Giordano Meacci
L'elogio sentimentale di uno dei personaggi cinematografici più memorabili di sempre e insieme un "tributo scontroso" a George Lucas, il regista che l'ha ideato e a volte tradito.
Inoltre (per concludere) l’America è un Paese portato alla didattica, le cui genti son sempre disposte ad offrire le loro esperienze personali a mo’ di ausilio e di lezione al prossimo, sperando di rincuorarlo e di giovargli: una sorta di vasto sistema di pubbliche relazioni fra individuo e individuo. A volte, in ciò vedo dell’idealismo. Altre volte, mi sembra piuttosto un delirio collettivo. Se tutti sono paladini del bene, al male chi provvede?
Saul Bellow , Il dono di Humboldt
Il mio personale vale quanto quello degli altri, cioè altrettanto poco.
Boris Vian , Nota del 10 aprile 1953
0. Forse, una delle più belle scene d’amore del futuro passato
L’astronave – la stessa che abbiamo visto mentre un altro uomo, disperato, prova a dare un allarme che, all’inizio, verrà ignorato – grigia, metallica, lampante e aerea come le note rugginose dell’ultimo Paolo Conte: quando atterra, ha la stessa inclinazione lontana e fotografica dell’1I/’Oumuamua, ’messaggero che arriva da lontano’, o, in questo caso molto più pertinente, ‘messaggero da un lontano passato’; almeno: stando a quel che significano i vocabolari della lingua hawaiana quando battezzano un asteroide interstellare.
Il fianco orizzontale si spalanca, fumoso, quasi fosse l’arrivo di un treno da un’altra galassia lontana lontana, tanto tempo fa; e da lì ne escono soldati – ribelli, partigiani – che si lìmitano a sottolineare la loro uscita con la referenzialità tradotta di un andiamo, mentre l’uomo – lui – di schiena, le mani a cercare la cintura, o le tasche: la postura è incerta quanto l’arrivo delle mani, ora che lo vediamo cercare qualcuno tra gli altri che, all’improvviso, appare; e lo trova con gli occhi: e con il respiro mozzo e inaspettato degl’incontri d’amore dopo tanto tempo ― mesi; o anni: non importa; gli occhi sono sempre gli stessi; e così il sorriso di lei, smorzato dai chilometri, dai parsec, dalle imprevedibili sovrapposizioni di spazio e di tempo, quando anche gli anni scorrono da un punto all’altro della nostra vita con la velocità, luminosa (o peggio), dei tuffi del cuore di là dall’abisso, perimetrale, di un qualche buco nero lasciato alle spalle.
Lui, si vede, non riesce a sorridere; con gli occhi scava il pensiero di lei che lo vede, si trincera dietro quella siepe di inadeguatezza con cui s’è sempre sentito guardare dagli occhi premurosi di lei: innamorato e inadeguato. Già dal primo incontro; dalla prima schermaglia muta d’amore; quasi si sottoponesse costantemente a un giudizio che lei non gli ha mai chiesto di confermare.
Ma non fanno in tempo a parlarsi, ancora, perché immediatamente dopo il respiro stentato di lui – lei di spalle, in silenzio – s’affaccia dal passato l’uomo d’oro che li ha visti com’erano un tempo e che ora si sorprende, formalmente, della loro presenza qui (soprattutto perché qui quasi potrebb’essere dovunque).
E così ci vuole il sorriso accigliato e rigoroso di lei (mentre i movimenti scattosi dell’uomo d’oro confondono il lapsus del suo ‘principessa’ con i gradi del suo ‘generale’): per riportarlo all’ordine; per forzarlo, finalmente, a uscire dall’inquadratura.
Che, ora, riguarda solo loro due. E li contiene.
Metà della foto che adesso li vede – fermando il tempo, spezzando il cinema in due – è occupata dalla silhouette armata dell’astronave. Loro sono nell’altra metà del tempo che li aspetta: a una decina di passi di lei, la metà dei passi di lui, se solo lui volesse avvicinarsi: ma non lo fa, ancora non è riuscito nemmeno a levare le mani dalla cintura, dietro la schiena. La cornice di massi e di fuochi e di fumo che li delìmita, e gli concede spazio, è di poco illuminata dal cuore vaporoso dei roghi, dai pochi alberi stenti che si ritagliano il loro ruolo di bosco, e di fiaba, di là da loro. Le ombre che si allontanano, lunghissime, lanciate verso il passato di metallo o di pietra che l’inquadratura prevede.
“Hai cambiato acconciatura”, dice lui.
Lei accenna – solo accenna – un sì con la testa che, mentre finisce, porta con sé una constatazione.
“Stessa giacca”, dice lei.
“No”, ci tiene a precisare lui, sorpreso, lasciando che il braccio destro cerchi la stoffa del giubbotto.
“Giacca nuova”, le dice Han Solo.
1. Han Solo, nel tempo
1a. Come si arriva dal 1977 a Dieci anni fa
Dieci anni fa, in un cinema di Roma di cui non ricordo, adesso, la collocazione – comunque una qualche sala cinematografica che, nel 2015, mi dava ricetto e conforto, pomeridianamente, più o meno, dalle mie scalmàne tristi per amore ― ho visto per la prima volta questa scena: innamoràndomene per sempre.
Si tratta, evidentemente, del reincontro di Han Solo e della principessa Leia Organa dopo troppi anni: lei di nuovo, sempre, generale dell’esercito ribelle contro il Primo Ordine (come già contro l’Impero dozzinale e putiniano della Trilogia classica); lui di nuovo, sempre, alle prese con il contrabbando galattico, le sue mattane irresponsabili da trafficone, la convivenza più che quarantennale con Chewbacca (o Chewbecca, o Ciubecca che scriversi in traduzione si voglia; d’altronde anche Han è stato Ian in italiano per quasi quarant’anni; e Leia, Leila).
Si rincontrano alla fine stanca di una battaglia, tra i roghi dei disintegratori e le promesse di futuro già passate che li riguardano.
Mi ricordo che mi commosse, questa scena. Oltremodo. Con la stessa ottusa, solipsistica volontà di trovare un secondo ordine nel caos di Nino Manfredi in C’eravamo tanto amati, quando Stefania Sandrelli gli dice il nome di suo figlio, dopo anni che non si vedono; e lui, commosso, le rivela con la voce che gli trema “l’hai chiamato come lo zio de mi’ madre“.
Mi commosse ritrovare Han e Leia, invecchiati; sopravvissuti, sempre innamorati e però allontanati da quella stessa reiterazione dell’identico che mina la resistenza di molti matrimoni.
Mi commosse – uso il meraviglioso remoto di ogni sentimento senza nostalgia – quel rimando alla pettinatura di lei, cambiata. Lei Leia; lei Carrie Fisher, che era stata l’inventrice di un’acconciatura irripetibile: e irripetuta, di là dalla sua origine rivoluzionaria; sostituendo nell’immaginario pre- e postscolarizzato degli anni Settanta la cosmesi di riferimento principe delle illustrazioni del Gonin sulla Lucia, iniziale, dei Promessi sposi.
Talmente improbabile, quella pettinatura, da rendersi eterna; e sensuale: ma solo ed esclusivamente perché creata per l’ultima principessa ribelle delle fiabe.
