Il Mostro di Firenze è ancora tra noi - Lucy
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Ivan Carozzi

Il Mostro di Firenze è ancora tra noi

Da caso di cronaca, la vicenda del Mostro di Firenze si è trasformata negli anni in una saga multimediale, dove i confini tra verità processuale, finzione, dietrologia e teorie del complotto sono sottili e ingarbugliati. Tra libri, podcast, canali YouTube, c’è una comunità di fan molto attiva che non smette di interrogare il passato e riscrivere la storia.

Il 14 novembre 2023 sono apparse nel centro di Firenze alcune automobili d’epoca. Facevano parte del set di una serie Netflix sulla famigerata vicenda del Mostro. Un cronista di un quotidiano locale, «La Nazione», forse uno dei tanti che seguono la storia del mostro da sempre, ha notato la presenza di un attore vestito da portalettere con tanto di borsone a tracolla. Si trattava probabilmente del postino che nel 1985 aveva recapitato una busta alla magistrata Silvia Della Monica. Nella busta era contenuto un pezzo del seno di Nadine Mauriot, turista francese di 36 anni, uccisa insieme al compagno in una località nota come gli Scopeti. 

Chi scrive è nato e cresciuto in Toscana, a pochi chilometri dal confine con la Liguria. Moltissimi anni fa – avevo sì e no quattordici anni – insieme a un gruppo di amici (fra cui, ricordo, un surfista cintura arancione di karatè full-contact) andai per un weekend a Firenze. Eravamo una decina, ospiti nella villa neoclassica del nonno di un amico, ex direttore di banca, origini venete, che insieme alla moglie si era stabilito fra oliveti e vigneti, sopra una delle colline che abbracciano Firenze.

Per raggiungere la villa dalla stazione Santa Maria Novella dovemmo risalire più di un tornante. Ho ancora viva nel corpo la sensazione della città che si allontanava alle mie spalle. Ci trovavamo nelle zone in cui il Mostro aveva colpito, anche se all’epoca, ormai, il Mostro non uccideva più da un pezzo. La serie dei delitti si era conclusa nel 1985 – otto coppie uccise a partire dal 1968. Il Mostro non avrebbe mai più colpito, ma noi non lo sapevamo. La possibilità che il Mostro fosse ancora in agguato non era da escludere. Non ricordo se la villa fosse proprio dalle parti della frazione di campagna degli Scopeti oppure nelle vicinanze di Vicchio o di Montespertoli, dove si trovavano le altre piazzole frequentate di notte dalle coppiette ed entrate nella storia del mostro. 

Era finita da poco la scuola, probabilmente eravamo nel mese di giugno. Del 1988? Oppure del 1989? Di fronte a noi c’erano l’inizio dell’estate e la prospettiva di tre mesi di mare. Giornate lunghissime e il buio che sembra non arrivare mai. Giugno, però, era anche altro. Non era un periodo qualsiasi del calendario, ma un intervallo carico di presagi, una delle finestre scelte dal Mostro per colpire, dato che il Mostro aveva colpito sette volte su otto fra gli ultimi giorni di primavera e l’estate: due volte in giugno, una volta in luglio, una in agosto, tre volte in settembre (nei giorni 8, 9 e 14). Solo una volta aveva agito in ottobre, lontano dai mesi caldi.

Dovrei scrivere ai partecipanti al weekend fiorentino e chiedergli che ricordo abbiano, dopo tanto tempo, di quel lontano fine settimana e se anche a loro capita ogni tanto di passare le serate a cercare aggiornamenti sul caso del Mostro di Firenze. Tendo a credere che sia soprattutto una mia fissazione. Sono io che faccio parte della cosiddetta comunità mostrologica.

In ogni caso, nonostante fossimo cresciuti a una certa distanza dalla campagna fiorentina, è innegabile che all’epoca fossimo tutti un po’ contagiati dalla paura, dalla psicosi, anche per colpa dei titoloni sui giornali locali e del circuito delle tv private che trasmettevano in Toscana. RTV 38. Tele Granducato. Tele Versilia. Teleregione Toscana. Bastava che l’orecchio venisse sfiorato dalla parola “Firenze” e subito il cervello pensava “Mostro di Firenze”.

