Il futuro dei femminismi passa dal confronto, non dall’esclusione - Lucy
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Benedetta Tobagi

Il futuro dei femminismi passa dal confronto, non dall’esclusione

Dagli anni Sessanta ad oggi, i femminismi sono cambiati, incoraggiando il confronto e il dibattito interno ed esterno. Oggi questo insegnamento è più importante che mai, non solo per i movimenti femministi, ma per l’epoca in cui ci troviamo a vivere.

Un gran casino, vitale, innovativo, allegro, a volte rissoso, ma soprattutto immensamente creativo e fecondo: così mi appariva il complesso di movimenti e battaglie delle donne, femministe e non, negli anni Settanta, “il decennio delle donne”. E come tale ho cercato di raccontarlo, da storica e scrittrice, in Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi, 2024), seguendo il filo delle testimonianze visive della fotografa Paola Agosti. Rivisitare quella stagione ci mostra dove, e come, alcune delle battaglie ancora in corso siano cominciate e trovino il loro modello. Non solo: il repertorio di pratiche ed esperienze maturate allora è prezioso ancora oggi, e può aiutare anche a non fossilizzarsi sulle diversità e i contrasti tra femminismi: sono sempre esistiti, ed è stato comunque possibile condurre grandi battaglie comuni. 

1. Insieme, ma diverse

Negli anni Settanta, le battaglie per le donne coinvolgono un mondo composito. L’Unione donne italiane (Udi), l’organizzazione nata dai Gruppi di difesa della donna attivi nella Resistenza, dopo la Liberazione, è la grande casa di moltissime attiviste, soprattutto comuniste e socialiste, e copre tutto il territorio nazionale (nell’immediato dopoguerra conta 400.000 iscritte). Negli anni Settanta l’Udi e la rivista collegata, «Noi Donne» (che in quegli anni arriva a una tiratura di 600.000 copie), si avvicinano al movimento femminista e ne escono profondamente trasformate: lunghi articoli esplorano cosa significhi essere femminista, oppure interrogano lettrici e iscritte per capire se “siamo troppo o troppo poco femministe”. 

L’Udi nasceva e si muoveva dentro l’orizzonte delle battaglie storiche per l’emancipazione, che dal secolo precedente cercavano di portare la donna su un piano di parità, non solo formale, con l’uomo. Le femministe aspirano alla liberazione, che è qualcosa di più vasto e radicale: una trasformazione dei ruoli, dei valori, dei comportamenti, delle istituzioni, sulla base di ciò che di nuovo portano le donne, a partire da sé. Carla Lonzi, la pensatrice più influente del femminismo italiano, cofondatrice, nel 1970, del gruppo “Rivolta femminile”, mette al centro del suo discorso l’emergere della soggettività femminile e la sua valenza rivoluzionaria, dopo millenni di “monologo patriarcale”.  La donna, diversa ma non inferiore, è portatrice di un’alternativa radicale ai modelli di potere maschili. Alla teoria, si accompagnano alcune pratiche, in particolare l’autocoscienza (da cui si sviluppa successivamente la “pratica dell’inconscio”), che consiste in piccoli gruppi dove la soggettività femminile emerge nel dialogo e nel confronto con le altre, e il separatismo, ovvero la scelta di stare tra donne e di determinare in autonomia i propri  obiettivi. Il femminismo e le sue pratiche si diffondono per l’Italia in maniera reticolare, attraverso una miriade di collettivi e piccoli gruppi. 

Se all’inizio degli anni Settanta le femministe, soprattutto le più giovani, non risparmiano frecciate alle “patetiche vecchiette dell’Udi”, e ci sono tensioni e incomprensioni anche tra nuove attiviste ed ex partigiane, dal 1975, in particolare a Roma, questi gruppi diversi trovano molti terreni d’azione comuni. 

Il Movimento di Liberazione della Donna (Mld) nasce nel 1971 come gruppo federato al Partito radicale, che iscriveva la lotta contro il patriarcato nel quadro più ampio del rifiuto di ogni forma di autoritarismo e oppressione – capitalista, psichiatrica, clericale – per esigere l’affermazione dei diritti individuali. In contrasto col femminismo, il Mld rifiuta il separatismo e non considera centrale l’autocoscienza: per questo, militanti come la linguista Alma Sabatini lo abbandonano per passare al movimento femminista romano. 

