Maddalena Giovannelli
L’uscita del nuovo film di Ridley Scott, sequel del classico contemporaneo con Russell Crowe, è primo al box office anche perché ha affascinato gli spettatori per le molte curiosità legate all’epoca romana e ai valori del mondo antico. Con qualche confusione.
Nella galassia di articoli e presentazioni che hanno accompagnato l’arrivo in sala de Il Gladiatore II – dalla dieta di patate dolci seguita dal protagonista Paul Mescal per aumentare la massa muscolare fino alla metratura del nuovo Colosseo costruito ad hoc a Malta – una notizia in particolare ha attirato l’attenzione pubblica: l’iniziativa promossa da Airbnb che invita sedici coraggiosi a vestire la corazza e a sfidarsi al Colosseo come gli antichi gladiatori.
La piattaforma statunitense specializzata negli affitti brevi ha firmato un accordo da un milione e mezzo di euro con il Parco Archeologico del Colosseo per offrire ai suoi utenti un’“esperienza gladiatoria”, creata in partnership con la Paramount Pictures. L’iniziativa, leggiamo sul sito, si inserisce nel “più vasto impegno di Airbnb nel tutelare e promuovere il turismo del patrimonio storico europeo”.
Ed è proprio su questo aspetto che si fonda la comunanza di intenti – non solo economici – tra il colosso californiano e le politiche italiane. La volontà di Airbnb di rinforzare il nesso tra turismo e tutela del patrimonio ha infatti incontrato alcune linee d’interesse del nostro governo, che guarda con particolare simpatia alle rievocazioni storiche (specialmente se legate alla romanità) e che già nel 2023 aveva raddoppiato i fondi a esse destinati.
Non è difficile immaginare quali valori legati al mondo gladiatorio risultino affascinanti per Fratelli d’Italia, e più in generale per gli amanti delle rievocazioni: il riscatto che avviene attraverso l’allenamento e la ferrea disciplina; il coraggio che si esprime anche grazie all’esercizio della violenza; il senso dell’onore e il culto del corpo nel pieno del suo vigore. Ci si potrebbe domandare in prima istanza se simili ideali permeassero davvero i ludi nell’antica Roma; in secondo luogo, fino a che segno tale orizzonte valoriale sia compatibile con l’America di Hollywood. Sul secondo punto, come vedremo, il Gladiatore II mostra una discreta confusione, ma anche sul primo è lecito avanzare qualche dubbio.
Il Gruppo Storico Romano – una delle associazioni impegnate a “veicolare il tema della disciplina della gladiatura con l’ausilio di rigorosi basi scientifiche”, con cui il Parco Archeologico del Colosseo ha firmato un protocollo d’intesa – descrive il percorso gladiatorio come un “cammino di sofferenza e riabilitazione sociale” che avviene sotto gli occhi di un popolo che valuta “l’evoluzione personale e morale” del combattente. Si tratta di una ricostruzione vera solo in parte (è stata per me illuminante, a questo proposito, una lunga conversazione con Matteo Cadario, professore di Archeologia classica all’Università di Udine).
I campioni dei combattimenti, in effetti, erano spesso schiavi o accusati di reati gravi; venivano selezionati e addestrati da un “lanista”, che comprava il futuro atleta come possibile investimento economico (il personaggio di Macrino, interpretato nel film da Denzel Washington, assorbe parte di tali funzioni di “scouting”). Il gladiatore, se riusciva a ottenere un numero sufficiente di vittorie, poteva certamente arricchirsi e talvolta diventava persino molto famoso. Tuttavia il marchio infamante legato alla professione – considerata dai romani sullo stesso piano della prostituzione o dell’arte attoriale, cioè comparata agli atti di poco onorevole sfruttamento del proprio corpo per il diletto altrui – non veniva mai del tutto rimosso; non potevano infatti essere erette statue in città per celebrare i gladiatori, e l’unico monumento onorifico loro concesso era la tomba (a Efeso, in Turchia, è stato rinvenuto un cimitero riservato ai gladiatori defunti).
Il secondo aspetto su cui vale la pena tornare, tra quelli magnificati dal Gruppo Storico Romano (e visibili anche nel Gladiatore II), è il ruolo del pubblico come benevolo osservatore del percorso di crescita del combattente. Quanto spesso – e su quali criteri – gli antichi spettatori dei giochi risparmiavano la vita di un combattente? E quanto facilmente si moriva nell’arena? La sceneggiatura di Scott mostra a più riprese il popolo rumoreggiare chiedendo che al gladiatore valente venga risparmiata la vita, mentre l’imperatore crudele gira il pollice e ne decreta la morte. Ma che i cittadini romani fossero soliti premiare il percorso di emancipazione di un gladiatore, è tutto da dimostrare.
I dati storici in nostro possesso mostrano infatti un incremento significativo delle morti nella prima età imperiale: se nel I secolo d.C. venivano uccisi tre o quattro di dieci combattenti sconfitti, un secolo più tardi quasi ogni duello si conclude con un decesso. Le percentuali potrebbero raccontare l’erosione della pietà da parte di imperatori sempre meno giusti, e sempre più assetati di potere; ma difficilmente un sovrano alla ricerca di consenso popolare avrebbe potuto trascurare del tutto – e sempre – il diverso volere della folla. Ben prima che palestre di riscatto o di crescita morale, le arene di combattimento erano dunque teatri destinati al gradito spettacolo della violenza e del sangue, di cui i cittadini romani diventavano via via più ingordi. Per chi desidera approfondire – e preferisce la lettura di saggi alle rievocazioni storiche – vale la pena recuperare due recenti monografie: Gladiatori, carri e navi di Patrizia Arena (Carocci, 2020) e Morituri. La vera storia dei gladiatori di Luca Fezzi e Marco Rocco (Garzanti, 2024).
