Gianluigi Ricuperati
30 Aprile 2024
Molto amata da Martin Scorsese, intervistata dalla «Paris Review», la scrittrice Lucy Sante aveva già firmato un memoir, con il nome di “Luc”. La sua vita e la sua opera meritano di essere raccontate.
La tesi. New York, 1998. Lo scrittore belga-americano Luc Sante, mio amico magistrale, prosa perfetta, vicino a tanti artisti e musicisti, voce del Lower East Side brutale e poetico della fine dei Settanta, ma anche autorevole saggista sulle pagine della
«New York Review Of Books», pubblica uno strano memoir sulla sua origine proletaria europea di immigrato insieme alla famiglia – lo intitola The Factory of Facts, titolo adatto e inevitabile, La fabbrica dei fatti. Cos’è la narrativa, inventata o no, se non una interminabile lotta sindacale della voce letteraria nella fabbrica dei fatti?
L’antitesi è che a New York, 2023, la scrittrice belga-americana Lucy Sante, mia amica magistrale – che ne frattempo ha scritto numerosi altri titoli, collaborato col Bard College, insegnato fotografia ai romanzieri e la poesia ai curatori d’arte, ispirato Scorsese per Gangs of New York, ottenuto l’ingresso al ristretto club di chi viene Intervistato sulla «Paris Review» – pubblica un altro memoir, dal titolo giusto e invidiabile, I Heard Her Call My Name, L’ho sentita chiamare il mio nome, dedicato alla sua recente transizione di genere, un evento che di rado accade nel sesto decennio di vita, e che gestisce con emozione, senso di felicità appena raggiunta, qualche ovvia difficoltà, e un inaspettato flusso di attenzione da parte dei media dell’editoria e della comunità artistica. Il mondo è cambiato, per una volta in meglio.
La sintesi. Luc Sante, ora Lucy, è probabilmente un caso pressoché unico di persona letteraria ad aver scritto un’autobiografia sia da uomo che da donna.
E questo, semplicemente, eccita la mia immaginazione più di qualsiasi questione sociale o politica legata ai discorsi sul genere, un tema che rispetto così tanto da non volerlo affrontare, non avendo nulla da aggiungere o modificare o criticare o narrare.
Vorrei girare intorno a questo motivo, al puro e lancinante fatto che una tale compresenza si sia verificata nell’arco di una sola esistenza; vorrei intrecciare alcune riflessioni con alcune citazioni di entrambi i libri, non ancora tradotti in italiano; vorrei raccontare con lo sguardo del testimone come la scrittura di Sante e la sua persona fisica, nelle due valve in cui si è presentata nella Storia, risuoni di una meravigliosa coerenza rispetto alla Vita, simile a una camera d’eco – tracciando alcune scene biografiche dell’Io che scrisse due volte – la mia amica, il mio fratello, il mio essere maschio che sta nella sua pelle con ipocrisia a tratti e felicità a momenti.
“Vorrei girare intorno a questo motivo, al puro e lancinante fatto che una tale compresenza si sia verificata nell’arco di una sola esistenza; vorrei intrecciare alcune riflessioni con alcune citazioni di entrambi i libri”.
*
Nell’estate del 2021, in piena notte, dopo aver acceso il telefono a causa di qualche risveglio improvviso di uno dei bambini, mi ha raggiunto una mail dall’indirizzo che la rubrica elettronica riconosceva come Luc Sante, il mio amico dalla prosa perfetta e dal carattere dolce. S’intitolava Rivelazione, non nel senso di illuminazione superiore ma di un atto espressivo che svela qualcosa di fin lì nascosto (in realtà avrei scoperto dopo che conteneva entrambe le sfumature).
‘’Non c’è un modo semplice per iniziare questa lettera, quindi esporrò apertamente i fatti: Sono in fase di transizione da maschio a femmina.