Lui, si sa, non riesce a reggerne la presenza. Come sempre. E in quello sguardo a sé stesso di Harrison Solo c’è ancora, dopo tanti anni; dopo un amore eterno finito, dopo un figlio diventato grande e, da buon nipote di Darth Vader, molto probabilmente cattivo e ingestibile ― c’è ancora quello stesso senso di inadeguatezza e però di orgoglio che ha caratterizzato, dalla prima Nuova speranza al persempre del loro rincontro, il suo amore per lei. Quel Vossignoria con cui le si rivolge già dal 1977; per voce, indimenticata, di Stefano Satta Flores.
Mi sono commosso, in sostanza, permutando il ricordo remoto in una constatazione più vicina, con lo stesso struggimento da luci luminose con cui, di lì a un anno, avrei ritrovato la grazia incoercibile della principessa Leia nella vita, indimenticabile, della figlia di Debbie Reynolds e di Eddie Fisher. Quel Bright Lights di Alexis Bloom e Fisher Stevens che è, indubbiamente (almeno: per chi abbia a cuore il guazzabuglio incerto del cuore umano) uno dei più bei documentari di sempre.
E comunque.
Dentro quella sala cinematografica c’ero io, le mie reiterate, diffratte – perché, va detto, mai monodiche, almeno fino al 2017 – pene d’amor perduto; l’ultima principessa delle fiabe (“In Loving Memory of our Princess Carrie Fisher”, la meravigliosa dedica finale degli Ultimi Jedi); e, invecchiato ma sempre affettivamente spiazzante, il mio primo vero idolo cinematografico.
Han Solo (quando, appunto, ancora si chiamava Ian).
Non solo. Quando uscii da quell’accogliente, non localizzabile geograficamente nella memoria, sala cinematografica romana, piangendo come il bambino che ero stato nel 1977 (nota: questo racconto, da Qui in poi, sarà pieno di quello che le grammatiche dei nati dopo il 2001 hanno imposto con il termine di spoiler; e che è riduttivo però tradurre con ‘anticipazione’ visto che di ‘reinterpretazione’ senza termini di riferimento si tratta, in sostanza: il paradosso di una pre-visione da parte di chi ne riceve notizia che, però, non ha nulla di intuitivo o di profetico: nella maggior parte dei casi si rivolge referenzialmente agli snodi di trama; invece trattandosi, come si spera in questo caso, d’altro: si riferisce – almeno: si dovrebbe riferire – alle sensazioni raccontate di chi ha avuto in sorte di vedere prima ciò di cui racconta) ― Piangendo come il bambino che ero stato nel 1977, dopo aver visto Han Solo padre ucciso dalla spada laser del proprio figlio (Adam Driver, Kylo Ren, Ben Solo: sono tutti nomi cangianti con cui s’identifica quel proteiforme groviglio di pulsioni che è un figlio al cospetto della propria fragile, incongrua, irrazionale rivolta contro ciò che il padre è stato, per lui, fino a quel momento in cui deve, dolorosamente deve – perché lo ha deciso, perché comunque suo padre non sarà mai all’altezza di come l’ha sognato da bambino, perché è troppo solo e disperato per avere contezza dei proprî limiti: e soprattutto accettarli, perché adolescenzialmente, un’adolescenza del cuore che non può essere ingabbiata in nessuna banale serialità a tema, non può fare altro che dare la colpa a qualcun altro, al proprio padre, al proprio nonno, per tutti i limiti che sente di sé, per tutti i fallimenti, per tutte le sconfitte, anche quelle solo temute, tutti gli incubi inconfessati di fallimento che prendono un figlio al cospetto di un padre ― deve, dolorosamente deve: liberàrsene).
Ecco.
Mentre piangevo, in quella Roma di cui adesso non identifico le tracce, o le vie camminate, per quel gesto: la mano di lui, Han Solo, che accarezza sulla guancia suo figlio: e gli dice, gli pensa dentro ‘va tutto bene’; guardàndolo negli occhi, lasciandosi cadere nell’eternità, e nell’abisso di buio che prevede, con quell’ultima traccia del figlio in sé: “va tutto bene”, gli dice, gli pensa dentro; mentre cade e quel gesto diventa, nella grazia mai apprezzata del tutto, e doverosamente, dell’arte di Harrison Ford, un saluto pieno d’amore: solo questo.
“Mi commosse ritrovare Han e Leia, invecchiati; sopravvissuti, sempre innamorati e però allontanati da quella stessa reiterazione dell’identico che mina la resistenza di molti matrimoni”.
Non un perdono; né una benedizione. Non c’è nulla di paternalistico, o di superiore. Non c’è cognizione del perché o del quando: ma solo del come la mano di lui sfiori le guance in lacrime del figlio. E per la prima volta mi sono reso conto che in un gesto realmente d’amore, quando viene rappresentato per arte, vale di più il fuoco su chi quel gesto lo riceve, gratuito, perfetto: che sulla pratica eventualmente narcisistica di chi lo fa.
(E ora che ci penso perché lo scrivo mi rendo conto che la vera arte che àmo si fonda su questo: di là dalle errate percezioni opposte di esibizionismo o di eccessivo controllo: nella grande arte, sempre, la forma ti trascina dentro l’universo che crea mentre accade – mentre lo fa – regalàndoti una carezza di addio proprio mentre la lasci andare, una volta conclusa la prima volta: quando – per la prima volta, appunto – finisci di leggere un romanzo che hai amato, trovi il punto fermo in un verso che ti ferisce, o ti illùmina; sei costretto alla lettura conclusa di una qualche ultima fine incisa sullo schermo).
E così.
Mentre piangevo, per quella caduta e per la grazia umanissima di quella carezza, per quel volo di Han Solo (così simile a quello di Luke Skywalker, alla fine dell’Impero colpisce ancora: e però, a differenza del volo di un jedi, definitivo come quello di tutti gli sprovveduti, meravigliosi, fragilissimi e irripetibili esseri umani), mi rendevo anche conto, però, della curiosa sensazione da pericolo scampato che mancava, ormai, da dieci anni prima di dieci anni prima, quel 2005 che aveva visto la fine della Trilogia – per così dire – prequel, e la trasformazione di Anakin Skywalker in Darth Vader; e che però, a dirla con sincerità – soggettiva ma rigorosa: o forse così rigorosa perché soggettiva – non mi ha mai convinto del tutto.
A partire – lo dissi, lo scrissi più di vent’anni fa – da quella resa esplicitata della Forza come una massa brulicante di vermicelli new-age biologicamente attiva; una sorta – e capirete quindi la mia istintiva ritrosìa di galattosemico – di noiosissimo esercito di fermenti lattici schierati in battaglia.
Laddove per me: da sempre, il concetto di Forza della prima, classica Trilogia degli episodi IV, V, VI: aveva a che fare con una forza laica, fisica ma non deperibile, vicina alla araldica e incandescente circolarità ellittica degli elettroni, ai campi elettromagnetici; ai gelosi e segreti movimenti formativi del cosmo quando ancora era tutto materia incandescente, e protoni, e nuclei instabili: mescolati, nel loro futuro plausibile, all’imperscrutabile, postschopenhaueriana forza di volontà che smuove dall’inerzia la possibilità di vivere degli uomini.
Una cosa mia, senz’altro; che però la spiegazione di Liam Neeson e Qui-Gon Jinn (in quel caso incarnati da un’unica voce peraltro tradotta in italiano) non aveva minimamente convertito in persuasione.
