Valentina Pigmei
18 Giugno 2024
L’autore di "Storia di mia vita", il caso editoriale più atipico della stagione, si racconta, nella lingua ruvida e spontanea che ha sbalordito i lettori. La fuga alla Polonia, le bugie del comunismo, l’amore per Marta, la dipendenza dall’alcol. E la vita per strada, un po’ più sopportabile se, come lui, hai “tante chiamate nel telefono”.
Nel giro di pochi giorni dall’uscita, Storia di mia vita è diventato un caso editoriale. Esaurito in molte librerie, alla stesura di questa intervista è il secondo libro più venduto nella categoria Biografie su Amazon, e il suo autore, il sessantaduenne Janek Gorczyca, polacco ma di stanza a Roma da oltre trent’anni, è piuttosto stupefatto. “Non mi aspettavo questo. Ho scritto senza pensare a niente. Non pensavo che gente leggesse”, sorride dietro i baffoni da vichingo. Storia di mia vita (Sellerio) è il racconto autobiografico di un immigrato senza fissa dimora, un uomo dotato di grande spirito d’iniziativa e senso di solidarietà, la cui “voglia di vita un po’ sbandata” lo ha portato più volte in galera e “addirittura in ospedale psichiatrico”. Gorczyca ha una voce narrante che ti s’incolla al cervello; una scrittura ruvida e martellante che sbalordisce senza mai ricorrere all’enfasi e al vittimismo. La potenza del suo racconto viene principalmente dalla lingua, un italiano imparato per strada, in cui le parole sembrano mancare, sottratte da uno spirito pratico, da un’intelligenza tagliente. A Gorczyca non interessa raccontare traumi, come alla maggior parte degli autori di memoir, eppure il libro non è nemmeno un noioso elenco di avvenimenti (“questo è un racconto non un diario di capitano di barca”, scrive). Come fosse un romanziere navigato, scarta il superfluo, scarnifica, dà senso alle cose davvero importanti o – come ha scritto Carlo Greppi sui social – ha la “capacità di mettere a fuoco ciò che ci rende umani”.
In questi pochi giorni trascorsi dall’uscita in libreria, il volume è stato accostato inevitabilmente a Terra Matta di Vincenzo Rabito e a La spartenza di Tommaso Bordonaro, entrambi libri scritti da autodidatti, con i quali Storia di mia vita può condividere forse il parlato e le sgrammaticature, ma poco di più; ad alcuni ha fatto pensare a Chiedi alla polvere di John Fante o a Il sole dei morenti di Jean Claude Izzo, a tratti il personaggio di Janek sembra quasi un Limonov italiano – prima di arrivare a Roma quasi per caso, è stato anche contrabbandiere e ha lavorato in una centrale nucleare – ma la verità è che è difficile trovare parentele e riferimenti letterari.
“il personaggio di Janek sembra quasi un Limonov italiano – prima di arrivare a Roma quasi per caso, è stato anche contrabbandiere e ha lavorato in una centrale nucleare – ma la verità è che è difficile trovare parentele e riferimenti letterari”.
Anche intervistare Gorczya non è stato facilissimo. La prima volta aveva il telefono fuori uso. Al secondo tentativo era sbronzo. Al terzo ce l’abbiamo fatta. In video, Janek ha l’aria allegra e molto emaciata, anche se stamattina è perfettamente sobrio.
Non pensavi che ti sarebbe toccato fare interviste con dei giornalisti, vero?
Io sono abituato a giornalisti. Facevo occupazioni, venivano sempre giornalisti e io ci parlavo perché parlavo meglio la lingua.
Eh ma adesso devi parlare del tuo libro.
[Ride]
Come ti sei sentito quando lo hai finito? Scrivere è stato un sollievo o una fatica?
Difficile dirlo. L’ho scritto spontaneamente. Ma quando è finito non ero triste, avevo ancora mia vita.
Ci sono dei libri che hai letto che ti hanno influenzato?
Difficile dirlo. Ho letto tanti libri, ho tanti idoli. Mi piace letteratura russa, scrittori come Tolstoj o Puškin che parlano di un tempo quando non c’era regime sovietico. Ho letto anche libri italiani, tipo tutti quelli di Giorgio Faletti. Però quando scrivevo pensavo sempre solo al mio.
Nel libro ti definisci “un ribelle di nascita” e parli di “ribellione politica”? Che cosa significa?
Da bambino ascoltavo sempre cose vietate, durante il comunismo non si poteva leggere tante cose e allora mi sono convinto che quello che dicono a scuola non è vero. Poi tramite Solidarność mi sono reso conto che qualcosa non funzionava. Stando sotto regime sovietico loro ti convincono che il capitalismo è sbagliato, ma questo non è vero.
Anche se la società capitalista occidentale non ti ha accolto così bene…
No, non è vero. Sono stato in Germania, in Austria e ho lavorato bene. Anche in Italia io lavoro e guadagno. In Polonia non era così. Adesso invece non c’è più differenza.
Gli operatori che lavorano con i senza dimora dicono che la strada non è mai una scelta. Tu perché ci sei finito?
In un certo senso posso dire che invece ho scelto. Ho scelto la vita sbandata. Avevo sempre una stanza se volevo, magari andando in conflitto con la legge, ma l’avevo.