Molto probabilmente non te lo aspettavi ma… a metà febbraio sono stata costretta, da un moto interiore (agency, in inglese, ndt) che non saprei identificare, a fare i conti con il fatto che sono transgender. In realtà sono transgender da tutta la vita, o quasi (i ricordi risalgono alle nebbie dell’infanzia), ma l’ho represso e negato per oltre mezzo secolo, perché per la maggior parte del tempo era impossibile esserlo, a meno che non se ne volesse fare una carriera. Il clima sociale di oggi ha reso possibile il mio coming out. Quando ho capito la coerenza e la forza di quella sensazione cui non riuscivo a dare un nome, il mio coming out è diventato necessario, nonostante la mia età già avanzata.
Ho fatto coming out con la famiglia e gli amici a ondate successive nel corso dei mesi. Da inizio maggio, sto seguendo una terapia ormonale sostitutiva.
Per la cronaca, mi chiamo Lucy e i pronomi sono she/her, anche se alla mia età non mi offendo se vengo chiamata in modo errato, per non parlare del fatto che il mio nome morto non morirà mai, o almeno non prima di me.
Love,
Lucy”.
Ricordo di non aver risposto subito. Ricordo di averci pensato un po’. Ricordo di aver ripreso in mano il Paradiso di Dante, che stavo provando a rileggere in quei caldi giorni siciliani. Ricordo di aver sentito il cuore in lieve subbuglio, anche per la responsabilità di aver ricevuto una confidenza così bruciante. Ricordo di aver mandato una risposta piena di felicitazioni il mattino dopo, e di aver aggiunto una battuta sulla rima più che perfetta tra Sante e Dante – “un buon segno per il tuo nuovo self!”
Ma poi ho aggiunto qualche riga, un po’ più convulsa:
“Ciao Lucy, Ho ripensato a te, a quello che mi hai scritto, a Jamie – nel bel mezzo della mia vacanza in famiglia in Sicilia, con i bambini e Lidiya, e tutti gli alti e bassi degli enigmi del maschio/papà/marito (anche se non tecnicamente sposato)’’.
Jamie era (è) Jamie Nares, una bravissima e poliedrica artista newyorkese che avevamo coinvolto insieme a Valentino e Pierpaolo Piccioli in un progetto su pittura e alta moda, e alla quale proprio Lucy – quando era ancora Luc, almeno da fuori – mi aveva presentato.
Anche Jamie è stata per gran parte della propria vita James Nares, e su YouTube c’è un bellissimo video degli anni Novanta in cui questo americano alto e dalle spalle enormi fa un cerchio giottesco. Come Jamie, anche Lucy ha compiuto la sua scelta di transizione in un periodo della vita inusuale. Come Jamie, Lucy mi sembrava pervasa da un senso di gioia per lo stare al mondo altrettanto inusuale, specie nei maschi eterosessuali bianchi incastonati nell’età di mezzo, e dotati della consapevolezza necessaria per mettere in dubbio i propri modi di fare, i modi di fare che li hanno abitati, che ci hanno abitato, che ancora ci abitano in certi istanti. Il tema è la felicità di essere al mondo, o meglio la screziata felicità di essere se stessi, una gioia in trasformazione, una gioia privata che danza sul trapezio invisibile che ci separa da corpi più felici (i giovani) e dalla tristezza del decadimento (i più vecchi, i più poveri), o dal grottesco ingiusto differimento della morte (i più vecchi, ma ricchi); certo, esiste una bellezza e dignità e coincidenza anche nella terza età, e richiede sforzi e fortuna ed esercizio interiore.
*
Kingston, New York State, ottobre 2023. Incontro Lucy a casa sua, immersa nelle verdi valli favorite dal passaggio del fiume Hudson. Le domando, pensando alla transfobia diffusa: ma qualcuno ti da fastidio per strada?
“Queste cittadine sono molto progressiste, non è mai successo, e quando vado a Manhattan, vedi, divento invisibile, perché gli anziani in America sono invisibili”.
Penso che gli anziani non sono invisibili solo in America: penso a quanto sia dolce, rivoluzionario – in senso tecnico – fare la transizione a 67 anni, soffiare via la nebbia da te stessa proprio quando gli altri cominciano a smettere di vederti.