2. Aborto e non solo

Queste diverse realtà, insieme a migliaia di altre donne, alcune militanti dei partiti tradizionali, altre senza appartenenza alcuna, si ritrovano insieme nella grande battaglia-simbolo del movimento femminista degli anni Settanta: abolire il reato di aborto e renderlo “libero, gratuito e assistito”, come recitava lo slogan-manifesto. Intorno al principio condiviso dell’autodeterminazione della donna, coesistono strategie e posizioni differenti. I radicali, per esempio, col Centro italiano sterilizzazione e aborto (Cisa), praticano aborti alla luce del sole, come forma di disobbedienza civile: per questo la presidente del Partito Radicale Adele Faccio, il segretario Gianfranco Spadaccia e il ginecologo Giorgio Conciani sono arrestati nel gennaio del 1975. I collettivi femministi romani e i loro consultori preferiscono continuare a organizzare viaggi all’estero, dove l’aborto è legale (Londra, soprattutto). “Rivolta femminile” poi si differenzia perché non assegna un ruolo centrale a questa battaglia: solo una “sessualità non procreativa” può liberare davvero le donne, mentre liberalizzare l’aborto rischia invece di consolidare il vecchio modello di sessualità “vaginale” che gira intorno al maschio, così come il divorzio è visto come “un innesto di matrimonio da cui l’istituzione esce rafforzata”. 

A partire da primi anni Settanta, con Lonzi e poi Luce Irigaray, si sviluppa la riflessione sulla differenza femminile da cui proviene una delle correnti più originali del pensiero femminista. Nella pratica però le “vecchie” istanze di emancipazione, che mirano alla parità, continuano a esistere, e si traducono in battaglie e conquiste fondamentali, alcune combattute insieme da Udi, femministe (o una loro parte) e altri gruppi e partiti. La tanto agognata parità salariale, per esempio, che le donne partigiane si erano date come obiettivo sin dal 1943, e che viene sancita per legge solo nel 1977 (ma non per il settore privato, dove ancora oggi esiste un gender pay gap). E poi la contestuale unificazione delle liste di collocamento, voluta per compensare gli effetti della grave crisi economica seguita allo shock petrolifero del 1973, che aveva lasciato senza lavoro soprattutto le donne (come è successo, per l’ennesima volta, durante il Covid). Promuovere e tutelare l’occupazione femminile – e renderla compatibile con la maternità – era e resta una battaglia cruciale. L’indipendenza economica s’intreccia profondamente alla possibilità di autodeterminarsi davvero e di spezzare le catene della violenza di genere. Quante donne, magari con figli, non lasciano un marito violento perché dipendono da lui, e non saprebbero dove andare e di che vivere? Si discute molto, oggi, della divaricazione tra le battaglie per i diritti civili e quelle per i diritti sociali. Negli anni Settanta, il laboratorio del femminismo sindacale  ha cercato invece di tenere assieme le battaglie collettive sui contratti e le condizioni di lavoro e quelle contro l’oppressione specifica delle donne, sfidando l’accusa di mettere così a rischio l’unità di intenti dei lavoratori (“simpatizzi più con gli operai o la moglie di Agnelli?”, era la battuta che girava all’epoca). 

3. Come passare dalla élite alle masse?

Il femminismo degli anni Settanta è stato tacciato talvolta di elitarismo, eppure  sono tante le iniziative mirate a raggiungere anche le donne distanti dal movimento e quelle meno dotate di strumenti, materiali e culturali. Come portare le casalinghe ad autogestire una trasmissione radiofonica a Radio Città  Futura, ad esempio. O Allargare i corsi delle “150 ore” (ore di permessi retribuiti per i lavoratori che vogliono prendere un titolo di studio, una conquista ottenuta dai sindacati nel 1973) anche alle casalinghe, come fa Lea Melandri.