In conflitto?
Sì, le cose sono così fuori posto che io non sono mai d’accordo.
Perché di punto in bianco hai deciso di lasciare per sempre la Polonia?
Sai è molto buffo. Questa estate mia sorella vuole venire qui, a Roma, e convincermi a tornare in Polonia con lei, dice che là ho una sistemazione sicura e una pensione.
E tu che farai?
Mi prendo un po’ di tempo per pensare. Oggi mia vita è in Italia e la Polonia non la conosco più. Comunque il motivo per cui sono venuto a Roma non è stato perché avessi bisogno di cercare fortuna in altri paesi, il motivo è stato il conflitto con mia famiglia, come ho scritto nel libro. Con mia ex moglie di Russia.
L’hai mai più sentita e hai mai più rivisto vostro figlio?
No. Non ho più sue tracce. Non c’è nessun accordo tra Russia e Polonia quindi è difficile. Sospetto che lei ha cambiato cognome, sai in Russia si può fare tutto. Ho provato a cercarlo anche sui social network, ma non ci sono mai riuscito.
Quanti anni ha tuo figlio ora?
Eh non lo so, non mi ricordo. Ma io ero molto giovane quando lui è nato. Avevo 24 anni. Ma non lo conosco più, ho perso i suoi giorni quotidiani.
Il lavoro è stato sempre importante per te.
Sì. Il mio lavoro adesso è il fabbro, anche adesso mi chiamano per porte da aprire, cancelli da aggiustare. Mi piace lavorare. Mi salva il lavoro e mia resistenza all’alcol.
Pensi che chiunque, anche io per dire, potrebbe sopravvivere vivendo per strada?
No. Per donne è difficile. Poi anche per me è stato sempre molto differente. Io avevo sempre tanti amici, tante possibilità di fare docce. Non conosco la solitudine. Ho sempre tante chiamate nel telefono. Conosco tanta gente a Roma.
Come ti spieghi la tua dipendenza dall’alcol?
È una malattia. Non lo so perché ce l’ho. Ho provato a curarmi, ho fatto percorso psichiatrico, ho fatto ricovero. Lì non bevevo ma davo soldi a infermiera per portarmi vino o birra. È una malattia che mi porto dietro da bambino. A quattro anni sono andato dai vicini di casa che imbottigliavano vino. Ho chiesto se mi faceva assaggiare e mi è piaciuto. A quattordici anni ho cominciato a bere regolarmente. Poi nei tempi in cui sono cresciuto per la società era figo bere. Ora è cambiato, è cambiato anche in Polonia. Alcol è stato sempre stile di vita, ma non me ne accorgevo perché nonostante tutto lavoravo, ma adesso ho capito la gravità dopo tanti morti, specialmente di mia Marta.
Ti consideri una persona buona?
Io non mi giudico. Faccio quello che devo fare per vivere. Mi viene spontaneamente di aiutare gente.
Ci sono cose che non rifaresti?
Adesso i casini non li faccio più. Ma no, non mi sono pentito. Spesso ho fatto a botte ma se qualcuno provoca, io rispondo, non sono mai io che cerco.
Hanno detto che il tuo libro sembra un atlante geografico delle vie di Roma, sembri essere stato ovunque a piedi in questa città.
Ho conosciuto tante persone. Roma è la mia città. Poi ho conosciuto anche l’impero romano sui libri. Gli imperatori, Cesare, Antonio. Ho letto anche Odissea di Omero, ma tutto quello che ci davano, io non leggevo. Leggevo libri di avventura e non quelli di scuola. Non ricordo altro perché ho vuoti di memoria.
Nel libro parli anche del tuo rapporto con gli animali, i cani in particolare.
Mufi era il cane mio e di Marta, la mia compagna, ma in realtà era più mio, obbediva a me. È morto a quattordici anni. I cani sono sempre i miei compagni, loro capiscono. Quando vivevamo a Villa Farinacci [l’ex centro sociale occupato, n.d.a.] la gente se trovava un cane lo portava a me. Associazioni di cani mi aiutavano un po’ a curarli, ma stavano con me. C’è stato un momento in cui ne avevo otto.
Storia di mia vita è anche una storia d’amore, un amore sbilanciato, a volte rovinoso, altre salvifico. Quanto è stato importante nella tua vita e nelle tue scelte esistenziali l’amore?
Con Marta è stato più di una storia d’amore, è stato condividere un quarto di secolo insieme, in tutte le maniere, in tutte le occasioni. Non ci siamo mai sposati perché eravamo già tutti e due… sposati con altri! E non volevamo fare stesso errore [ride]. La nostra è stata storia anche di amicizia, di affidamento sull’altro. Marta era fragile e io la proteggevo, aveva sempre bisogno di me per prendere decisioni.
E invece chi protegge te?
Io non ho bisogno.
Chi è Janek Gorczyca?
Una persona che non appartiene a nessuna nazione, anche se l’Italia è mia seconda patria. Non ho la patente ma so guidare perfettamente. Nel corso di mia vita ho preso tantissimi treni. E sono nato il due di settembre, di domenica. Di domenica non si lavora.
Valentina Pigmei
Valentina Pigmei è giornalista e consulente editoriale. Ha fondato l’associazione femminista “La città delle donne” e collabora con diverse testate.
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