Potrebbe sembrare una constatazione malinconica. Ma è il contrario. Lucy è più vitale di molti occhi apparentemente invidiabili, pure nel suo corredo di colori non accesi, gonna-camicetta-borsetta-parrucca, che non la renderebbero distinguibile da qualsiasi signora intellettuale sua età, nel 2024.
Torno indietro a una delle tante occasioni che abbiamo condiviso dal momento del nostro primo incontro, nel 2006.
Eravamo a Napoli, nell’aprile 2019: il mondo di Lucy, che allora si chiamava ancora Luc, sembrava molto più malinconico: eravamo lì perché avevo chiesto a Sante di contribuire al catalogo della formidabile artista italiana Elisa Sighicelli, e mentre aspettavamo un aperitivo insieme a Marco Belpoliti e Geoff Dyer, gli altri autori che avevamo invitato, in una piazza magnifica di cui non ricordo più il nome, lo sguardo di Luc pareva assonnato – anche se non di un sonno fisico, ma della strana congiura imprendibile cui il mondo assomiglia quando non coincidi più con te stesso.
Sono passati 4 anni, il tempo prende il sopravvento sulla ragione, Luc è diventato Lucy. I suoi splendidi libri, tutti diversi uno dall’altro, sono templi instabili su cui riflette il sole di una curiosità senza fine. Si va da Nineteen Reservoirs, sulle riserve idriche che hanno reso New York la città che è, a Low Life, da cui Martin Scorsese ha tratto Gangs of New York, ai numerosissimi saggi su Basquiat, sui Television e Richard Hell, sulle cartoline postali del west, e in generale su tutto ciò che potesse catturare lo sguardo prensile di una prosa che sembrava orientata su qualsiasi argomento tranne l’argomento del sé. Certo, in The Factory of Facts Luc aveva raccontato la propria infanzia proletaria nel Belgio degli anni cinquanta e l’emigrazione nell’America che sconfinava nei primi Sessanta, ma si trattava dell’unico tra i suoi libri che non avevo letto.
Adesso però era diventata improvvisamente una lettura necessaria: la fabbrica dei fatti – la vita di Luc, la vita di tutti – nascondeva una lei che chiamava dalle viscere, sonica e misteriosa come il pezzo dei Velvet Underground da cui proviene il titolo.
La transizione non era solo nel corpo di Lucy, nel corredo degli ormoni o nel corredo vestimentario: la transizione era anche un fatto narrativo, letterario, concettuale, con un’idea vibrante che allignava sotto sotto: è possibile raccontarsi due volte, prima da “maschio” e poi da “femmina”? E cosa cambia ? Come canta il nuovo corpo elettrico? Con che forme improvvisa il suo ballo sociale la coscienza di Luc che diventa Lucy alla soglia dei settant’anni? Cosa ci insegna, come ci commuove, perché ci interessa? Perché mi interessa tutto tranne che l’aspetto politico di questa specifica transizione che ho visto accadere quasi davanti ai miei occhi?
A dirla tutta, è falso che non mi interessi il “corpo politico” di Lucy, che prima era Luc. Mi interessa, ma non mi fa venir voglia di scriverne. Mentre le coincidenze che diventano letteratura, il corpo singolare di una prima persona singolare che scrive, e che per di più conosco e amo di amicizia e stima, un corpo che esce dall’ombra e si trasforma come unicum individuale, e diventa scrivente, e torna sui passi della mente che era stata quando era imprigionata nel l’identità che rifiutava, ecco – tutto questo produce avventura mentale e sentimentale, così come un gesso distribuisce differenza sullo sfondo nero e uniforme di prima.