Era un trigger; nel mio caso funziona ancora. La tentazione di mettere nei polmoni la stessa aria respirata dal Mostro, di poggiare le scarpe in una delle piazzole dove le coppiette si appartavano e di provare quel panico, il vero brivido da mostro di Firenze, ci spinse un sabato notte a uscire in campagna, a piedi, con le torce spianate a camminare lungo un sentiero polveroso e scricchiolante, poi per colpa di un improvviso fruscio tra i cespugli, però, ce ne tornammo a casa, di corsa, spaventati a morte.  

“Ho ancora viva nel corpo la sensazione della città che si allontanava alle mie spalle. Ci trovavamo nelle zone in cui il Mostro aveva colpito”.

La serie Netflix, con la regia di Stefano Sollima, è il punto culminante di una notevole mole di narrazioni nate intorno alla vicenda tra la fine degli anni Ottanta e oggi. Film, trasmissioni e serie tv, podcast, dirette YouTube e un numero incalcolabile di libri inchiesta, usciti per case editrici grandi, piccole e piccolissime, ciascuno impegnato a rispolverare un frammento, a scoprire una nuova pista o a riscoprirne una vecchia che qualche magistrato avrebbe preso sotto gamba.

Molti anni fa ho letto un libro inclassificabile, una specie di romanzo dal titolo Un amore all’inferno, un testo spiazzante, non tanto per la sua qualità, ma per il contenuto.

Lo ha scritto Diego Cugia, giornalista e autore radiofonico di successo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila. Un amore all’inferno era uscito nel 2005 per la collana Strade Blu di Mondadori, la stessa collana che l’anno seguente mandò in libreria Gomorra di Roberto Saviano. Un amore all’inferno e Gomorra avevano un’ambiguità in comune: non era chiaro dove iniziasse la finzione e dove finissero la verità e i fatti. 

Provo ora a mettere insieme i ricordi relativi alla trama di Un amore all’inferno, che all’epoca mi aveva tanto turbato: un uomo, l’autore del libro, percorre un tratto di autostrada da qualche parte in Toscana, quando a causa della pioggia è costretto a uscire al primo casello e a rifugiarsi in un albergo. Nella sala da pranzo dell’albergo siede da sola una bella e misteriosa signora. L’uomo decide di farsi avanti e le propone di cenare insieme. Fuori infuria la tempesta. La donna accetta e, mano a mano che la cena prosegue, racconta all’uomo la storia della sua vita e del suo infelice matrimonio. Da ragazza era stata sposata con un brillante medico, un gastroenterologo perugino.

Nel 1985 il cadavere del medico era stato ritrovato sul fondo del lago Trasimeno. La pioggia, intanto, ticchetta sui vetri dell’albergo. L’uomo ascolta, la donna si confessa. È a partire dalla misteriosa morte del marito che la donna comincia a sospettare. Forse il marito aveva una vita parallela, di cui lei era all’oscuro, a differenza della ricca e influente famiglia di lui, che invece qualcosa sapeva. La donna si sente ingannata, inizia a credere che il marito possa aver fatto parte di una setta, che sia stato coinvolto in una spaventosa trama di relazioni occulte collegate ai delitti del mostro di Firenze e che addirittura possa essere lui il mostro di Firenze. Perciò viene ostracizzata dalla famiglia del marito, la quale si serve dell’aiuto di poteri indicibili e sotterranei per isolare e allontanare la donna.

Alla fine della cena in albergo, se non ricordo male, tra l’uomo e la donna c’è un bacio sulle labbra. Un bacio? Possibile? Sì, così mi pare. Questi sono i miei ricordi di lettore per come si sono conservati nella mente. Il medico di Perugia era Francesco Narducci, oggetto di note inchieste giudiziarie e persona, si dice, dotata di fascino, tipo aitante, sportivo, fronte spaziosa e pettinatura con riga da una parte, da bello dei fotoromanzi.

