Il Giubileo è l’apocalisse a Roma - Lucy
articolo

Francesco Pecoraro

Il Giubileo è l’apocalisse a Roma

Cantieri in ritardo, transenne ovunque, traffico in forma di ingorghi, mura pericolanti, enormi masse di fedeli e poi un’eclissi di sole: il precedente Giubileo, più che l’anno santo, è parso la fine del mondo.

Da qualche anno c’era questo Giubileo che incombeva sulla città come un’apocalisse tutta nostra che ci figuravamo in masse sterminate di fedeli che marciano in ginocchio verso San Pietro cantando inni strazianti per ottenere la remissione di tutti i loro peccati. Ci interrogavamo sulle cause e sui significati, tipo: Ma metti un polacco o un bavarese, non potrebbe andare in parrocchia sua, nella sua città, e al prete suo raccontare tutti i peccati, invece di venire qui a fare il giro delle sette chiese? Si obbiettava che il Giubileo è ben altra cosa, è Grande Evento, come i Mondiali del ’90, le Olimpiadi del ’60, capace di cambiare o almeno mobilitare positivamente le energie della città con beneficio di tutti, infedeli compresi. Si contro-obbiettava che Roma da qualche millennio non ha energie da mobilitare, ma era l’insinuazione tendenziosa di chi, dall’abiezione del proprio ateismo, considerava l’avvenimento come una minaccia, un inutile intralcio e una complicazione alla già complicata vita normale della città, che non ne avrebbe avuto alcun giovamento. Si obbiettava ai contro-obiettori che ci sarebbero state “grandi opere”, di cui la capitale aveva bisogno, tipo sottopassi, sovrappassi, restauri, ampliamenti, nuove corsie e svincoli stradali, gallerie abbellimenti rivestimenti e riverniciature, pulizie. Si sarebbe pulita l’intera facciata di San Pietro, per esempio, con quelle colonne gigantesche e quelle balaustre fuori scala, inclusi nell’errore architettonico iniziale di chi aveva concepito una chiesa immensa allo stesso modo di una chiesa normale, solo pantografata, così per esempio i putti delle acquasantiere risultano a tutt’oggi alti due metri e mezzo, due giganti in forma di bambini: e tutto il resto a seguire. 

San Pietro mi aveva sempre dato fastidio, come concetto—la chiesa “trionfante”— e come edificio, a partire dalle considerazioni sull’interpretazione dimensionale degli architetti riguardanti le proporzioni, per finire con la violenza che vedevo, e tuttora vedo, implicita nelle chele di Bernini e nella oscura prepotenza della cupola di Michelangelo. Mi domandavo spesso cosa ne sarebbe del papato senza quella chiesa, senza la cerimonia domenicale con il papa lassù, affacciato come all’oculo di una grande altissima roccia, la cui voce risuona nell’ampiezza sterminata dello spazio sottostante e nella bellezza ovvia e nella magnanimità plateale di quelle braccia aperte. E poi tutto il circostante sublime dei raffaelli e dei michelangeli nelle stanze e nelle cappelle, sui soffitti e le pareti, a fresco. Avvertivo tutta questa arroganza fin da ragazzino—ma Padre, romano midollare, pur non essendo particolarmente credente, mi portava, mi diceva, mi illustrava tutta la grandezza e la magnificenza dei papi, mostrando implicitamente di essere dalla loro parte—da un lato mi stupiva e mi intimidiva (era l’esatta reazione prevista da tutto quell’apparato) e dall’altro mi irritava, anche perché dove stava Padre, lì, automaticamente, non ero io. 

“Da qualche anno c’era questo Giubileo che incombeva sulla città come un’apocalisse tutta nostra che ci figuravamo in masse sterminate di fedeli che marciano in ginocchio verso San Pietro cantando inni strazianti per ottenere la remissione di tutti i loro peccati”.

Non sono mai riuscito a dis-identificare il concetto di Chiesa Cattolica dal concetto di Basilica di San Pietro, per me erano un tutt’uno. E lo erano anche in quegli anni fatidici e fastidiosi, con la città ingorgata e tappata e transennata con reti di plastica arancione, chilometri di rete a recintare i mille interventi qui e là, per i quali non ricordo più se lo Stato o la Chiesa o entrambi sganciarono l’equivalente di 1,88 miliardi di euro, ma tradotti in lire erano una cifra astronomica. Enti laici e religiosi e laico-religiosi apparentemente astratti, ma viventi nel concreto dei loro edifici e dei loro uffici e luoghi di culto, capaci di agire e modificare le nostre giornate, quindi le nostre vite. Enti in quel momento storico, come del resto in quelli precedenti e nei successivi, da considerarsi se non coincidenti, certo molto implicati l’uno nell’altro. 