Ora, però, bisogna fare un inciso e parlare di Lou Reed. Perché se c’è un suo brano che parla di Lucy senza parlare di Lucy, non è I Heard Her Call My Name, diamante disturbato nel secondo cupo disco dei Velvet Underground – ma un’altra gemma, nascosta nel terzo: Candy Says è infatti il melanconico inno dedicato alla più grande star trans che New York ha mai conosciuto: Candy Darling. Come ha scritto Hilton Als, Candy Says è qualcosa di diverso: un’ode sugli effetti limitanti e corrosivi del voler vivere in un corpo diverso dal proprio, e su ciò che questo può fare al cuore e all’immaginazione. Doug Yule, la voce alata che nel terzo disco affronta alcuni dei pezzi, canta quasi sottovoce:
Candy dice: “Sono arrivato a odiare il mio corpo
e tutto ciò che richiede in questo mondo”.
Candy dice: “Vorrei sapere completamente
Ciò di cui gli altri parlano con tanta discrezione
Guarderò gli uccelli azzurri volare
sopra la mia spalla
Li guarderò passare davanti a me
Forse quando sarò più grande
Cosa pensi che vedrei
Se potessi allontanarmi da me?”.
Forse Lucy, quando era Luc, cioè per la maggior parte del suo tempo terreno, era arrivata a odiare il proprio corpo? Per rispondere a questa domanda bisogna tornare al suo libro, e precisamente all’inizio. Ognuno di noi ha diverse cerchie di affetti, e per quanto possa considerare Lucy una vera amica non ero nella più intima di queste sfere. Poco dopo l’incipit del memoir, si legge così:
“La diga è scoppiata il 16 febbraio quando, per ridere, ho scaricato sul telefono Face App, […] L’opzione gender swap, un filtro per cambiare genere, mi attraeva, e l’ho subito provata: mi ha restituito il ritratto di una donna della Hudson Valley di mezza età forte, sana, senza stravizi. Aveva fluenti capelli color nocciola, e un trucco sottile. E il suo viso era il mio. Non c’è dubbio: naso, bocca, occhi, sopracciglia, mento, salvo un accenno di miglioramento qua e là. Lei era me. Quando l’ho vista ho sentito qualcosa liquefarsi nel cuore del mio corpo. Un tremore che scendeva dalle spalle all’inguine. Immaginavo di aver finalmente fatto i conti con me stesso. Ben presto ho inserito nel magico portale del gender swap ogni ritratto, istantanea e fototessera che possedevo. […] Inserivo nella maschera digitale foto che provenivano da ogni epoca della mia vita, provando uno shock di riconoscimento dopo l’altro: ecco chi avrei potuto essere. L’applicazione a volte restituiva immagini blande, distorte, o grottesche, ma il più delle volte sembrava stranamente indovinare quale sarebbe potuta essere la mia acconciatura e quali le mie scelte di stile di quegli anni. Quanto meno estreme o implausibili apparivano le immagini modificate, tanto più affondavano un pugnale nel mio cuore. Avrei potuto essere io! Cinquant’anni erano scomparsi nelle acque del tempo: non li avrei più recuperati. Nel ritratto alla fine del liceo avevo un profilo altezzoso, con i capelli che si arricciavano sulla fronte, quasi un cerbiatto con occhi a mandorla incredibilmente delicati (a 17 anni ero davvero all’apice della mia bellezza, e forse è per questo che il mio self maschile (che incubo!) si fece subito crescere la barba. Una dozzina d’anni dopo (purtroppo ci sono poche foto di me a vent’anni; sono sempre stata timida con la macchina fotografica), eccomi: una lesbica anarco-femminista radicale post-punk del Lower East Side, imbronciata e con un taglio alla olandese. Eccomi a una festa di «Sports Illustrated» in Arizona, a 33 anni, con un aspetto pudico in un maglione bianco su un vestito a pois rossi, mentre parlo con un ragazzo”.