Così come la figura di Jar Jar Binks e la sua simpatia imposta per statuto; la poca rappresentatività antagonistica del tatuatissimo Darth Maul: non solo non mi avevano convinto, sei anni prima di dieci anni prima di dieci anni prima, in quel 1999 della Minaccia fantasma: ma mi avevano trascinato fuori, di peso, dall’universo di Star Wars che m’aveva accompagnato fino a loro. Non in quanto creazioni perturbanti, inattese o poco gradite: ma perché figure già viste prima ancora che entrassero nella saga. Un atto di debolezza del loro creatore; quasi non si fidasse della forza nascosta delle sue intuizioni precedenti. Figurine a tema, mi sembrarono allora: mi sembrano adesso nel presente della riscrittura.
Non in quanto violatori di quello che Eco, nei suoi modi di sognare il Medioevo, ha definito il Vangelo secondo San Lucas; ma perché nel vedere loro, nell’accogliere la Trilogia in arrivo, mi ero reso conto che – e la struttura meccanicamente teleologica degli episodi I-II-III l’avrebbero comprovato, di là da tutte le buone intenzioni etiche di George Lucas – la volontà di evangelizzazione aveva stremato il racconto in una sorta di premessa didascalica al genio fondativo già girato degli episodi IV-V-VI.
E: per non dare solo i numeri, lasciandomi da solo a piangere lacrime estetiche nel 2015, il cuore della questione è, alla fine dell’ultima Trilogia sequel (delucasizzata, paradossalmente, dagl’interventi di J. J. Abrams, di Arndt, di Johnson di Terrio e dell’immenso Kasdan padre): la presenza di Leia Organa e di Han Solo.
Questo, alla fine, è quello che rimane nella mia percezione soggettiva di lettore.
Ritrovare Han Solo nella storia è stato come ritrovare il mentore di un tempo dopo tanti anni; il padre putativo – o il maestro squinternato, magari – che si è scelto nell’infanzia e di cui avremmo poi accolto le varianti digressive negli anni.
Sia immediatamente interne (Indiana Jones, Rick Deckard); sia esterne (Peter Venkman, naturalmente; e il Tony Stark di Robert Downey, jr insieme con Jack Sparrow: ma questa è una classificazione successiva).
Il risveglio della forza, in quel 2015 pieno di vita, ha segnato la presenza mai spenta di Han Solo nella mia esistenza precedente e futura; presenza improvvisa e veloce, visto che non ho fatto in tempo a ritrovarne il tempo e il ritmo che Han se n’è andato, di nuovo, con una carezza; e la classe preterintenzionale di un quirino d’oltregalassia.
1b. Solo per me
Quando Han Solo è apparso, nel maggio del 1977: ha dovuto aspettare il tempo che ci voleva per manifestarsi nella sua forma tradotta – da un lato all’altro dell’Atlantico, da un punto all’altro del tempo e dello spazio – fino a me. Fino al cinema di Monteverde Nuovo che, nell’autunno successivo, più o meno (il tempo dei miei sei anni, a pensarci: malgrado la mia percezione adulta accanto a un padre giovanissimo e una madre ancora più giovane) l’avrebbe trasformato in me; appunto, nell’uomo che avrei voluto diventare.
Un po’ il Rick di Casablanca, molto lo Yanez di Salgàri (ma questo io lo capivo allora solo in parte): Han Solo arriva nell’immaginario collettivo partendo da un bar di Mos-Eisley, sul pianeta Tatooine. Abbatte con un colpo di disintegratore al tavolo il cacciatore di taglie che vorrebbe deportarlo per soldi. Sfugge ai soldati imperiali sul suo Millennium Falcon insieme con l’inseparabile wookiee Chewbacca; in pratica salvando (a suo modo) Obi-Wan Kenobi, Luke Skywalker, C-3PO e R2-D2 quando ancora si chiamavano D-3BO e C1-P8.
Sapremo dopo che è l’astronave con cui ha fatto la Rotta di Kessel in meno di dodici parsec; che l’ha vinta al gioco al suo amico, poi momentaneamente nemico, poi di nuovo amico per sempre Lando Carlissian.
Arriva, Han Solo, contrabbandiere e ricercato; fuorilegge e guascone come un verso di Dylan. Un antieroe il cui fascino è nella pretesa gradassa che però, spesso, gli riesce. Così come nella vanteria che si riduce a situazione d’emergenza soprattutto quando è convinto del proprio piano.
Salva una principessa per soldi: ma poi se ne innamora. Va via per pagare con il denaro che ha guadagnato la taglia sulla sua testa: ma poi preferisce tornare a combattere con i ribelli – da anarchico esterno – e permette a Luke Skywalker di abbattere la prima Morte Nera guardandogli le spalle, come si dice.
Lo salva di nuovo, gettandosi nottetempo tra i ghiacchi del pianeta Hoth (che poi, oltre allo Stuart di The Big Bang Theory: ”chi sa davvero quanto dura una notte sul pianeta Hoth?”): e scoprendo l’uso che si può fare di un tauntaun morto di freddo (gli taglia la pancia, lo eviscera e ci scalda il quasi congelato Luke mentre lui, con la giusta precisione, monta un riparo adeguato per la notte).
Fa innamorare la sorella di Luke Skywalker prima ancora che lei lo sappia, probabilmente (di essere sorella: perché di essere innamorata lo sa prima di Han); e quando lo stanno per ibernare nella grafite, risponde al Ti amo di lei con uno speranzoso, solo apparentemente definitivo (in realtà scellerata, impatteggiabile speranza di altri dialoghi e di vite future) “lo so”.
Guida una rivolta, vince una guerra galattica insieme con l’Alleanza Ribelle. Poi, in un’ellissi che copre più o meno trent’anni di tanti e tanti anni fa (ricordiàmolo, sempre: le storie di Star Wars non sono ambientate in un futuro remoto: ma nei tempi incerti e antichissimi del mito e delle favole: “Tanto tempo fa, in una Galassia lontana lontana”): vive una vita matrimoniale con Leia Skywalker già Organa; con lei ha un figlio, Ben, che prima studia da jedi poi da neosith (avendo il tempo, tra un film e l’altro, di vincere una Coppa Volpi a Venezia per Hungry Hearts e far innamorare per un po’ Scarlett Johansson).
In qualche oscuro modo si perdono tutt’e tre: una generale della Resistenza, uno erede incerto e macerato di nonno Anakin; Han di nuovo con l’altissimo wookiee a scorrazzare per porzioni di galassia recintate da parsec e stelle morenti inventàndosi affari e, come sempre, coltivando inimicizie.
Questo, fino al suo ritorno di Han Solo. Alla sua morte luminosa. Al ricordo spettrale e radioso che sarà, per suo figlio Ben, nell’Ascesa di Skywalker, nel 2019, in uno dei dialoghi più belli tra fantasmi di padri e amletici rovelli di figlio (“I miss You, son”. ‘Mi manchi, figlio‘).
Ribaltando di Bellezza il luogo comune che i fantasmi non sentano loro la mancanza di questo pianeta; trasformando il dolore per la mancanza dei vivi in uguale, sofferto dolore dei morti quando li ripensiamo; quando li facciamo parlare con le parole che decidiamo per loro ― e di cui loro, fortunatamente, non si pentono mai. “You’re just a memory”, gli dice suo figlio, spietato con i suoi stessi desideri più profondi. “Your memory”, gli ricorda suo padre.