In quegli anni, i consultori autogestiti offrono consulenze per l’interruzione di gravidanza e la contraccezione, ma educano anche alla prevenzione e al self help, insegnando alle donne a farsi un’auto-visita ginecologica. Spesso collocati strategicamente in quartieri operai o popolari, sono stati fondamentali per raggiungere le tante donne che non partecipavano ai collettivi e al movimento e magari non avrebbero nemmeno osato avvicinarvisi. A partire da un bisogno, nei consultori queste donne incontrano una realtà accogliente, volontarie e dottoresse che non le giudicano e si pongono al loro stesso livello, aiutandole a superare la vergogna che troppo spesso accompagna il sesso, il corpo, la contraccezione e l’aborto. Così sono meno sole. Oggi, mi pare che quell’eredità l’abbiano raccolta i centri anti-violenza.

Molte donne che l’hanno vissuto associano il femminismo degli anni Settanta a una sorta di risveglio, una consapevolezza nuova che trasforma l’esistenza. Sottolineano l’importanza dell’incontro con i testi fondamentali del pensiero femminista, e ancor più dei legami  personali nati all’epoca, che spesso durano tutta la vita. Un “femminismo vissuto”, spesso estraneo alle riflessioni teoriche, che coinvolge le donne a partire dalle pratiche, dalle battaglie, dagli incontri. Alcune raccontano di essere state inizialmente estranee, se non ostili, al femminismo – magari perché erano comuniste, o cattoliche, o perché (soprattutto a sinistra) avevano paura di auto-ghettizzarsi, abbandonando le battaglie condivise coi compagni per interrogarsi con altre donne sulla propria identità; oppure, perché rese diffidenti dalla rappresentazione deformata che ne offriva la stampa, perpetuatasi poi nei decenni a venire (le femministe arrabbiate, frustrate, che odiano gli uomini, e via dicendo). Diffidenti fino a che non ne fanno esperienza in prima persona, partecipando alle  battaglie che le riguardano direttamente, come l’aborto o la violenza: allora ne rimangono coinvolte, talvolta folgorate. 

4. Trovare la voce trasforma l’esistenza (e l’esistente)

In quegli anni, tra le azioni di maggior impatto nella battaglia per l’aborto, c’è stata l’autodenuncia collettiva delle donne che avevano abortito illegalmente: si espongono personaggi di fama internazionale come Simone de Beauvoir e Catherine Deneuve. Le donne scoprono il potere di una voce collettiva capace di sfidare il potere giudiziario (il quale finirebbe per paralizzarsi, se provasse a processarle tutte). Una voce che protegge e insieme dà la forza per uscire allo scoperto, rompendo il circuito chiuso della vergogna e dello stigma che avvolgeva l’interruzione di gravidanza. 

Qualcosa di simile è accaduto, decenni dopo, con il #metoo, nato negli Stati Uniti. Dopo le prime inchieste giornalistiche e accuse di molestia, sempre più donne hanno trovato il coraggio di denunciare. Il movimento è dilagato attraverso gli ambiti professionali, per poi oltrepassare i confini degli Usa (in Italia è stata Giulia Blasi a far partire la campagna #quellavoltache, nella forma di progetto di scrittura collettivo). Oltre all’impatto mediatico, sociale e politico che ne è derivato, anche solo parlare apertamente di molestie ha aiutato molte donne a riconoscere per la prima volta come tali le situazioni di violenza e abuso di potere subite, di cui molte volte, sino a quel momento, si erano sentite complici, corresponsabili o addirittura colpevoli, finendo per trovarle normali, perché “così va il mondo”: lo racconta bene il film Anche io (2022), che ricostruisce la storia dell’inchiesta da cui il #metoo è partito.

“Un gran casino, vitale, innovativo, allegro, a volte rissoso, ma soprattutto immensamente creativo e fecondo: così mi appariva il complesso di movimenti e battaglie delle donne, femministe e non, negli anni Settanta”.