La lettera che aveva scritto ai suoi amici più intimi, quelli di una vita, come si dice, era molto più approfondita rispetto a quella che mesi dopo avrebbe inviato agli amici “del mondo”. Una delle cose che mi aveva sempre affascinato della sua figura era la quantità e qualità degli amici che arricchivano la sua esistenza. Da Jim Jarmusch a Patti Smith, da Richard Prince al giovane Basquiat, e tanti altri nomi che potrebbero riempire una collana editoriale sul meglio della cultura contemporanea… Chissà se qualcuno, tra anime così sensibili, se n’era accorto? Chissà che meraviglioso epistolario potrebbe risultare dalle risposte alla sua iniziale lettera. Le domande per Lucy spuntano come fiori dopo giorni di pioggia. Ma naturalmente la scelta di non transigere più sulla propria identità, e transitare dall’altra parte, non poteva essere soltanto piacevole, lieve, solare.
Più avanti, nella stessa lettera, Luc aggiunge alcuni dettagli intorno alla sua esperienza personale sull’identità di genere.
Nonostante non fosse attratto dagli uomini – ne aveva certezza, avendo trascorso parecchio tempo in ambienti gay negli anni Settanta – si è sempre sentito incerto riguardo alla costruzione della propria identità maschile. Non si identificava con gli stereotipi maschili tradizionali legati allo sport, alle battute volgari, al consumo di alcol e al modo in cui gli uomini parlano delle donne, sviluppando una personalità maschile distante, cerebrale e forse asessuale, senza mai allontanare del tutto dall’orizzonte la possibilità di essere transgender.
“Un’altra ragione della mia repressione era la sensazione che se avessi cambiato il mio genere avrebbe cancellato ogni altra cosa che volevo fare nella mia vita. Volevo essere un autore significativo e non volevo essere incasellato in una categoria, qualsiasi categoria. All’inizio, la scrittura sembrava essere un’attività in cui si poteva affinare un personaggio con le parole, sfuggendo all’ispezione in carne e ossa, ma il marketing ha cambiato tutto brutalmente, a partire dagli anni Ottanta; non era più un luogo in cui nascondersi, e se fossi stato transgender questo fatto sarebbe stato l’unica cosa che tutti avrebbero associato a me”.
“Sono passati 4 anni, il tempo prende il sopravvento sulla ragione, Luc è diventato Lucy. I suoi splendidi libri, tutti diversi uno dall’altro, sono templi instabili su cui riflette il sole di una curiosità senza fine”.
E ancora, dopo l’emozione insopprimibile che sempre determina ogni nostra scelta di umani – Sante la definisce colonna di fuoco – cominciano i problemi con le possibili reazioni altrui.
“Ora che ho aperto il vaso di Pandora, non posso richiuderlo, ma non ho idea di cosa fare con gli spettri che ha liberato. L’idea della transizione è infinitamente seducente e insieme terribile. Ogni giorno scatto almeno un selfie e lo trasformo, e mi sembra che le immagini diventino sempre più plausibili. Sì, quello è chiaramente il mio viso, in ogni sua parte: i miei lineamenti sono ben disposti e anche i contorni del mio viso non sono eccessivamente grandi. Con un po’ di trucco, un ciclo di estrogeni e una bella parrucca potrei avere un aspetto identico a quello, forse. Il fatto di portare la parrucca mi farà sentire per sempre finta? […] E presto compirò 67 anni… e se finissi per sembrare una figura grottesca? O semplicemente patetica? […] Soprattutto mi preoccupa l’idea di dirlo alla mia compagna, con la quale negli ultimi 14 anni ho condiviso un rapporto fatto di crescente affetto, amore e supporto. Non dubito della sua comprensione, ma immagino anche che si chieda quale possa essere il suo ruolo qui, come a dire che sto vivendo una storia d’amore con me stesso. E si sentirebbe a suo agio se io indossassi abiti e accessori femminili mentre lei indossa soprattutto magliette e jeans?’’
*
Il memoir di Lucy è bellissimo, aperto, tutt’altro che assorbito dalle viscere dell’ego. Si tratta di un sismografo prezioso sulla nostra cultura, ma soprattutto di una scrittura letteraria eccellente, piena di citazioni nascoste e improvvisi squarci in francese, l’altra lingua materna dell’autrice.