Un dialogo che da solo avrebbe dovuto valere un premio oscar – e Qui ribadisco, polemicamente, l’ingratitudine estetica nei confronti di Harrison Ford; tra le altre cose in grado di entrare nell’immaginario collettivo con almeno tre miti diversi ― recuperando in me per sempre, con questo dialogo immaginato da un sith in via di ri-conjedarsi (e insieme con l’idea di Famiglia extragenetica professata dal vecchio Luke alla meravigliosa Rey): quell’idea di Forza che mi aveva innamorato, bambino; e che i colpi didascalici della Trilogia prequel avevano un po’ minato. (Meglio: messo alla prova).
Luke Skywalker; e Han Solo: nel cuore delle Guerre Stellari che ci hanno attraversato per quarantadue anni.
42, fortytwo. O fortitude; o chissà. Come ci insegna qualsiasi Guida galattica per gli autostoppisti degna di questo nome.
1c. Il viaggio dell’antieroe
Han Solo è in sostanza forse l’ultimo antieroe planetario moderno (del cinema: e non solo) insieme con Indiana Jones (che però incarna una sorta di dualismo da identità segreta, nel suo doppio ruolo di archeologo anche accademico e di avventuriero: quasi avesse una via di fuga, postmodernista, da falsa identità).
Moderno, ripeto (se non modernista), Han Solo. Della stirpe degli Yanez, appunto; e, forse, ma neppure poi tanto forse, dei Dedalus.
“Quando Han Solo è apparso, nel maggio del 1977: ha dovuto aspettare il tempo che ci voleva per manifestarsi nella sua forma tradotta – da un lato all’altro dell’Atlantico, da un punto all’altro del tempo e dello spazio – fino a me”.
Dei Marlowe (l’investigatore, certo: e già la leggenda postmoderna del tragediografo omonimo così come la vede Tom Stoppard, attraverso Rupert Everett: segna una qualche traccia della sottile, sottilissima linea rossa che separa i ruoli di questa catalogazione per interrogativi e domande).
Ed ecco che sùbito mi dico però che Philip Marlowe, e Chandler, sono filtrati attraverso Dick nel Rick Deckard di Blade runner.
Quindi Solo dovrebb’essere qualcosa di differente.
Conferisce, ai miei occhi, andando da un Ford all’altro, una sfumatura meno risoluta e guascona all’amatissimo Tom Doniphon dell’Uomo che uccise Liberty Valance.
Come Tom Doniphon, Han Solo fa quello che deve assumendosene la responsabilità. Un Tom Doniphon più solare, magari. Ma, forse, anche perché è abituato alle caratteristiche stellari di Tatooine.
E Qui, anche, mentre scrivo: mi accorgo della fisicità incarnata dall’unico Han Solo possibile, almeno per me. (Dopotutto: è una narrazione per immagini; e la caratterizzazione fisica dell’attore che interpreta il ruolo è fondamentale).
Perché il Solo: A Star Wars Story di Ron Howard è un passo falso proprio nella costruzione dell’antieroe che da adulto Han Solo è diventato.
Provo a raccontàrmelo.
Di là dalle trappole per addetti ai lavori (il sasso come detonatore termico finto; il wookie – e Han – proposti come finti schiavi in dono, il travestimento di Tobias Beckett; la ripetizione canonica dell’icona con disintegratore quando Han rientra nel Millennium durante la fuga dalle miniere di spezia su Kessel; l’abbraccio carpiato tra Han e Lando). Di là dalla riproposizione howardiana del treno del Mucchio selvaggio nel furto del coassio.
La prima partita a Sabacc con Lando Carlissian è telefonata (con un paradossale azzardo tecnologico, prima che metaforico) sulla base di un’enciclopedia condivisa che, però, viene usata solo referenzialmente: non come ponte sospeso per una nuova costruzione estetica.
In più: il passaggio da una sequenza all’altra, con Qi’ra, Emilia Clarke, che annuncia di conoscere un tale che ha l’astronave che serve: e che sa come trovarlo: è al lìmite (soltanto alleggerito dal trucco della voce off) dell’errore di sintassi. Con il personaggio di lei che continua le frasi descrittive a distanza di troppo tempo per giustificare (e: in Han Solo!) un così lungo silenzio in ascolto.
La sottolineatura insistita di quanto Han sia “the good guy”.
Insomma. Una visione fuorviante.
Anche perché, poi, whitmanianamente contraddicendomi, forse (ma forse no): proprio io che credo nella forma mutevole e irripetitiva della grande arte: proprio io che desidererei, invece, veder giocare con la difformità della resa cinematografica, anche visivamente; che esalto il genio di Welles che si concede il lusso più o meno costretto di quattro desdemone: ecco. Non riesco a convincermi del Solo di Alden Ehrenreich.
E questo, naturalmente, dipende dalla mia percezione soggettiva della sua interpretazione, dalle falle sintattiche che scorgo nella sceneggiatura (di Kasdan figlio e padre, attenzione: quindi è una disàmina evidentemente non pregiudiziale).
Dipende, in particolare, da quella sensazione simile se non tale, appunto, provata davanti a Jar Jar Binks e a Darth Maul a suo tempo. (E peraltro in Solo Darth Maul ricompare, di nuovo, nella sua palese inconsistenza. Proprio quando pensavamo di essercene liberati per sempre).
Ma. Se non lo scrivessi, mentirei. Ogni volta che vedo Solo: A Star Wars Story, mi viene in mente la scena di Marrakech Express all’entrata della prigione (dopo “Bonjour, je m’appelle Ponchià”): quando Bentivoglio, Abatantuono, Alberti e Cederna si aspettano la scarcerazione dell’amico Rudi. Gli annunciano l’uscita per le due. Aspettano. Si precipitano alla porta di legno della prigione. Da lontano, intravedono qualcuno che evidentemente attraversa il cortile del carcere. “È Rudi, è Rudi”, grida Cederna. “Non è lui, lo vedi?!”, replica Abatantuono. “Certo che è lui, non vedi come cammina?!”, ribadisce Cederna. Ma Abatantuono evidentemente non è d’accordo.
“È solo che è passato un sacco di tempo e sarà cambiato”. “È la prigione”, glossa Alberti.
“Eeh― La prigione l’ha abbassato di venti centimetri“, chiude per sempre, di là dai poscritti di Gigio Alberti, Abatantuono.
Han Solo, semplicemente, è un altro. Non importano gli anni, le prigioni e la devastazione dolorosa e stupida delle guerre (quelle stellari; le nostre, terrestri e quotidiane). Non è lui. Di là dai poscritti.
E però. Alla fine dei conti e dei racconti.
Soprattutto: perché non mi convince, stavolta, che Han spari per primo?!
2. Han Shot First
2a. Il Greedo di Han; il Greedo di Lucas
C’è una questione che va avanti da anni. Dalla fine degli anni Novanta, in realtà. Da quando George Lucas, prima dell’avvio della Trilogia prequel, ha riproposto gli episodi IV, V, VI rieditandoli attraverso i miracoli della Industrial Light & Magic di cui è il fondatore e il genio creativamente produttivo da sempre.