Il Mostro di Firenze è ancora tra noi -

Una volta finito il libro di Cugia, mi chiesi – e me lo chiedo ancora oggi – come fosse possibile che quel volume esistesse, che fosse stato messo tutto nero su bianco, se non grazie al racconto, alla confessione e al consenso della vera moglie di Narducci, una donna che, dopo essere stata ascoltata dai magistrati della procura di Perugia, non ha più rilasciato dichiarazioni ed è poi completamente scomparsa dalle cronache. Non avendo mai smentito il libro di Cugia, doveva essersi davvero convinta di aver fatto parte, suo malgrado, di una vicenda oscura e molto più grande di lei. All’epoca aveva appena venticinque anni. E in effetti il libro era stato scritto con la sua collaborazione.

Oggi, ripensandoci, mi pongo un’altra domanda: quella donna era davvero venuta a conoscenza di una realtà indicibile, come sostengono in molti? Se fosse così, si aprirebbe uno squarcio su un sostrato innominabile della storia italiana. Oppure quella donna era la vittima di un contagio psichico, che tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta si sarebbe diffuso in Toscana e allargato a macchia fino all’Umbria, come conseguenza della serie dei delitti irrisolti del mostro di Firenze, un contagio che oggi sembra l’antipasto di altri contagi e teorie del complotto, che hanno condizionato la storia degli ultimi due decenni?  

Fra il 2022 e il 2023 sono usciti due romanzi letterari come Il mostro di Alessandro Ceccherini (Nottetempo) e Il capro di Silvia Cassioli (Il Saggiatore), mentre per Mimesis è in corso di pubblicazione MDF, un’opera monumentale in tre volumi, che ambisce a diventare una summa, una storia di tutte le storie del mostro. Matteo Renzi, ex sindaco di Firenze, ha ironicamente intitolato Il mostro un libro nel quale racconta le inchieste giudiziarie di cui lui e la sua famiglia sarebbero rimasti vittime. A febbraio 2024 uscirà un nuovo libro, Narciso cacciatore. Un’ipotesi sul mostro di Firenze, di Cristiano Demicheli, dove l’ipotesi è che il mostro possa essere stato un pluripregiudicato pratese.

Ma la vera stranezza scaturita dal caso del mostro di Firenze è la nascita e la proliferazione in questi anni di una numerosa e attivissima comunità di studiosi e ricercatori indipendenti, radicata soprattutto in Toscana, molto difficile da riassumere e censire, a causa della sua notevole estensione e della sua grande varietà di espressioni. 

È la cosiddetta “comunità mostrologica”. Della comunità mostrologica fanno parte non solo giornalisti e investigatori, ma soprattutto privati cittadini, persone comuni che hanno accumulato nel tempo una conoscenza enciclopedica del caso, compiono pellegrinaggi (anche notturni) nei luoghi degli omicidi, hanno fondato canali YouTube, s’intervistano l’uno con l’altro, organizzano convegni e ogni giorno lasciano in rete decine di commenti e speculazioni. Al gruppo Facebook “Il Mostro di Firenze” si deve la posa di una lapide commemorativa (poi vandalizzata) nella piazzola degli Scopeti: “A Nadine et Jean-Michel qui n’existent plus. A la justice qui n’a jamais été rendue”.

La comunità mostrologica è capace di memoria e compassione. Anche di quelli come me, che si limitano a leggere e consumare passivamente contenuti su YouTube, si può dire che facciano parte della comunità. Di sicuro la nutrono con i propri click. Così come ne sono membri alcuni diretti testimoni della vicenda. Si tratta di persone tormentate da dubbi che possono riguardare anche la propria sfera famigliare. 