The factory of facts, del 1998, che ora guardo come uno degli episodi più innovativi nel poi fiorente paesaggio del memoir d’artista, è un libro assai diverso nella struttura e nella piccola musica interna. Il primo capitolo consiste infatti in una iterazione con varianti della stessa breve matrice autobiografica, come un tema scolastico in cui si chiede di riassumere i momenti fondanti della propria esistenza:
“Sono nato il 25 maggio 1954 a Verviers, in Belgio, figlio unico di Lucien Mathieu Amélie Sante e di Denise Lambertine Alberte Marie Ghislaine Nandrin. In seguito al fallimento del datore di lavoro di mio padre, una fonderia di ferro che produceva macchinari per la lavorazione della lana, e su suggerimento di amici che erano emigrati in Belgio, i miei genitori decisero di trasferirsi negli Stati Uniti in cerca di lavoro.
Arrivammo all’aeroporto di Idlewild nel febbraio 1959 e ci trasferimmo da amici dei miei genitori a Summit, nel New Jersey. Le prospettive non erano così rosee come erano state prospettate e a novembre tornammo in Belgio, ma la situazione non era migliorata affatto, e all’inizio del 1960 siamo emigrati di nuovo”.
Qualche riga dopo si legge:
“Sono nato nel 1954 a Verviers, in Belgio, figlio unico di Lucien e Denise Sante. In seguito al fallimento del datore di lavoro di mio padre, una fonderia di ferro che produceva macchinari per la lavorazione della lana, e su suggerimento del fratello di mia madre, René Nandrin, i miei genitori decisero di trasferirsi nel Congo belga, dove mio padre avrebbe assunto l’incarico di direttore locale di una ditta di olio di palma. Nel febbraio 1959 arrivammo a Coquilhatville, sulle rive del fiume Congo, e ci trasferimmo in una villa di proprietà dell’azienda nel quartiere europeo. Improvvisamente abbiamo avuto a disposizione un servizio e un’auto con autista. In compenso, mi sono ammalato di una serie di disturbi aggravati dal clima e ho passato la maggior parte del tempo a letto. Appena un anno dopo, il governo belga annunciò che il Congo avrebbe ottenuto l’indipendenza nel giugno successivo.
Gli amici e i colleghi dei miei genitori, allarmati, cominciarono a dare segni di inquietudine, come ad esempio rimandare i loro beni più preziosi alle famiglie in Belgio.
Mio padre si barricò in casa con mia madre e me e non usciva mai senza un revolver carico. Cominciarono a verificarsi episodi di violenza, la maggior parte dei quali nel sud del Paese, ma alcuni abbastanza vicini da indurre mio padre, nonostante le proteste di mia madre, a rimandarci a casa. Ci seguì poco più di un mese dopo, quando i combattimenti erano ormai diffusi; il suo datore di lavoro aveva ceduto il controllo locale a uomini nativi africani. Le conoscenze fatte in Congo portarono mio padre a un lavoro presso il Ministero del Commercio e ci trasferimmo a Berchem-Sainte-Agathe, un sobborgo di Bruxelles, dove mi sono ripreso e in seguito ho scoperto di avere una sorprendente attitudine al ciclismo agonistico”.
Dopo, appare una versione nella quale il giovane Luc contrae la sifilide in Africa, negli anni Settanta. In seguito, una in cui dà fuoco al dormitorio di una scuola come reazione ad alcuni atti di bullismo. Andando avanti, la storia viene variata ancora. E piano piano si capisce che il progetto narrativo è scappare dalla prigione dei fatti realmente accaduti. In qualche misura, il primo memoir di Lucy, quando era ancora Luc, esplora le possibilità di una fuga dalla propria condizione. L’io narrante è un coreografo di scelte mai fatte, di occasioni e variazioni, di fantasie e irruzioni. Trent’anni dopo, nell’autunno degli anni, Lucy, che non è più Luc, esplora invece tutti i motivi per cui quelle cose non sono mai successe. Il perché della improvvida incapacità che la fabbrica della nostra vita dimostra talvolta – sempre – quando si tratta di sfornare fatti che ci rendano davvero felici.