Una riedizione che ci ha portato molta più gente nelle scene di folla, la rivisitazione di alcune parti della scenografia ricordata fin dagli anni Settanta. Scene in più, anche: come l’incontro tra Jabba The Hutt e Han Solo già nell’episodio IV (quando, per incontrare non solo di nome l’indimenticato Batrace di Tatooine, i post-boomers degli anni Settanta avrebbero dovuto aspettare il 1985 del Ritorno dello Jedi).
E, proprio per le manipolazioni di Lucas: la questione di chi abbia sparato per primo.
Per i non ossessionati da Guerre Stellari (che, si sa, lo confermo: è come il calcio secondo Don Camillo quando parla con il Cristo dell’Altar Maggiore: chi c’è dentro c’è dentro e chi non c’è non c’è): la questione riguarda il duello improvvisato che, sul bar di Mois-Esley, su Tatooine, Han Solo ingaggia con il cacciatore di taglie che – solo molto più tardi, nel tempo, da quel 1977 canonico e smemorato, avremmo saputo si chiamava e trascriveva Greedo – è arrivato per portarlo da Jabba The Hutt.
Nella prima versione del 1977 è evidente (mi prendo la responsabilità di quello che dico) che sia Han Solo a sparare a Greedo mentre parlano. Una mossa furtiva delle dita nella fondina e vìa di disintegratore. Nel 1997 (prima di ulteriori modifiche) Lucas riscrive il duello: e prima sembra che sia Greedo a sparare (facendo, come ha poi glossato l’attore che lo interpretava, la figura dell’immane cretino: sbagliando il colpo di disintegratore a un tavolo di bar di distanza); poi quasi sparano all’unisono. Greedo muore in tutt’e tre le versioni e Lucas riceve, nel tempo, le critiche di tutte quelle persone che gli chiedono, in sostanza, perché?
Anzi: la questione diventa un grido. “Han Shot First”. Una scritta per magliette nerd; rimandi di universo in universo (una battuta tranciante di How I Met Your Mother, per esempio). E non è un caso che il revisionismo lucasiano venga ridicolizzato da un iconoclasta divertito come Kevin Smith. Che fa dire al suo Ben Affleck che il proposito cinematografico di Jay & Silent Bob è “la peggior idea sin da Greedo che spara per primo”.
2b. Tre spari nel buio
Per parlare del duello di Mos-Esley, prima ci servono altre scene. Altri spari.
Il primo sparo. Quello, geniale, dello scherzo infinito di Indiana Jones (che con infinite jest, peraltro, condivide le iniziali) nei Predatori dell’arca perduta.
Quando l’oscuro spadaccino gli si fa incontro, sfodera letteralmente la sua doppia abilità e, tra un vorticare di lame e l’altro, un pensieroso Harrison Ford estrae la pistola dalla fondina e gli spara. Mettendo fine a un luogo comune durato decenni, nel cinema, nei fumetti: sul perché si debba sottostare al combattimento deciso dall’avversario.
Pare che la scelta netta di “Indiana Shot First” – come talvolta accade – sia stata casuale: una dissenteria fulminante di Harrison Ford (così recita la leggenda hollywoodiana) avrebbe impedito lo svolgersi naturale della sceneggiatura. E Spielberg avrebbe così avuto l’intuizione di un Indiana immobile – e concentrato – che spara per chiudere in breve la faccenda. E il ciak.
Secondo sparo.
Uno dei tanti flashback di un film da me molto amato (Connor MacLeod e Peter Venkman si unirono a Han Solo nel mio empireo immedesimativo personale nel pieno degli anni Ottanta delle loro nascite: sancendo, di fatto, una Trinità emotiva inscalfibile che, probabilmente – purtroppo; per fortuna? – dura tuttora): Highlander.
Le macerie e il fumo della Guerra. Christopher Lambert, camicia bianca e bretelle, accoglie a sé e salva dal terrore (e dalla morte) una bambina, Rachel (che, potere della regia di Russell Mulcahy e della sceneggiatura di Gregory Widen, Peter Bellwood e Larry Ferguson: abbiamo già visto adulta, quarant’anni e più dopo, almeno già un quarto d’ora di film prima).
L’inquadratura vede Christopher Lambert e la bambina, in collo, raggiunti ora dal riconoscibilissimo sventagliare di una mitragliata.
Lambert cade, in qualche modo proteggendo la bambina. Che rimane evidentemente stupita dal suo non essere morto.
“It’s a kind of Magic”, dice Connor-Lambert. ‘È una specie di magia’. In questo aiutando la stessa versificazione del testo dei Queen in una delle canzoni-prìncipe del film (le altre, per chi volesse saperlo, sono per me la struggente, indimenticata Who wants to live forever; e l’epica, monumentale Princes of the Universe).
Il nazista in nerorosso esse-esse li raggiunge; con un colpo sorprendente Connor-Lambert lo disarma, prende il mitra. “Muoviti!” gli intima. E, in un italiano tedescheggiante, “Nein”, dice l’oscuro nazista. “Tu prima deve spararmi!”.
Ecco.
Con un sorriso che è il nostro sorriso; e con un gesto che (almeno: per chi abbia a cuore il guazzabuglio incerto del cuore umano) è il nostro gesto: Connor MacLeod ride e spiega: “Siete voi la razza padrona”. E lo abbatte, premendo il grilletto e regalando al nazista un futuro certo di morte senza resurrezione.
Una delle scene catarticamente geniali della storia del cinema: proprio perché plurifocale, caratterizzante in pochi scambi un’epoca e un personaggio; e perché trasforma il racconto dell’incontro sfasato tra Connor MacLeod e Rachel in una rivelazione ritardata per chi guarda.
(Solo una nota. Sennò, di nuovo, mentirei. Questo mi accade di solito con la grande arte cinematografica, a tutti i livelli. Talvolta, alla cinquantesima, o – come nel caso di Highlander – dipiùesima visione di un film, mi accorgo di una domanda di sceneggiatura. Di solito, nei grandi film: questa domanda non arriva mai; o arriva, comunque, dopo almeno cinquanta visioni, appunto.
Se Connor MacLeod è negli Stati Uniti da quasi due secoli. E, come gli ha spiegato Sean Connery-Ramírez nel Cinquecento, in Scozia: gl’immortali a un certo punto verranno attratti tutti verso una terra lontana che, stando al film, è senz’altro l’America del Nord. Ora. Visto che l’esercito nazista non ha invaso per fortuna gli Usa, durante la guerra (di là dai nazisti simpatizzanti, durante il conflitto; gli odiati e ridicoli, sempre, nazisti dell’Illinois dopo; i neonazisti attuali che hanno attualmente anche incarichi governativi): che ci sta a fare in Europa Connor MacLeod se è già stato attratto in America per le questioni private tra immortali? È tornato per dare una mano? E se sì, come? L’Adunanza è a tratti?
E lasciamo Qui sospeso l’interrogativo).
Terzo sparo. Diffuso. Con triello e più. Nella scena della locanda seminterrata e dello Stallo alla Messicana (“basement” e “Mexican standoff”, per voce di Brad Pitt) in Inglourious Basterds di Quentin Tarantino.
Quando Michael Fassbender guida una risposta suicida alle invadenze fanatiche di August Diehl, l’insopportabile maggiore della Gestapo Dieter Hellstrom.
Un ricordo per immagini che ci serve per introdurre, stavolta, un trailer, più che uno spoiler.