È il caso di un certo Alessio Zazzi, intervistato sul canale YouTube “I mostri di Firenze”. L’ipotesi di Zazzi è estrema e surclassa altre tesi fantasiose circolate nel corso del tempo, come quella che vide un possibile mostro di Firenze in uno scrittore Premio Strega, Alberto Bevilacqua. Zazzi infatti sospetta che il proprio padre, Benito, ormai defunto, possa essere stato il mostro di Firenze. Lo ha dichiarato durante una diretta YouTube. Luciano Malatesta, invece, è il figlio di una donna, Antonietta Sperduto, amante di Pietro Pacciani e Mario Vanni, due dei principali protagonisti della saga del mostro. “Amante” non è probabilmente il termine corretto in un rapporto fatto di violenze e minacce. Su YouTube si trovano alcune lunghe testimonianze di Malatesta. Sembra una persona spezzata dal trauma. I video mi colpiscono per il candore e in un certo senso anche per lo smarrimento e il tono d’incredulità. Malatesta, infatti, sembra faticare ad accettare che quello che è accaduto alla sua famiglia sia la realtà e non un incubo. La sua vita è stata travolta da una serie di lutti ed è costellata di episodi sulfurei. Si sente una pedina in un gioco oscuro e più grande di lui. Il padre s’impiccò nel 1981, però Malatesta sospetta che si trattò di una messa in scena. I piedi erano appoggiati sulla sedia. La sorella e il nipotino di Malatesta fecero a loro volta una bruttissima fine: bruciati all’interno dell’automobile di lei. Malatesta sostiene si sia trattato di un omicidio. Il suo dubbio è che sia il padre che la sorella vennero puniti perché sapevano troppo e che la congrega formata da Pacciani, Vanni e dagli altri compagni di merende fosse manovrata da personaggi ricchi e potenti, tra cui il magistrato Pier Luigi Vigna, che fu tra i più importanti inquirenti nel caso del mostro. 

Tutta l’infanzia è letta a ritroso da Malatesta, che riscopre qua e là, nella battuta di una zia o della mamma, gli indizi dell’affiliazione a un giro di personaggi invischiati tanto con la magia nera e i filtri d’amore, che con pratiche sessuali turpi. Sono scenari romanzeschi, inimmaginabili, ma bisogna riconoscere che la storia del mostro, se guardata da vicino, è un vero abisso e risulta ben più variopinta e ramificata di quanto non dica la serie degli otto omicidi.

Ci troviamo in un territorio raccapricciante, ma pure elettrizzante, conturbante, perché insinua in noi l’idea che la vita non è una mera sequenza di giornate, dal lunedì al sabato, che la realtà non è lineare, che non si riduce alla norma, alla quotidianità. Al contrario, accanto a noi potrebbero esistere individui e situazioni fuori dall’ordinario. La notizia della loro esistenza soddisfa una sete di mostruoso e meraviglioso, che in fondo è qualcosa di santo che vive dentro di noi. 

“Della comunità mostrologica fanno parte non solo giornalisti e investigatori, ma soprattutto privati cittadini, persone comuni che hanno accumulato nel tempo una conoscenza enciclopedica del caso”.

Se questa cerchia di amatori e studiosi si fosse sviluppata in ambito accademico, forse avremmo parlato di “Mostro studies”. Chi ne fa parte ha preferito autodefinirsi “comunità mostrologica”, con una punta di autoironia e di goliardia. Del resto la vicenda si ambienta in Toscana e di mezzo ci sono pur sempre il corpo, le parti intime, il sesso.

Per fornire un quadro di quanto la comunità mostrologica sia un vero fenomeno dell’Italia contemporanea, per restituire un’idea di quanto la sua macchina sia instancabile e produttiva, ricorrerò a un esempio. Mentre scrivo queste righe, la sera del 17 gennaio 2024, apro il motore di ricerca di YouTube e cerco tutti i contenuti video con tag “Mostro di Firenze” pubblicati nella settimana precedente. Ecco un elenco (incompleto): 1) “Costruire il mostro: follie di un’indagine italiana”; 2) “Mostro di Firenze-La Lettera anonima a Paolo Vagheggi”; 3) “Leviamo la maschera al mostro di Firenze”; 4) “Mostro di Firenze-I ragionamenti degli anonimi sul web”; 5) “L’equazione del mostro di Firenze-Mesmer in pillole 348”; infine 6) “Maratona di lettura sul mostro di Firenze”. Quest’ultimo contenuto è un video di oltre nove ore. Non solo. Il 18 gennaio cerco notizie su Google News e trovo un articolo di Marco Cicala su Repubblica: “L’impronta dimenticata del mostro di Firenze”. Riguarda un nuovo, ennesimo libro, Quando sei con me il Mostro non c’è: Il Mostro di Firenze fuori dal buio, del detective-YouTuber Antonio Segnini, produttore di software di origini maremmane, ma residente in Brianza.