Mentre scrivo queste righe penso a una frase che mi diceva il mio medico quando attorno ai trent’anni – molto più che ora – gli chiedevo ossessivamente aiuto per qualsiasi minuscolo sintomo emesso dal corpo, per una lieve ma persistente forma di ipocondria, in altre parole. Una volta rispose via sms “sii uomo cazzo!”
Negli ultimi anni, come padre di due maschi, di 7 e 4 anni attualmente, ho sbattuto con frequenza contro le conseguenze pratiche, quotidiane, di cosa diavolo possa significare essere uomo, cazzo. Non riesco mai davvero a definire cosa ci sia di buono nell’essere uomo, e persino la parte buona della forza (il lavorare duro, a testa bassa, il mero sacrificio muscolare di tirare avanti nel lavoro o nelle secche della vita, la consistenza di essere un motore, insomma) mi pare una caratteristica non specifica della mia identità maschile. Da quando Luc è diventata Lucy penso spesso che le sole anime davvero felici sono quelle che mettono in scena una trasformazione continua, che ballano sui passi mobili di una certa improvvisata insicurezza sui pilastri di cosa si è o cosa si dovrebbe essere.
D’altra parte è difficile idolatrare i dubbi e nel contempo provare a fornire esempi di solidità a due piccole creature che diventeranno un giorno maschi, e chissà come si sentiranno, e come agiranno, e come ameranno. Non ho mai provato il minimo desiderio di coincidere con un genere diverso da quello in cui mi sono trovato quando sono stato gettato nella vita. Mi piace quello che sono ma vorrei che fosse diverso, o meglio, che fosse più cangiante, libero, delicato, viscerale. Non voglio stringere i denti – vorrei vederli scintillare ogni tanto, e soprattutto immaginare un cosmo di relazioni in cui non ci siano denti, ma solo labbra. Leggo Lucy Sante e parlo con Lucy Sante con cadenza mensile, all’incirca, come in ogni amicizia intellettuale, e non credo che la transizione abbia cancellato ogni sofferenza – anzi, so che ne ha addirittura portato con sé di nuove. Tuttavia la fierezza lieve con cui si scende nel proprio genere sapendo che è quello giusto, che si è nel luogo mentale e sociale dove si vorrebbe essere, e che nessuno avrà il diritto di urlarti addosso “sii questo, cazzo!”, “sii qualcosa d’altro, cazzo!”, mi sembra un punto felice a favore di un paesaggio umano nel quale Trasformarsi sia finalmente considerato un diritto dell’anima. E se non esiste l’anima, un paio d’ali che spuntano dai fianchi della coscienza.
Penso dunque a Lucy, da Venezia, mentre lotto con fantasmi del tutto diversi, con il desiderio di trasformazione che nel mio caso è più una questione di anima – di coscienza, carattere – che di corpo e abiti. Ascolto ancora la dolce cantilena di Candy Says. Ricordo che Lucy descrive Luc come il proprio “nome morto, con una sola lettera di differenza”.
La lettera è y, che in inglese è un modo di dire “perché”. Forse noi che viviamo e scriviamo, e nuotiamo nei fiumi secchi o nelle inondazioni istantanee che separano i due atti, ci concentriamo troppo sul come, e non abbastanza sul perché.
Forse, aldilà del genere in cui ci sentiamo di crescere, la gioia irradia proprio quando iniziamo a cercare risposte autentiche al bivio anche grafico di quella domanda: Y? why? Perché vogliamo sapere tutto su ciò che nascondiamo a noi stessi, e agli altri? Perché sappiamo che nella risposta, se sincera, possiamo uscire dalla finestra e volare.
Gianluigi Ricuperati
Gianluigi Ricuperati è scrittore, saggista, curatore. Il suo ultimo libro, scritto in coppia con Hans Ulrich Obrist, è A che cosa serve l’arte? (Marsilio, 2023).
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