Ma: a differenza dei trailer che sono diventati dei modi invadenti (non dico come August Diehl, ma comunque forieri di una qualche ottusità estetica al suo personaggio riconducibile) per accompagnare le persone tra le spire del subito detto (come le anticipazioni pretelevisive, del resto): Qui mi lìmito ad annunciare prossimamente su questi schermi – visto che, almeno in questa versione, lettrice e lettore, stai leggendo su uno schermo: solo il titolo di due future digressioni: La catarsi nel cinema di Quentin Tarantino. E, per dare segno dell’Enciclopedia Cosmogonica Marvel: Ironic Man, ovvero Del Real Marvelloso).
Diamo conto in soldoni, Qui, del perché del primo proposito. Inglourious Basterds ci serve, ora, per dire che in epoca postclassica, perché la catarsi non sia didascalica: può riguardare solo la costruzione di universi narrativi alternativi e deformanti (intendendo l’aggettivo come intervento sulla costruzione formale). E in questo Tarantino ce ne offre esempi in Inglourious Basterds (con la morte per rogo di cinema di Hitler e delle altre teste di morto che lo attorniano) e, naturalmente, in Once Upon a Time in Hollywood. E in entrambi i casi ci esalta esteticamente e ci – etimologicamente – commuove accompagnandoci alla fine della guerra; all’amicizia tra Leonardo Di Caprio e Sharon Tate. In entrambi casi mettendo fine, con un colpo netto alla realtà, ai danni che la stupidità procura agli esseri umani.
“Quando l’oscuro spadaccino gli si fa incontro, sfodera letteralmente la sua doppia abilità e, tra un vorticare di lame e l’altro, un pensieroso Harrison Ford estrae la pistola dalla fondina e gli spara”.
E, a proposito. Lo sparo secco di Indiana Jones, la mitragliata di Connor MacLeod, il suicidio generoso dei bastardi senza gloria hanno un archetipo. A me molto caro.
Tom Doniphon, appunto. Che spara a Liberty Valance perché, in quell’universo che è la sua vita, è l’unica cosa giusta da fare.
2c. Secondo Han. O del vi(ll)aggio globale dell’antieroe
Torniamo per un attimo a Han Solo. Per parlare del suo essere l’ultimo antieroe moderno, appunto.
Antieroe nel senso di ‘un Tom Doniphon più guascone e solare’, per l’appunto.
Che, di là dalle sue grammatiche interiori, messo alle strette si assume le sue responsabilità e fa quello che è giusto fare. A pensarci: come fanno a modo loro Sordi e Gassman alla fine della Grande Guerra.
È da tanto che ci penso e l’unica forma di classificazione ha in sé le spire tortuose di un interrogativo.
Ma. Il passaggio per così dire postmoderno dell’antieroe fluttua e vira verso la figura – anche questa archetipica – del giullare. E, ma in modo diverso rispetto alle regole mutate di Han Solo, in quella del pirata.
E Qui penso all’incontrovertibile Grandezza del Peter Venkman di Bill Murray in Ghostbusters. Che non è un antieroe moderno ma successivo proprio mentre esorcizza i suoi lìmiti attraverso le risorse, inesauribili, dell’ironia e dell’autoironia. Come succederà – mutatis mutandis, per cesellare in modo quasi fracristoforico la considerazione – al Jack Sparrow di Johnny Depp e all’Iron Man di Robert Downey, jr.
Attenzione: ricordatevi dei confini delicati della sottilissima linea rossa che li avvolge.
Volutamente, non parliamo di ‘cattivi’. Siamo in una zona “di qua dal villain”.
Mi spiego. Per segnare un discrimine netto, pur se sottilissimo, tra l’antieroe di cui parlo e l’antagonista dell’eroe.
Prendiamo The Joker. Il cattivo per eccellenza.
Cartoonizzato magnificamente da Jack Nicholson per tramite burtoniano.
Magnificamente interpretato dal sempre compianto Heath Ledger pur in una delle tante, banalizzanti messe in scena di Nolan (ancora trailer: mi lìmito di nuovo a chiudere in modo tranciante la questione, Qui, con una semplice affermazione di gusto; ripromettendomi di motivare, un giorno, più compiutamente la mia affermazione in una digressione narrativa intitolata, provvisoriamente, Del perché Christopher Nolan, nelle sue banalizzazioni celebrate, sia un rischio estetico per l’arte futura).
Ancora: magnificamente interpretato dallo straordinario Joaquin Phoenix-Arthur Fleck di Joker di Todd Phillips. Magnifico lui-Phoenix di là dalla caratura pericolosamente an-estetica, più che antiestetica, del personaggio raccontato. (An-estetico, mi dico, è aggettivo che devo riusare anche nella disàmina dell’opera di Nolan).
Ecco. Nel primo caso, Nicholson gigioneggia da par suo dentro un riferimento cinematografico che è quello, puntuale, del bambino Burton che inquadra e costruisce i suoi giocattoli.
Nel caso di Ledger: possiamo dire che le sue doti interpretative travàlicano la noia della rappresentazione fintogotica del film che lo raffigura.
Nel caso di Phoenix. Joker parte esplicitamente da Re per una notte.
Ma: laddove il film di Scorsese, nella sua dolorosa struggenza, rappresentava De Niro-Rupert Pupkin nel dolore mediocre dei suoi sogni costantemente infranti: il film di Phillips (la sceneggiatura di Phillips e Silver) giudica il personaggio di Joker dall’alto. Lo giustifica paternalisticamente; gli concede una scusa, pietosa, di rivalsa.
Le aspirazioni di Arthur Fleck non sono messe in luce come frustrazioni motivate dalla sua sostanziale, impatteggiabile mediocrità. Ma, mentre si offre una forma di compatimento per le sue tristi sorti di nascita, al tempo stesso si giustificano le sue reazioni violente nei confronti di un’umanità che prima (con giustezza) non lo capisce; e poi, paradossalmente, lo segue.
Ma la grandezza dell’interpretazione di Phoenix non riesce a mascherare il sottinteso “a tema” del film. Mentre si vorrebbe radicalizzare (più o meno in buonafede: non importa) la menzogna, in arte (ma non solo) dell’uno vale uno: intanto si concede una qualche scorciatoia etica pericolosa.
Perché l’Adolf Hitler espulso dall’Accademia in quanto mediocre pittore raccontato con perfetto, interrogativo rigore narrativo dal Kurt Vonnegut del Grande tiratore: Qui non viene vissuto descrivendo i modi che l’hanno portato a quello che è.
Semplicemente: diventa la convinzione del Santi Bailor di Sordi in Un americano a Roma. Che non ha sposato a Marilina perché, da ragazzo, la scarlattina gli ha impedito di emigrare nel Kansas City.
Il grottesco non viene più identificato per quello che è – grottesco – Santi Bailor emigra davvero e diventa presidente degli Stati Uniti. E Arthur Fleck riempie i teatri con le sue battute finalmente facilmente comprensibili.
E ancora: rispetto alle ombre estetiche che mi dà la figura di Anakin Skywalker alla fine della Trilogia prequel: lì, le macerazioni del personaggio, le sue contorsioni, il delirio di potere e la crudeltà irrisolta che ne attivano la violenza (e ricordiamo che si parla sempre dall’interno degli universi estetici dell’arte che inventiamo, etimologicamente): derivavano da una sconsiderata, impaziente incapacità di gestire le proprie doti superumane.
