Il Medio Oriente spiegato ai ragazzi (e in verità anche agli adulti) - Lucy
articolo

Nicola Lagioia

Il Medio Oriente spiegato ai ragazzi (e in verità anche agli adulti)

In "Sulla mia terra" Francesca Mannocchi racconta ai ragazzi il conflitto tra Israele e Palestina attraverso le testimonianze di chi lo abita, riuscendo nella difficile impresa di restituire uno sguardo umano ed equilibrato su una delle questioni più complesse dei nostri tempi.

“Dopo il 7 ottobre, qualcosa dentro di me è cambiato. Ero arrabbiata, volevo vendetta”.

A parlare è Gili, una giovane israeliana di 21 anni che ha perso un amico al Nova Festival. Il suo racconto è affidato a Francesca Manocchi, tra le voci più serie, autorevoli del giornalismo di guerra contemporaneo.

“Sentivo una grande frustrazione”, continua Gili, “desideravo sfogarmi, trovare una sponda in qualcuno. La verità è che se cominci a farti troppe domande, qui, ti senti un alieno nel migliore dei casi e rifiutato nel peggiore”.

Questa testimonianza, come molte altre, raccolte tra donne, uomini, ragazze e ragazzi, tanto israeliani quanto palestinesi, è contenuta in Sulla mia terra, il libro di Francesca Mannocchi uscito da poco per De Agostini, in cui l’autrice prova a fare qualcosa di molto difficile ma estremamente prezioso: raccontare a un pubblico di ragazzi cosa sta succedendo in questi mesi in Palestina e nello stato di Israele, e cosa è successo in passato, dalla Dichiarazione di Balfour del 1917 con cui il governo britannico si impegnò a creare in Palestina un “focolare nazionale ebraico”, a quest’ultima stagione di sangue.

“La mia famiglia non sa che sono qui in questo momento, ma non capirebbero”, dice Gili, “mio padre è un fedele elettore di Bibi (Netanyahu), un elettore classico. Per farti capire come sono stata educata ti dico questo: le frasi che sentiamo da quando siamo bambini sono cose del tipo: l’unico arabo buono è quello morto. È difficile avere dei dubbi, quando intorno a te tutto disumanizza le persone che hai vicino”.

Così, dopo la morte del suo amico il 7 ottobre, Gili si è sentita per qualche tempo emotivamente vicina alla narrazione governativa. Era arrabbiata, frustrata. Solo che poi, nelle settimane successive, sono iniziate ad arrivare le immagini da Gaza, e Gili è stata ancora più male. Che senso aveva il massacro di decine di migliaia di civili, la maggior parte delle quali donne e bambini? In lei è scattato qualcosa.

“Niente di quello che vedevo mi sembrava una risposta a ciò che avevamo subito. E così ho pensato: io queste persone non le conosco. Sono stata educata a credere che non fossero esseri umani come noi. E quando questo processo prende avvio dentro di te, quando capisci che per tutta la vita ti hanno insegnato che i palestinesi sono esseri umani diversi, cattivi nel profondo, ecco, è uno shock”.

Così Gili ha fatto una mossa che non avrebbe immaginato di compiere: è andata in Cisgiordania, tra le comunità beduine. “Non c’ero mai stata prima, capisci? È questo il punto principale del problema: ho vissuto ventun anni come se questo posto non esistesse. Solo ora mi rendo conto davvero cosa significa tre milioni di persone. Ci sono tre milioni di persone, qui, sono miei vicini, condividiamo la stessa terra e io, semplicemente, non li avevo visti. Mi hanno educata a pensare che questo posto appartenga a me, e solo a me. Poi sono arrivata qui e ho capito che non è così. Ho capito di cosa siamo responsabili anche noi: abbiamo chiuso le loro strade, gli abbiamo strappato la terra, gli togliamo l’acqua. E mi sono detta: Cosa avresti fatto, Gili, se l’avessero fatto a te o alla tua famiglia?

Non riuscire a vedere (cioè a sentire) ciò che è a due passi può essere il culmine di un degradante processo di alienazione. Ma cosa accade quando non riusciamo più a sentire (e questi siamo noi) addirittura ciò che vediamo, come sta accadendo adesso con i massacri dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, perpetrati quotidianamente dal governo di Israele, e come è successo (l’umanità a senso unico è corresponsabile dello stallo retorico in cui è incastrata questa tragedia) con i massacri degli ebrei d’Israele e il rapimento degli ostaggi perpetrato da Hamas il 7 ottobre?