Tornando agli anni Settanta, è allora che i processi penali diventano una “piattaforma” per le battaglie femministe. Accade con alcuni procedimenti che vedono le donne imputate per aborto. Tra il 1972 e il 1973, il processo Bobigny in Francia e quello contro Gigliola Pierobon a Padova sono l’occasione, per le imputate, le loro avvocate e il movimento femminista, di mettere sotto accusa le leggi inique e le speculazioni di molti medici (soprannominati “cucchiai d’oro” perché guadagnavano montagne di soldi con gli aborti clandestini, mentre le più povere mettevano a rischio la salute, e a volte la vita, sui tavoli delle mammane). Dalla metà del decennio, la battaglia si concentra sui processi per stupro. Sono le vittime, in questo caso, a prestarsi per mettere a nudo l’oscena vittimizzazione secondaria che subiscono, durante le inchieste e poi in aula, figlia di una “cultura dello stupro” che esiste ancora. Proprio quello che ha fatto Gisèle Pelicot nel 2024 scegliendo un processo pubblico a porte aperte, perché “la vergogna deve passare dall’altra parte”. 

La violenza è l’altro grande tema su cui, dopo la grande battaglia comune per l’aborto, si crea la convergenza più ampia, dalle manifestazioni notturne con le fiaccole con lo slogan “Riprendiamoci la notte” nel novembre 1976 alla proposta per una nuova legge che trasformi finalmente lo stupro in reato contro la persona nel 1980. Non è un caso che negli ultimi dieci anni le piazze siano tornate a riempirsi per dire no alla violenza di genere. Una mobilitazione di carattere transnazionale, come già quella per l’aborto, che ha portato tra le altre cose all’introduzione del termine e poi del reato di femminicidio, nel 2013. Una battaglia diffusa, che si esprime nelle manifestazioni ma anche attraverso la condivisione e il confronto, perché quando una donna trova il coraggio di raccontare pubblicamente una molestia, un abuso o una violenza vera e propria, magari taciuta per anni, altre donne trovano la forza di fare lo stesso. È quel che è accaduto, dopo il femminicidio Cecchettin, col progetto “Unite contro la violenza”, che ha visto oltre cento scrittrici e giornaliste prendere parola su tutti i quotidiani con le proprie testimonianze e riflessioni, e continua ad accadere in modo spontaneo e informale nelle reti sociali. 

Corpi e rappresentazioni

Tra le prime iniziative del Movimento femminista romano, nel 1971, c’è una piccola mostra-denuncia sull’uso del corpo delle donne in pubblicità. Accanto alle parole per raccontarsi, le attiviste sentono subito l’esigenza di nuove immagini per rappresentarsi, “decolonizzare” – come si diceva allora – il proprio sguardo, e rompere le gabbie di una femminilità stereotipata. Nel 1973 esce Dalla parte delle bambine della pedagogista montessoriana Elena Gianini Belotti, un piccolo saggio dirompente – divenuto subito bestseller – il cui l’autrice illustra come sin dalla prima infanzia i bambini, maschi e femmine, vengano imprigionati negli stereotipi di genere. Negli stessi anni, sul crinale tra antopologia, piscologia e ricerca sociale, comincia a svilupparsi tra le femministe la riflessione sull’identità di genere come costrutto culturale, in contrapposizione al sesso, che è il dato naturale. 

Nel 2007, Loredana Lipperini raccoglie il testimone con il saggio Ancora dalla parte delle bambine, “un accurata indagine sulla persistenza e addirittura sul rafforzamento dei condizionamenti culturali al ruolo di genere delle bambine”, scrive in prefazione proprio Gianini Belotti, in cui passa al vaglio, oltre a canali tradizionali come libri di scuola, fumetti e pubblicità, anche i videogiochi, i blog e soprattutto la televisione. A partire dagli anni Ottanta, infatti, le televisioni commerciali di Berlusconi hanno fatto irruzione nelle case degli italiani, colonizzando e devastando l’immaginario collettivo. Fino a che punto lo fa vedere nel 2009 il documentario Il corpo delle donne, di Lorella Zanardo, Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi: un montaggio incalzante che mostra come il corpo femminile sia sistematicamente mercificato, svilito e sessualizzato dalla televisione italiana, sia privata sia pubblica;  il film indigna e ottiene risonanza internazionale. Due anni dopo, sull’onda dello scandalo delle escort, delle “olgettine” e delle cene eleganti di Berlusconi, nasce il movimento “Se non ora quando”, che il 13 febbraio 2011 porta nelle piazze d’Italia un milione di persone, “per riaffermare la libertà, la presenza e la visibilità, la forza e l’autonomia delle donne e perseguire una vera e reale parità fra donne e uomini nel nostro Paese, combattendo le discriminazioni e gli stereotipi di genere che continuano a pervadere la società italiana”, come ricorda il loro sito. 