Qui la violenza si scatena a partire dall’inaccettabile consapevolezza dei proprî limiti (attenzione: non da un’inconsapevolezza naïf); delle proprie, insuperate, mediocrità. Che, peraltro, garantiscono un séguito nutrito di frustrazioni.
E che, se guidate, possono invadere Capitol Hill e garantire una rielezione.
2c1. Sono Solo
Han Solo è un personaggio che nasce quantitativamente secondario e che, da “protagonista ellittico” si prende la scena; nell’opera, nella ricezione creativa successiva di chi guarda, di chi legge. L’antieroe, il secondo che prende possesso della scena proprio per la sua variegata, polifonica, non schematizzabile personalità. Mercuzio su Romeo. Han Solo su Luke (appunto): a sancire una visione del mondo per nomi.
È l’emblema orgogliosamente scandaloser – per joyciare – di quegli sconfitti con stile che, con Bufalino, ricordano sempre che “i vincenti non sanno quello che si perdono”. (E Qui, quasi, Second First, ‘prima i secondi’, diventa un grido di ribellione da gestire con la giusta acutezza di giudizio; una risemantizzazione, se non un neologismo semantico per sintagma, su cui ragionare perché non si perda; o, peggio, se ne trasfiguri surretiziamente il significato).
Figura di riferimento, sì, Han Solo. Ma, essendo un personaggio con una vita propria, come tutt’i personaggi esteticamente vivi: è unico di là dalle sue origini e dal suo retaggio.
In arte, prima creare Han Solo. Poi si vedrà.
(Nella vita, mi lancio: prima gli Han Solo, pur con tutti i loro difetti. Il rischio, altrimenti, è che siano sostituiti dagli Arthur Fleck. O – mentirei, se non lo scrivessi – dai Trump. Che con il giullare mascherato condivide la stessa zazzera: ma, naturalmente, senza la classe dei Nicholson, dei Ledger e dei Phoenix: perché è proprio di un altro universo).
3. Han Solo Sum
3a. Ma insomma chi ha sparato per secondo?!
Torniamo alla questione di Han Shot First.
A lungo, Lucas, lo stesso Lucas che Star Wars e Indiana Jones li ha creati; lo stesso George Lucas che, insieme con Francis Ford Coppola ha fondato lo studio cinematografico American Zoetrope; producendo, tra gli altri, La conversazione e Apocalypse Now, Rusty il Selvaggio e Peggy Sue si è sposata; Il padrino – Parte III, Il mistero di Sleepy Hollow, The Rainmaker, Dracula di Bram Stoker, Lost in Translation e Megalopolis: quando si è trattato di motivare le sue riedizioni del duello tra Han Solo e Greedo si è sempre trincerato – di là dalle tracce scritte di sceneggiatura e dallo spettro del ridicolo che aleggiava sulle sue giustificazioni – dietro lo scudo comodo della certezza.
Han Solo non ha sparato per primo.
Fino alle sue considerazioni conclusive, qualche tempo fa, sulla questione.
Che trascrivo nell’italiano raccolto in rete da Marcello Durante per starwars.it (in un articolo datato 6 luglio 2024; e intitolato aggressivamente George Lucas zittisce i fan che ripetono “Han Solo ha sparato per primo”. A rivedere tutta la questione online, sembra di scartabellare le grida sui bravi nei Promessi sposi; che incredibilmente, con questa tripla citazione, diventano il romanzo più ricordato di questa digressione su Han Solo).
Considerazioni che sono state rilasciate – teste l’articolo – ai “microfoni” del The Hollywood Reporter.
“Beh, non è un evento religioso. Odio dirlo alla gente. È un film, solo un film. La controversia su chi ha sparato per primo, Greedo o Han Solo, nell’Episodio IV… quello che ho fatto è stato cercare di chiarire la confusione ma, ovviamente, ha fatto arrabbiare la gente perché volevano che Solo fosse un assassino a sangue freddo, ma in realtà non lo è”.
First. Solo un film. È chiaro che, come insegna Caligari, “il cinema è finzione”. Ma proprio per questo non si capisce perché dover ritornare dozzinalmente su un personaggio per azzerarne le sfumature. Solo un film, in estetica, è un modo avvilente di definire il portato di un’opera d’arte.
Nel caso del creatore dell’opera stessa, può essere un esercizio di modestia: ma quello che potrebbe apparire il meglio della consapevolezza dei proprî limiti si veste, così, dell’arroganza di un’opinione grossolana tra le altre. In arte, per come la vedo io (vale Solo per me), la risposta più giusta alla domanda su chi abbia sparato per primo, soprattutto se data dal creatore di Star Wars, è la stessa di Harrison Ford interrogato sulla questione. Più o meno: “non lo so; e non m’interessa”.
Ma: all’interno della questione estetica che la revisione di Lucas comporta.
“Han Solo è un personaggio che nasce quantitativamente secondario e che, da “protagonista ellittico” si prende la scena; nell’opera, nella ricezione creativa successiva di chi guarda, di chi legge”.
Perché un uomo come Han Solo, minacciato di morte dal cacciatore di taglie che è pronto a scambiare la sua vita con un premio in denaro: non dovrebbe considerare quella come una forma di legittima difesa? Ancora: ha senso dover motivare il gesto di Han Solo come legittima difesa sui generis?
Perché non dovrebbe essere caratterizzato, Han Solo, da una congerie di sfumature che, come tutte le creature vive dell’arte – dalla Pia de’ Tolomei di pochi versi allo Straight omicida dubbioso di David Lynch – lo rendono esattamente quello che è?
Perché banalizzarlo nell’etichetta di non è un assassino a sangue freddo? Un ripensamento politicamente corretto che, in arte, terra delle domande incerte e non delle risposte nette: è sempre pericoloso.
La sostituzione della forma che l’opera richiede alla serenità del buon contenuto condiviso ha creato un contraccolpo planetario interno all’arte le cui ripercussioni, e smottamenti, hanno investito, poi, l’oltremondo etico della realtà che condividiamo fuori dall’universo di Star Wars; o del Grande Gatsby.
C’è una confusione di àmbiti. Come ha spiegato Javier Cercas, il romanziere (l’artista) si muove sull’et-et. Humani nihil a me alienum puto. (Nel caso di Star Wars, sia quando homo, sia quando alienus sum. Per quel che significa homo; per quel che significa alienus).
L’intellettuale che deve prendere civilmente posizione, invece, si muove sul confine certo dell’aut-aut. Qualsiasi inversione dei due atteggiamenti produce un disastro in tutt’e due gli àmbiti.
Con artisti che vogliono insegnare il bene e intellettuali che non prendono posizione.
Così.
Senza una strega catarticamente gettata nel calderone per sacrosanta salvaguardia personale all’interno del mondo fiabesco: la strega rischia di non essere più riconosciuta come tale nel mondo extrabosco del Cremlino, o della Casa Bianca. E votata, magari: in un enigma del consenso che nasce da una sovrapposizione sostanziale dei piani ricettivi.
La sostituzione del buon contenuto alla bella forma (il buon senso teorico sul bel significante pratico, in sostanza): ha determinato un contraccolpo globale sulla forma dei sensi.
Se manca la strega spinta nel calderone; se in arte si censurano le pulsioni (o, peggio: peggio! Si autocensurano): diventa più difficile accettare le proprie pulsioni per corpo altrui riconoscendosi e intanto esorcizzare il male in arrivo.