La testimonianza di Gili è toccante, significativa, offre un po’ di speranza. Decisamente più drammatica è la vicenda di Yahya Idais, sempre raccontata da Mannocchi in questo libro. Yahya è palestinese, vive a Hebron, il secondo centro più grande della Cisgiordania. Hebron è divisa in due settori. Il primo è controllato dall’ANP (Autorità Nazionale Palestinese). Nel secondo settore l’ANP gestisce l’amministrazione dei residenti palestinesi, ma l’esercito israeliano controlla tutto il resto, compresi i movimenti dei palestinesi.

“Non riuscire a vedere (cioè a sentire) ciò che è a due passi può essere il culmine di un degradante processo di alienazione. Ma cosa accade quando non riusciamo più a sentire (e questi siamo noi) addirittura ciò che vediamo”

Yahya ha un negozio di pane e dolci a Hebron, e ha due figli. Un giorno del 2022 era seduto fuori da casa sua. Un colono è passato in auto, ha abbassato il finestrino e gli ha sputato in faccia. Poi è tornato indietro e gli ha lanciato addosso una bottiglia. Dopo il 7 ottobre, racconta Yahya, gli attacchi dei coloni ebrei contro i palestinesi a Hebron si sono intensificati. I padri vengono insultati e picchiati davanti ai propri figli. Uno dei due figli di Yahya, Hamdi, ha quindici anni e soffre di distrofia muscolare. Un giorno Hamdi è caduto dalla carrozzella. Yahya ha ricevuto una telefonata da sua moglie. Gli chiedeva di tornare a casa, aveva bisogno del suo aiuto per sollevare il figlio dal pavimento. Yahya è uscito di corsa dal lavoro, ha raggiunto il checkpoint, ha chiesto e poi implorato i soldati israeliani di lasciarlo passare nonostante non fosse orario di apertura. “Go back”, è stata la risposta.

Quando, ore dopo, Yahya è tornato a casa, ha trovato sua moglie che piangeva e il figlio ancora a terra.

“I nostri figli stanno crescendo con i coloni in strada pronti a spararci contro”, dice Yahya, “con padri dietro le sbarre di un checkpoint che non possono correre da loro, padri a cui i coloni sputano addosso. E nessun padre dovrebbe provare cosa significhi essere umiliato di fronte al proprio figlio”.

Le testimonianze (tante, significative, capaci di farci provare sentimenti di vicinanza che le cronache riducono spesso dentro di noi a statistica) sono solo una parte del lavoro di Mannocchi. Come scrivevo, si tratta di un libro destinato a un pubblico di ragazzi, ma questo è un espediente molto saggio perché il suo potere rischiaratore sortisca effetti su chi, poco informato sulla storia del Medio Oriente (come è normale che siano degli studenti di scuola media e superiore), a differenza degli studenti rischia di trasformare questa ignoranza in un pericoloso pregiudizio: noi adulti, che in questi mesi spesso ci agitiamo, e intossichiamo il discorso pubblico, specie sui social, senza conoscere in profondità le vicende su cui pure pretendiamo di avere opinioni granitiche.

Come accade nei libri di scuola, le narrazioni più dettagliate si alternano a schede tematiche e cronologiche capaci di ricostruire in modo chiaro la storia di Israele e Palestina. Cosa sono i kibbutz; cos’è la striscia di Gaza e come sopravviveva la sua popolazione prima del 7 ottobre; cos’è il sionismo; come nasce lo stato di Israele; cos’è la Nakba; cos’è stata la Guerra dei sei giorni; cosa è stata la prima e la seconda intifada; come nasce e cos’è Hamas; come si è potuti arrivare al disastro di oggi dopo gli accordi di Oslo; cosa sono i territori occupati; come funziona la leva militare nello stato di Israele; cosa sono i campi profughi… Questi e molti altri argomenti vengono montati sapientemente tra le testimonianze di prima mano rendendo il racconto progressivamente più chiaro, istruttivo, efficace. Ma aver scritto questo libro per i ragazzi consente soprattutto a Mannocchi di utilizzare una cifra capace di scardinare con grazia e semplicità la rigidezza (mentale ed emotiva) dei suoi destinatari segreti, sempre gli adulti. Salvo custodire in sé un cinismo abnorme, e non è certo il caso di Mannocchi, non si può mentire a dei ragazzi, e così questo imperativo pedagogico spoglia il discorso di quegli orpelli emotivi e di quelle tentazioni seduttive che, insieme, falsano spesso i migliori tentativi di capire e far capire.