La decostruzione degli stereotipi di genere è stato un cavallo di battaglia storico del femminismo, ma le riflessioni partite dagli anni Novanta complicano molto il quadro teorico di riferimento. A partire da Gender trouble (1990), il saggio che la rende celebre, la filosofa statunitense Judith Butler, pur senza negare il dato biologico, argomenta che anche il binarismo sessuale (cioè la visione “sostanzialistica” secondo cui i sessi sono due, maschile e femminile) è una costruzione linguistica e culturale – per smascherarne i caratteri oppressivi – e parla di molteplici identità di genere. Last but not least, anche le ricerche scientifiche mettono in discussione il binarismo sessuale, riconoscendo l’esistenza di uno “spettro” di variazioni tra maschio e femmina. Un grande sommovimento a cui le femministe reagiscono in modi diversi.

Il gender tra vecchio e nuovo e le fratture di oggi

Le novità dirompenti nelle riflessioni su sesso e gender, insieme al diffondersi, a partire dal 1969, delle lotte di gay, lesbische, persone trans, queer (il termine-ombrello per le posizioni divergenti rispetto alle norme di genere e sessualità) e altri soggetti oggi raccolti nella sigla Lgbtqia+, hanno portato scompiglio, specialmente tra chi, seguendo il filo del pensiero della differenza, ha continuato a intendere quest’ultima prioritariamente come differenza sessuale.

Una parte importante del femminismo ha scelto di costruire alleanze con i movimenti Lgbtqia+ sul terreno della comune oppressione da parte del sistema patriarcale. Questo nuovo transfemminismo è anche intersezionale, perché vuole combattere tutte le forme di oppressione tra loro interconnesse, che si intersecano con quella patriarcale, come razzismo e povertà: uno sviluppo a cui ha contribuito in modo fondamentale il pensiero di femministe nere come Audre Lorde e bell hooks. Questo allargamento di campo, per molti versi, è coerente con lo spirito delle lotte di cinquant’anni fa. Le persone trans, omosessuali, queer non sono anch’esse “soggetti imprevisti”, come erano state le donne? E lo erano sin dagli anni Settanta, con i moti di Stonewall, il “Fuori!”, i testi di Mario Mieli… E guardate con quanta virulenza le destre di tutto il mondo si scagliano contro la fantomatica “teoria gender”, l’attacco feroce dell’amministrazione Trump contro le persone trans! Al di là del femminismo, è una questione cruciale in termini di protezione delle minoranze, un principio fondamentale, non negoziabile, per le democrazie liberali.

Una parte del femminismo ha reagito invece con la chiusura. Anche se la critica del binarismo di genere e la moltiplicazione delle identità non sottende l’abolizione delle identità di uomo e donna, essa è stata percepita come una minaccia, o comunque qualcosa che “relativizza” troppo la donna.  Nel Regno Unito, le femministe gender critical (si parla anche di Trans-Exclusionary Radical Feminism, femminismo radicale trans-escludente), tra cui spicca la scrittrice J.K. Rowling, ritengono di dover rivalutare il sesso, nella sua materialità biologica, contro il genere, ritenuto una costruzione artificiosa, e contestano con particolare vigore l’identità delle persone trans e le loro battaglie. Come nota Judith Butler nel suo ultimo prezioso lavoro, Chi ha paura del gender?, questo atteggiamento discriminatorio appare in stridente contraddizione con gli ideali che animano il femminismo sin dalle origini.

Senza arrivare a questi estremi, ci sono posizioni critiche più sottili, ma comunque problematiche. Negli ultimi mesi per esempio ha suscitato discussioni il saggio Donna si nasce (e qualche volta si diventa), delle filosofe Adriana Cavarero, una delle voci più autorevoli del pensiero della differenza, e Olivia Guaraldo. Le autrici argomentano che l’alleanza del femminismo con i movimenti Lgbtq+, caratteristica del transfemminismo, “si è inevitabilmente tramutata in una specie di ostilità”. In particolare, denunciano il tentativo di imporre la dicitura “persona con utero” al posto di “donna”, per non discriminare le altre identità di genere. Problematico, secondo Cavarero e Guaraldo, anche il nuovo linguaggio inclusivo  dello schwa, una sorta di “neolingua” (evocazione di quella imposta dal Grande Fratello di Orwell in 1984) che crea un “universale neutro”: dopo decenni di battaglie per emergere dall’“universale maschile”, la donna rischia di sparire di nuovo o essere confinata in una dimensione minoritaria. 