Se non accetto di essere io anche carnefice attraverso l’indicazione che me ne dà una forma estetica: non potrò accettarmi potenziale carnefice mai.
E Qui.
Da un lato una ricerca del politicamente corretto fuorviato per parte politica.
Dall’altro lato il finto sovraccaricarsi della componente ludica dei villain nella rappresentazione.
Per cui l’antieroe è identificato con un villain atrocemente grottesco; la carica vitalistica e non manichea di un antieroe moderno diventa il suo contrario; e l’accettazione delle grammatiche consolidate viene vissuta come riparo: proprio mentre se ne brandisce in malafede la novità o, strumentalmente, il recupero motivato.
Così.
Se Han Solo non può sparare per primo, improvvisamente, riscrivendone il carattere e le contraddizioni: le contraddizioni spariscono, tutto si uniforma in un’unica melassa giudicante, didascalica e priva di sfumature. (Visivamente, un Jabba The Hutt privo di personalità).
E il diavolo fonda il suo potere su tinte uniche (e sgargianti, nel caso di Trump).
Solo invece è uno solo. Sempre.
E se però anche il suo creatore dice che “non è un assassino a sangue freddo”, costringendolo in una sola definizione; e se neppure lui si accorge (o, peggio, non vuole accorgersi) che non è un personaggio ma quel personaggio – Han Solo – ecco il rischio di un tempo di creatori timidi (nel migliore dei casi), e sprovveduti.
Ma l’arte non solo non deve: non può limitarsi nella descrizione pluriforme delle fragilità e degli splendori degli esseri umani.
Per paura della realtà, Lucas giudica Han Solo. E sbaglia. Rendendolo paradossalmente più debole, fraintendibile.
Tradibile nel senso sbagliato del termine.
3b. Lucas (ci) ha lasciato Solo
Il punto è, sostanzialmente (è una mappatura di trànsito, do conto di righi impressivi mentre navigo), che sembra non ci sia più una sorta di irrazionale (magari macabra) fascinazione per personaggi che travàlicano la loro natura verso una sorta di oltreumanità di là dal bene e dal male: ma la cui riconoscibilità è però nello stile, nelle infinite sfaccettature del loro delirio.
Penso al mio amatissimo Hannibal Lecter; o allo struggimento metafisico di Loki, il fratello ambiguo e mercuriale di Thor (e, attenzione: i nomi Lecter-Loki sono consonanti).
Rimane una volontà di identificazione col villain, sì. Ma non con il dèmone solitario; più con uno sgherro di terza o quarta fila nello scontro un tempo non manicheo tra Bene e Male.
Con un ribaltamento di prospettiva che ha ricanonizzato uno stantìo bene retrivo e patriarcale; e ha indicato il male nelle pulsioni, incerte, della propria irrefrenabile complessità emotiva.
Mi sembra, insomma, che spesso ci sia stato un salto percettivo tra villain e antieroe; a tutto vantaggio però, anche, di un nuovo eroe negativo fondato sulla mediocrità, la caratura grottesca, la volgarità spacciata per capacità reattiva a grammatiche stantie (che, però, sono proprio quelle che il neoeroe negativo sostiene).
Nello stesso modo in cui Berlusconi ha risemantizzato la parola ironia a uso dei media (una Riberlusconizzazione planetaria per cui si è voluto, in malafede, ascrivere ogni menzogna, insulto o gaffe tra e dentro le gabbie della definizione falsata di ‘ironia’): si assiste ora a un’eroicizzazione canonica negativa dei villain meno riusciti.
Né Dracula né Van Helsing, in sostanza.
Ma Renfield che assurge al ruolo di eroe osannato per la sua capacità, divertentissima e raggiungibile dai più, di mangiare le mosche.
(A meno, naturalmente, che a interpretarlo non sia – il che ulteriormente testimonia della primazia della forma e del come, nell’arte, sul cosa che viene ritratto – la magnifica, disincantata consapevolezza di Tom Waits nel Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola).
Personaggi, infine, non fragili ma fintamente fragili: attenzione. Arroganti nella loro ignoranza brandita. Non ‘disarmati perché inadeguati nel loro più o meno sapere di non sapere’; bensì trincerati nella loro tronfia arroganza di sapere (già) tutto.
Non indotti dai desideri che li forgiano ma forgiati dai desideri indotti. In questo conformandosi all’enciclopedia asfittica, e senzaslanci, dei loro estimatori; confermandola.
Non è, questa, l’era degli antieroi.
Ma di un nuovo tipo di eroe negativo condiviso.
Un aneroe.
Grottesco, impresentabile, volgare, immediatamente riconoscibile da chi voglia farne i tratti – e gli àlibi – del proprio comportamento.
Un eroe mediocre come chi a lui s’ispira.
Triste il pianeta che già non aveva necessità di questi aneroi; e che ora, sempre di più, sembra spasimàrne il bisogno.
3c. Solo è Solo
Per concederci un ultima digressione prima di un epilogo futuro nel passato.
In Solo: A Star Wars Story, Kasdan padre e figlio si sono divertiti a dirimere la questione dello sparo con un gesto finale.
Mentre Tobias Beckett (sempre con Chewbacca ora portatore di coassio più o meno tenuto sottoscacco) parla con Han temporeggiando e cercando di distrarlo. All’improvviso, Han interrompe lo sproloquio del suo antico mentore traditore e gli spara in pieno petto.
La questione non esiste, Qui. È chiaro che Han shot first.
Con tanto di nota estrema di Beckett – zittito per sempre, dopo questo – che gli dice che Han ha fatto una mossa furba, per una volta. Altrimenti l’avrebbe ucciso lui.
“You made the smart move, kid. For once. I woulda kill you”.
Quindi. The good guy (così lo definisce sorridendo Qi’ra) che pensa a sé come a un fuorilegge: Qui si conferma nella sua opinione.
Solo. Sembra davvero una giustificazione ex post e un gioco non troppo riuscito tra vecchi amici: Kasdan padre, Lucas.
Perché nulla, nel Solo di Ron Howard, mette in gioco la percezione del good guy di Qi’ra prima dello sparo a Woody Harrelson (che – spoiler esistenziale – attenzione: non è morto veramente; il cinema è finzione!); né la modifica dopo lo sparo. Soprattutto: soprattutto! Perché il film si conclude, dopo la prima volta in cui Lando ha vinto a sabbac barando, con una vittoria di Han. Che, però, vince senza barare. E lo ribadisce, lo sottolinea contro Lando stesso.
Fair and square, baby. Fair and square.
“E onestamente, amico mio! Onestamente!”, in traduzione.
Ma non c’è contraddizione o screziatura.
Semplicemente, il Solo di Alden Ehrenreich si compone di tessere che si susseguono senza intarsiarsi.
Semplicemente (avverbio che, in arte, va risemantizzato: perché non si confonda la semplicità densa ottenuta da un pensiero complesso con i trucchi senza respiro di un’inerzia complicata): George Lucas, Kasdan padre e figlio (ma specialmente padre); con il bene che vi voglio. Lo sapete anche voi.
La Forza dell’Arte non è questa.
Giordano Meacci
Giordano Meacci è scrittore e sceneggiatore. Il suo ultimo libro è Acchiappafantasmi (Minimum Fax, 2023).
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