Dal 7 ottobre – nel caos che è diventato il discorso pubblico su Palestina e Israele – cerco a mia volta di capire che cosa sta succedendo affidandomi a chi ne sa più di me, a chi ha studiato a lungo questi temi, a chi conosce la Palestina e lo stato di Israele per esserci stato, a chi sta continuando ad andarci in questi mesi terribili. Ho trovato in alcune voci delle guide a cui mi sento di essere grato. Una di queste è Francesca Mannocchi. Un’altra è Paola Caridi, che avevo intervistato su Lucy all’inizio del conflitto. Un altro è Alberto Stabile, corrispondente per anni da Israele, Russia e Medio Oriente, che ha pubblicato di recente per Sellerio un libro molto bello, “Il giardino e la cenere”. Un’altra ancora è Anna Foa, storica molto stimata, ebrea della diaspora, primogenita di Vittorio Foa, nipote del rabbino capo di Torino, sodale di Natalia Ginzburg e di Norberto Bobbio. Foa ha avuto lunghi soggiorni in passato nello stato di Israele, e adesso ha pubblicato per Laterza un libro dal titolo eloquente, Il suicidio di Israele. Segnalo il video di una conversazione avvenuta di recente su questo tema tra Anna Foa, Giorgio La Malfa, e l’ambasciatrice Laura Mirakian, già Capo missione a Belgrado durante le guerre balcaniche.

Leggendo queste autrici ho cercato di darmi qualche punto fermo per provare a orientarmi ed evitare di essere trascinato nella tempesta di disinformazione e fanatismo che intossica le nostre discussioni. Più che punti fermi, sono punti di partenza da cui provare a muoversi. Ne elencherò qualcuno. Condannare fermamente i massacri del 7 ottobre perpetrati da Hamas e chiedere il rilascio immediato degli ostaggi non significa giustificare la reazione spropositata del governo di Israele. Considerare Benjamin Netanyahu e i suoi dei criminali di guerra, e l’attuale governo di Israele indegno di una democrazia, non significa essere antisemiti. Condannare Hamas non significa essere islamofobi. Essere antisionisti (anche se i sionismi sono molti, bisognerebbe intendersi) non significa essere antisemiti, ma le due cose possono coincidere. L’antisemitismo si sta risvegliando in Occidente. Una parte di responsabilità è ascrivibile all’attuale governo di Israele, ma è una responsabilità condivisa con diversi oppositori di Netanyahu e del suo governo, nelle democrazie d’Europa e degli Stati Uniti, spesso provenienti da ambienti progressisti. Anche l’islamofobia non ha mai cessato di esistere, e anche qui le responsabilità non sono univoche. Il 7 ottobre ha risvegliato, nelle frange più estremiste e fanatiche del governo di Israele, la tentazione di annettersi parti sempre più vaste della Cisgiordania, costi quel che costi, cacciando o uccidendo in modo criminale la popolazione civile palestinese, o trasformando Israele in uno stato simile al Sud Africa dell’apartheid. Condannare il governo di Israele per come sta massacrando i civili palestinesi non significa dimenticare quanto, con la tragedia della popolazione palestinese, stia giocando cinicamente uno stato come l’Iran. Difficilmente la tragedia in atto potrà concludersi senza un’interlocuzione tra le potenze locali (Giordania, Egitto, Siria, Iran, Turchia) e quelle internazionali (Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Russia). Questa auspicata interlocuzione, per adesso, sta funzionando male o non sta funzionando affatto.

Mentre scrivo, «L’Osservatore Romano», il giornale del Vaticano, intervista Idan Landau, professore di linguistica all’Università di Tel Aviv, il quale firma anche una lunga inchiesta su «il manifesto» dove descrive più diffusamente il “Piano dei generali”, attraverso il quale il governo di Israele sta rischiando nei fatti (fatti dentro cui dolo e colpa giocano a rimpiattino), di perpetrare lo sterminio della popolazione palestinese a nord di Gaza.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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