Questi toni allarmistici sono giustificati? Davvero è in corso un attacco alla parola “donna”? Il saggio in realtà pone grande enfasi su un numero ridotto di episodi circoscritti. Sembrano punte di radicalità che trovano già una risposta netta nell’orizzonte culturale dei movimenti Lgbtqia+: come riconoscono le stesse autrici, la filosofa Butler, un riferimento fondamentale sin da Gender trouble, si esprime in modo netto a difesa della parole che le persone usano per parlare di sé, inclusa “donna”. E possiamo osservare che nei documenti di gruppi transfemministi, per esempio il manifesto per l’8 marzo 2025 del movimento “Non una di meno”, la parola “donna” sta tranquilla al suo posto, insieme a “frocie, lesbiche, queer, trans, migranti, seconde generazioni, sex workers”. Quanto allo schwa, anche le autrici riconoscono che “può essere uno strumento utile di non discriminazione”. Non una neolingua, ma un “linguaggio ampio”, lo chiama la sociolinguista Vera Gheno, “un universo linguistico in espansione”, una possibilità in più per includere nel discorso soggetti  e pezzi di mondo prima esclusi o negletti.

“Ci sono moltissimi fronti di lotta urgenti, non solo in Italia: femminicidi, disuguaglianze, discriminazioni, limitazioni e attacchi a diritti acquisiti, a cominciare dall’aborto. Come negli anni Settanta, è possibile creare coalizioni ampie tra realtà diverse”.

Gli eccessi ideologici o prescrittivi non sono mai mancati, nei movimenti, incluso quello femminista degli anni ’70. Chi si ricorda i discorsi sulla “conversione” al “lesbismo militante”, rilanciati persino da Susan Sontag nel 1972? Oppure le dure contestazioni contro lo psicologo statunitense Harvey Karman, bollato come servo della Cia da una parte del femminismo romano, quando il mondo radicale, con Aied e Cisa, lo invita a parlare della tecnica di aborto mediante aspirazione – sicura, economica, quasi indolore – che pratica e diffonde nel mondo? Sono ricordi sfumati persino per tante protagoniste di quella stagione, e adombrati  dai grandi temi comuni che hanno portato a conquiste per milioni di donne. “Woke means you give a damn about people” (woke significa che ti importa delle persone), ha detto recentemente l’ottantasettenne Jane Fonda, per rivendicare che dietro la parola-simbolo del “politicamente corretto”, da anni oggetto di scherno e attacchi sistematici da parte delle destre, esiste un nucleo caldo di valori e ideali di inclusione, tutela delle minoranze, difesa dei diritti e allargamento degli spazi di libertà per tutti. 

Ci sono moltissimi fronti di lotta urgenti, non solo in Italia: femminicidi, disuguaglianze, discriminazioni, limitazioni e attacchi a diritti acquisiti, a cominciare dall’aborto. Come negli anni Settanta, è possibile creare coalizioni ampie tra realtà diverse, scegliere su quale fronte investire le proprie energie senza escludere o vivere come una minaccia tout court le battaglie che sentiamo più distanti. Ci muoviamo in un’epoca di angoscia, assediati dalle guerre, in società sempre più polarizzate. Più che mai mi pare sia tempo di gettare ponti e cercare terreni di condivisione. Penso che, anche nel campo delle battaglie femministe valga la pena di cercare terreni comuni anziché enfatizzare le punte estreme che dividono, e peraltro espongono a rischi di strumentalizzazione da parte della destra. Insomma, c’è posto per tutte e tutti (visto che la pratica del separatismo è tramontata da tempo) o, se preferite, per tutt*.

Benedetta Tobagi

Benedetta Tobagi è giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica italiana. Il suo ultimo libro è Le stragi sono tutte un mistero (Laterza, 2024).

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