“Quanto spesso gli antichi spettatori dei giochi risparmiavano la vita di un combattente? Che i cittadini romani fossero soliti premiare il percorso di emancipazione di un gladiatore, è tutto da dimostrare”.
Scott arriva quasi novantenne al sequel del Gladiatore, regalando ai fan uno spettacolare proseguimento ereditario delle vicende di Massimo Meridio (Russel Crowe): cioè il percorso di affrancamento e affermazione di sé di suo figlio Lucio Vero, spedito in schiavitù in Numidia e ora pronto a riscoprire le sue vere radici.
Come già nei precedenti kolossal (per esempio Exodus e Napoleon), il regista non nasconde di essere ben più fedele all’impatto visivo che alla credibilità storica. A far chiarezza in tal senso cominciano le didascalie proiettate in apertura del film, che costituiscono allo stesso tempo una dichiarazione di intenti, e un attentato al cuore degli studiosi presenti in sala: la vicenda che stiamo per guardare è ambientata sedici anni dopo la morte di Marco Aurelio, durante il regno degli imperatori gemelli Geta e Caracalla (biondi, efebici e cattivissimi proprio come Joffrey Baratheon di Game of Thrones). Le date dinastiche non tornano e i due fratelli (non gemelli) regnarono insieme per un solo anno, e ben quindici anni più tardi. Ma questa è solo una delle disinvolte incoerenze del film: la lupa capitolina campeggia, con i gemelli aggiunti da Antonio del Pollaiolo nel XV secolo, sull’arco di ingresso a Roma del II secolo; sopra la tomba del gladiatore romano Massimo risalta una scritta incisa sul muro in inglese; o ancora un branco di squali spielberghiani nuota nel Colosseo pieno d’acqua (mentre già intorno 90 d.C. la struttura non poteva più essere allagata per le battaglie navali).
Ma al di là dei voluti anacronismi – un diritto che spetta a ogni sceneggiatore di fiction – emerge una certa confusione valoriale e ideologica. In una delle prime scene del film, il protagonista Annone (Paul Mescal) partecipa alla difesa di una città africana in Numidia (che era in realtà già da tempo una provincia romana): il guerriero, pronto a morire per la libertà al fianco dei suoi concittadini, giura il suo odio eterno all’imperialismo di Roma. Fino a circa metà dell’opera, Il Gladiatore II sembra muoversi in un orizzonte etico quasi post-coloniale: guardiamo con gli occhi di Annone – che si presenta come un estraneo, uno straniero, un diverso – gli orrori della schiavitù, la sete di guerra e di espansione del regno, l’infezione costitutiva di una società che si fonda sull’esercizio della violenza. Poi, di colpo, il protagonista cambia disposizione d’animo, senza che la sceneggiatura si disturbi troppo ad accompagnare una simile e radicale trasformazione: ora Annone desidera riportare in auge l’antico “sogno romano”, cioè i fasti del primissimo impero. Il nostro eroe, spinto da una nuova forza restauratrice, pare insomma ignorare che anche ai gloriosi tempi di Augusto Roma usava sgominare città straniere e ridurre le popolazioni in schiavitù.
“Al di là dei voluti anacronismi – un diritto che spetta a ogni sceneggiatore di fiction – emerge dal film una certa confusione valoriale e ideologica”.
Quali valori celebra dunque Ridley Scott attraverso il suo protagonista e il suo film? Dobbiamo considerare lo sguardo critico del “primo Annone” contro le violenze insite in un impero, o piuttosto l’enfasi retorica del “secondo Annone” sulla restaurazione dei vecchi cari valori di una volta? La realizzazione del suo sogno è un mondo nuovo di liberi e uguali, o il ripristino di una società più equilibrata, ma ancora fondata sulla conquista e la guerra? In tale evidente ambiguità valoriale, non può passare inosservato l’ossessionante martellare della sceneggiatura sul tema di uno sfuggente “Roman Dream” – assai familiare per il pubblico statunitense.
Le riprese del film, del resto, sono iniziate in piena corsa elettorale, per consegnare poi il prodotto finito ad un’America che ha scelto Trump come nuovo Presidente. Curiosamente, Kamala Harris ha insistito nella sua campagna su temi assai simili a quelli presenti nella prima parte della pellicola (l’America come luogo di accoglienza del diverso, delle opportunità meritocratiche aperte a tutti), mentre il suo sfidante ha invocato il ritorno ad una perduta età dell’oro, fondata sui i valori che trionfano nella chiusa del film. Il Gladiatore II avrebbe dunque potuto facilmente appagare entrambi i presidenti, tirando un poco da una parte o dall’altra l’ampia coperta dell’American Dream.
Quanto all’Italia, non occorre argomentare la vicinanza dei temi trattati alle politiche vigenti: potrebbe anzi capitare, da qui a poco, di vedere l’intera formazione governativa in toga, intenta a celebrare novi ludi. Airbnb avrebbe senz’altro piacere di finanziare l’iniziativa, per promuovere il patrimonio storico europeo.
Maddalena Giovannelli
Insegna all’Università della Svizzera Italiana e si occupa di teatro antico nel contemporaneo. Scrive su «Domenica» del Sole 24 Ore, «Stratagemmi», «Doppiozero».
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