Io per me sognavo lo smontaggio di tutto il Vaticano, pietra su pietra—numerate con cura—e il suo rimontaggio in luogo urbanisticamente meglio servito, con parcheggi pubblici e pertinenziali, preferibilmente fuori del Raccordo, a Nord di Roma, dalle parti metti dell’uscita di Valmontone: solo allora avrebbero potuto fare, per quello che mi riguardava, anche un giubileo all’anno, per l’eternità: persino un aeroporto internazionale appositamente dedicato, con alberghi, centri commerciali e tutto il resto: un business grandioso. Mentre nel sito attuale del Vaticano ipotizzavo provocatoriamente un lago artificiale per pesca sportiva, gare di nuoto e canottaggio e vela, classe Optimist, oppure, metti, il Museo della Scienza, cioè della vera disciplina antagonista della chiesa, perché anch’essa promettente la vita eterna, ma nell’aldiquà. 

Sembra che stia scherzando ma non è così. Era un progetto molto serio, ci lavoravo a mente, prima di addormentarmi, anzi, serviva espressamente per dormire. In ogni caso era questo lo stato d’animo di noi romani diciamo così detti “laici”—nessun romano, cioè nato a Roma di famiglia romana, può essere mai del tutto laico: la presenza della religione in ogni momento della nostra vita e in ogni punto della città, con la Cupola di Michelangelo e le innumerevoli chiese, le pale d’altare e gli affreschi, le effigi gli stemmi papali gli angeli sui tetti, i santi e le croci apicali che si stagliano contro le nuvole del pomeriggio e tutto il resto, scuole di preti comprese. Un grande teatro che fa del romano laico piuttosto un umano che per tutta la vita si divincola furiosamente dalla religio, in cerca di uno status mentale libero e giacobino, serenamente bestemmiante, fino all’irraggiungibile totale indifferenza dello stadio finale, il più difficile da gestire—questo lo stato d’animo, dicevo, dei laici a ridosso del Giubileo del 2000. 

A questo normale sentire pre-giubilare unito al caos generale della città, che mi incapsulava e mi invadeva da mesi, dovevo aggiungere la rogna tremenda del cantiere per la ri-strutturazione di Piazzale Flaminio, in ritardo per tanti motivi, primo tra gli altri, un muro di contenimento alto una decina di metri, cui un pomeriggio mi ero casualmente appoggiato per osservare il cantiere dall’alto e che in quel momento aveva oscillato. Quel muro oscillava alla sola lieve pressione di un uomo che vi si poggiasse contro. Era spaventoso, con le centinaia di persone che lì sotto transitavano da un treno regionale Roma Nord alla metro A e viceversa. 

Il Giubileo è l’apocalisse a Roma -

I primi di agosto del 1999 faceva molto caldo. Alla chiamata dei pompieri, alla parziale chiusura dell’area “antistante la Stazione della ferrovia Roma Nord”, come recitava il messaggio subito inviato agli uffici competenti del Comune, che sarebbe dovuta in ogni caso restare aperta al traffico pedonale e agli assessori—anche loro sotto stress pre-giubilare, che premevano per la riapertura di una piazza che si sarebbe resa disponibile solo l’anno successivo—a tutto questo, dicevo, si aggiunse la morte improvvisa in Cina, di mio privato e molto amato fratello minore. Era il nostro prediletto. Perno solido, segreto e silenzioso della mia famiglia d’origine, che era invece strana, problematica, estesa, sostanzialmente esplosa come nucleo e come progetto di aggregazione parentale perpetua. 

In un cantiere immenso per la costruzione di una diga sul Fiume Giallo, morì d’infarto, anche se mai ne conoscemmo le reali circostanze. Io ero a Roma e apparentemente ancora in vita, ma annientato, e seguitavo a occuparmi del mio piccolo cantiere, nel casino di una città sconvolta, che da quel momento in poi puntava a finire ciò che era possibile portare a termine prima dell’apertura della Porta Santa da parte dell’energico, fomentato, fastidioso, Papa polacco, con concezione massmediologica, si diceva, della funzione pastorale. 

In questo quadro, una scavatrice mi aveva appena tranciato un cavo ad alta tensione che dava corrente a un bel po’ di quartieri a nordovest della città, su, oltre Monte Mario e le varie Camillucce, provocando la convocazione del direttore di cantiere negli uffici dei carabinieri e il dilemma sull’apertura o no di un ulteriore accesso alla metro nell’area centrale della piazza. L’11 agosto faceva ancora più caldo dei giorni precedenti e la città morta, che tuttora si stende nel sottosuolo della città viva, frapponeva valida resistenza agli scavi e alle trincee e gallerie necessarie per la realizzazione di sottopassi, soprattutto quello che doveva forare le fondamenta di Castel Sant’Angelo, che infatti era stato bloccato, i lavori annullati, e il progetto buttato via, come accade al 99% delle trasformazioni che Roma concepisce per sé e che poi oblitera e nasconde così bene che già la generazione successiva non ne può rintracciare nemmeno uno schizzo. 

“Io per me sognavo lo smontaggio di tutto il Vaticano, pietra su pietra—numerate con cura—e il suo rimontaggio in luogo urbanisticamente meglio servito, con parcheggi pubblici e pertinenziali, preferibilmente fuori del Raccordo”.

