un braccio infilato nella proboscide di un elefante. Se vedo lo sperma, il colore bianco mi fa venire in mente il mio dentista che spinge una carriola piena di sperma dove ha messo a sbiancare i miei denti. Ogni orifizio mi sembra un’enorme, umida narice di cavallo. Più che masturbarmi, ho l’impressione di sdigiunare con un’insalata di LSD. 

Ho fatto due tiri d’erba e ho impugnato il pene flaccido, la zona vedovile del mio corpo. Solo così, fumando, riesco a farmelo drizzare un po’. Allora muovo il pugno su e giù. Poi mi avvalgo di un circense movimento del braccio sinistro per prendere il libro di Zanzotto dal comodino, nell’istante esatto in cui i fiotti di sperma si perdono tra le lenzuola cincischiate. Eiaculo senza provare nessun orgasmo, nessun piacere. Aspetto un secondo, due secondi, tre secondi… Nell’attesa apro il libro di Zanzotto e leggo un paio di versi mentre continuo a toccarmi con l’altra mano. Dieci secondi, quindici secondi… Incidentalmente passa mia madre fuori dalla porta e mi chiede cosa voglio domani a pranzo. Le urlerei che non esistono cibi compatibili con la mia fame, ma rispondo: riso bianco e pollo. Finisco la poesia e riappoggio il libro sul comodino. Trenta secondi, quaranta, un minuto… Altre immagini: un pavone con occhi umani sul ventaglio, vermi che hanno attaccato solo il clitoride di un cadavere, un leopardo scappato da un circo che si aggira sul colle di Recanati. Penso al pezzetto di carne tra il chiodo e il legno della croce di Gesù. Immagino Gesù che mi chiede di guardargli la lingua: dimmi se è bianca, sei mio fratello, devi dirmelo. Posso accogliere tutte queste immagini con una flemma indugiante. E finalmente il piacere sopraggiunge, con una latenza di quasi cinque minuti sul tempo dell’eiaculazione. Godo subito dopo i versi di Zanzotto. Nel buio bugliolo nel disincanto il mio corpo comincia ad assaporare un orgasmo lunghissimo, che riparte ogni volta che sembra scemare e che non mi seda affatto perché è dislocato dal suo risultato. 

Vado verso il bagno, nel lindo e nell’odore di candeggina. Quando mi lavo i denti fingo di essere l’omino delle pulizie della Merkel e che i miei denti siano le mattonelle di casa sua. “Pravissimo, molto pene, pravo! Adesso pulisci anche il pidè, pravissimo!”.

Secondo il medico il mio cervello si fissa su certe cose del mio corpo per tenersi impegnato, così da evitare l’impazzimento totale: è come se si intestardisse su un cubo di Rubik. 

“Questo attrito continuo fra corpo e psiche le impedisce di diventare l’Ofelia di Amleto,” mi ha detto una volta. “Per adesso si accontenti di essere Amleto”. 

In un certo senso lo spettro autistico mette in moto meccanismi ignoti alla disabilità psichica e per essa incomprensibili, e il risultato è una lucidità parziale.

Com’è possibile non scarseggiare in ragione quando si ha una malattia che colpisce la ragione? 

Questo buio ha delle latitudini, insomma, dove le mani e i piedi vanno a mosca cieca, ma vanno. Non si arrendono. Se si potesse imbottigliare questo buio, mi viene da pensare, se si potesse portare la bottiglia sotto il sole, la luce, anziché smorzarlo, lo esalterebbe. 

C’è da sperare nell’intelligenza artificiale e nell’uploading della mia mente, un giorno, quando potrò riversare su un hard disk tutti i libri letti e tutte le persone incontrate e passarli in un nuovo corpo dal cervello sano. Quello che ho non può nemmeno essere estratto e lavato. Non posso portarlo a fare il ranno giù al fiume come le lavandaie di un tempo.

Se potessi ci andrei subito. Me lo scardinerei dalle ossa del cranio per insaponarlo di marsiglia, risciacquarlo e veder disperdere nell’acqua chiara tutto il nero del suo essudato. Lo sfruculierei fra gli interstizi con uno spazzolino da denti nuovo. Ne raccoglierei tutta la bava fino a ritrovarmi la linea mediana dei due emisferi sotto i polpastrelli. E forse sentirei un’increspatura, un nodulino, il pezzetto di raccordo che non riesci a trovare sul rocchetto dello scotch, e tirandolo farei saltare la valvola di sicurezza di questa selva oscura. Poi me lo rimetterei sul cranio come un graspo d’uva appena lavata, tornerei a casa da mia madre e le direi mamma, andiamo al fiume, ti faccio vedere una cosa. 

“Sono stracci di vitalità quelli che restano della mia vita sessuale, rottami di bocche, di capezzoli, di fiati e modulazioni gutturali che si affacciano e spariscono nella mia mente senza progressione lineare”.

Il fiume tornerebbe girata una curva, io tirerei fuori tutti i blister dei farmaci e mi arrampicherei su una balza per gettarli nell’acqua, un po’ alla volta, suddivisi per principio attivo. Comincerei con l’inibitore del reuptake di noradrenalina, che mi dà la forza di alzarmi dal letto e forse di allenarmi così tanto. Alle prime rigature nell’acqua se ne aggiungerebbero altre, finché le pasticche si scioglierebbero in uno sbaffo opaco sulla trasparenza del fondale. L’acqua allora comincerebbe a fare giravolte, a gonfiare i muscoli, a scoordinare il proprio flusso in maniera delirata, poi la sua trasparenza marcirebbe in un colore ferrigno fino a condensarsi attorno ai rimasugli di pasticche in un cappello di schiuma, una ricotta a velocissima fermentazione. Sentirei i conati dell’acqua e l’imbizzarrirsi improvviso delle trote, lo squarciarsi degli insetti attorno e delle loro antenne vibratili, l’esplosione dei loro occhietti ortogonali.

Subito dopo rovescerei tutto il flacone della paroxetina, farmaco maledetto al punto che l’acqua creerebbe dei vuoti d’aria intorno alle pasticche, e si formerebbero bollicine dalle accese colorazioni in superficie, gabbie liquide che le zanzare deflorerebbero fino a ubriacarsi di euforia, di attacchi di panico, di rabbia, di psicosi, e a me si sbriglierebbe la testa nella dolce pace dei sani di mente che non hanno bisogno di uno bravo. 

Il fiume, intanto, sarà diventato un letto sfatto e pestilente, avrà incominciato a puzzare di pitale sporco, di sudore, di putrefazione, un gran fiumone d’onde pandemoniche. Uno scatafascio di suoni sbavanti, di rumori bolliti. Alla fine placherei le acque con l’antiepilettico Depakin e l’antipsicotico Abilify, e in pochi secondi le vedrei spianarsi e tornare dolci come sempre. Finalmente sarei tutto in mio potere, e la luce sarebbe generosa con il corpo di mia madre che si allontana, perché io non avrei più bisogno di lei.

Alcide Pierantozzi

Alcide Pierantozzi è scrittore e giornalista. Il suo ultimo libro è L’inconveniente di essere amati (Bompiani, 2020).

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