È incredibile la quantità di soluzioni di modificazione urbana, talvolta elaborate fin nel dettaglio esecutivo, spesso di qualità, che dormono negli archivi o che sono finite, scomparse, gettate nei cestini degli uffici, degli studi di architettura, di ingegneria trasportistica, di urbanistica. A testimonianza di quanto questa città, anche nelle fasi storiche in cui è dormiente, come questa, sogni sé stessa trasformata e migliore, senza riuscire a realizzarsi se non in minima parte, per frammenti raramente significativi, in iniziative abbandonate prestissimo e poi spesso molto criticate, dovendosi la città fisica adeguare senza scampo alla mentalità cetomedioide della città sociale, cioè alla concreta commerciabilità degli spazi e degli edifici. Cioè in sintesi, agli interessi dei costruttori, veri padroni di Roma. 

Il dolore fortissimo per la morte di Fratello mi metteva in stato di stordimento sdoppiato, come se mi vedessi agire e fare le cose dall’esterno, da un ulteriore Io posto a pochi centimetri dall’asse dell’Io che avevo prima della morte di Fratello, ma non coincidente, un Io incapace di piangere, di ridere, quasi di parlare, di agire con coerenza, di prendere decisioni e fare scelte. 

L’11 agosto, dicevo, era da poco passata la mezza, sapevo si sarebbe verificata l’Eclisse, ma l’avevo dimenticato, non ci pensavo più quando, in piedi sullo spartitraffico tra la piazza e l’asse del Muro Torto, tentavo di valutare il da farsi e mi fu detto: Archité, l’Eclissi.

Cosa?

C’è l’eclissi di sole.

Quando?

Adesso. Tra pochi minuti.

Ho portato pezzi di pellicola non impressionata da casa. Tenga, ne prenda uno.

Presi il rettangolino di celluloide nero per proteggere la vista che mi porgevano con quella che definirei distrazione, se non si fosse trattato invece di qualcos’altro, di una specie di straniamento da stress: ero attaccato da più lati e trafitto dalla scomparsa improvvisa di un fratello in età ancora giovanissima per morire e cercavo di uscire da me stesso: se avessi trovato un passaggio per un universo ulteriore, l’avrei varcato. Fissavo senza pensare a niente lo scavo che aveva causato l’interruzione di corrente e pensavo che anche questa volta le cose sarebbero potute andare molto male, la scarica poteva ammazzare qualcuno, ma il manovratore del marteau piqueur in azione al momento dell’incidente, era illeso. Non ricordo perché. Fissavo il buco mentre il direttore di cantiere mi diceva: Archité, perché non rinunciamo a ‘sta scala?

Ok, rinunciamo, pensavo io, in fondo questa scala non serve poi così tanto

Il Giubileo è l’apocalisse a Roma -

Ma ormai tutti guardavano in alto, il cielo si oscurava, e una raffica fredda veniva giù da Villa Borghese, il traffico rallentava e quasi diminuiva, il sole era semispento e tutta una Roma pre-giubilare, che si preparava all’evento religioso era in quel momento sopraffatta da quello cosmico di un’eclisse di sole quasi totale. Seguitavo a fissare la buca della lesione elettrica: anche la tecno-città sotterranea aveva la meglio sulle nostre intenzioni di viventi. In realtà non pensavo niente. Giubileo, Muro pericolante, Chiusura di un’area di cantiere, Assessore incazzato, Buca con cavi ad alta tensione tranciati, Morte in seno alla mia famiglia (un’altra volta, un’altra maledetta volta) e adesso, cioè proprio in quel momento, la luna si frapponeva tra noi e la nostra stella, a schermarla nel soffio acido di aria fredda che si produceva, immagino, tra l’area in ombra e la superficie tutt’intorno ancora calda di agosto. In quel momento alzai lo sguardo e comparve il sole quasi coperto—era eclissi parziale—e il mondo circostante fu nell’ombra, nella quasi notte. Ebbi quel senso poetico di paura dell’eclisse, che provano in molti, forse tutti, e ovviamente di piccolezza cosmica. In ogni caso l’Universo extra terrestre era con noi, non ci aveva dimenticato, ci marcava stretto come fa da sempre. Tutto il terragno e il sublime di Roma provavano in quei momenti a ridimensionarsi e per qualche minuto ci riuscivano. 

Avrei potuto rilasciare il solito treno di considerazioni critiche sul Raduno imminente in onore del Reggitore dell’Universo, sull’idea stessa che se ne aveva, con successive modificazioni del tipo Padre, Figlio e l’enigmatico Spirito Santo, Madonna, Santi e Angeli e di conseguenza demoni: quindi, secondo la concezione della mia scuola di preti, Primo Creatore e nostro Sorvegliante fin nel più minuto dettaglio, elargitore di condanne per tutta la durata di tutti i tempi, magari a causa di un’innocente masturbazione, fatta prima di uscire di casa e morire con lo scooter in un incidente sull’Olimpica. Ma, preso da terrore preistorico & irragionevole per lo spegnersi del Sole, non dissi nulla.  

Francesco Pecoraro

Francesco Pecoraro è architetto, poeta, scrittore. Il suo ultimo libro si intitola Solo vera è l’estate (Ponte alle Grazie, 2023).

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