L’aspetto più interessante del fenomeno della comunità mostrologica è la trasformazione della vicenda del Mostro di Firenze in un vaso di Pandora del genere giallo e true crime, in una miniera di contenuti, la cui produzione, però, non ha finalità industriali e commerciali, ma ha caratteristiche deliziosamente amatoriali e scopi puramente investigativi e speculativi. È cultura popolare. È folclore. È mito. È letteratura. È la vera cultura dal basso, che non si costruisce in base ai desideri delle accademie, ma cresce spontanea e selvaggia tra internet e mondo off line

Nella comunità mostrologica non lavorano veri e propri professionisti della criminologia e affini, ma amatori divorati da private ossessioni e passioni. I mostrologi hanno scelto d’impegnare un pezzo della propria vita in un’opera senza fine di scavo e approfondimento, forse anche perché coinvolti nella elaborazione di vissuti personali che si fondono al trauma collettivo del mostro di Firenze. Ci vorrebbe un bravo antropologo culturale per studiare la realtà della comunità mostrologica.

Il Mostro di Firenze, inteso come oggetto di studio e racconto, come categoria di contenuti internet, è in un certo senso paragonabile a un cibo, a una leccornia, a un trancio di materia succulenta che non cessa di suscitare appetito nel suo affezionato consumatore. A ogni morso la carne del mostro secerne nuovi aromi prelibati, una nuova chimica, insieme al piacere rassicurante dei sapori già noti; la carne del mostro nutre e al tempo stesso intossica, produce dipendenza, così che il fruitore non può sottrarsi alla tentazione di aprire il frigo e togliere dall’incarto quell’alimento inesauribile, che mai lo delude, ma neppure lo sfama del tutto.

Se sottoponessimo la carne del Mostro a una specie di esame nutrizionale, probabilmente noteremmo che, nascosti fra le sue masse muscolari, si trovano umori anni Settanta, Ottanta e Novanta italiani, un insieme pasticciato di memorie pubbliche e private, una certa abbondanza d’ingredienti eccitanti legati al sesso, al tabù, ma pure una grande quantità di sapori collaterali, di squisitezze aromatiche provenienti dal mondo contadino e da quel pezzo ancestrale d’Italia che è Firenze, con il suo dialetto magnifico e le quinte teatrali delle sue colline e della sua campagna. 

Nel podcast “Il mondo delle meraviglie” viene confrontato lo stile di Pietro Pacciani, che fu pittore dilettante, con quello di Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano, accusato di far parte dei compagni di merende e, come il primo, pittore autodidatta. Secondo gli autori del podcast, la pittura di Pacciani è mistica e figurativa. Sacro e profano si toccano in modo osceno, “batailliano”. Calamandrei, al contrario, è un pittore astratto. Pare firmasse i quadri, a volte, con la serie del codice fiscale, a volte con il numero di Partita Iva, forse per sottolineare il carattere impersonale del proprio stile. 

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Tra le voci più originali della comunità mostrologica spicca quella di Francesco Maria Petrini, anche noto come Francis Trinipet. Nato a Firenze nel 1975, storico antichista e filologo latinista, fondatore del canale YouTube Jordanerocks, Petrini-Trinipet negli anni ha macinato ore e ore di dirette YouTube. È autore di uno studio pionieristico sul mondo clandestino dei guardoni fiorentini degli anni Settanta, ambiente spesso frequentato da simpatizzanti dell’estrema destra. Secondo Petrini il mondo dei guardoni fiorentini prosperò anche in reazione al nuovo clima culturale di quel tempo. Da una parte c’era infatti l’emancipazione femminile, dall’altra l’eccitazione fisica prodotta dall’esplosione della pornografia in edicola.

Probabilmente non c’entra nulla, ma un giorno, durante un incontro pubblico con lo scrittore Tiziano Scarpa, è stata proiettata una foto in bianco e nero che mi ha fatto ripensare a questa forma di eccitazione basata sull’organo della vista, che caratterizza la parafilia dei guardoni. Si tratta di una celebre foto, scattata nel 1951 da Ruth Orkin nel centro storico di una città italiana.

È una di quelle foto che finiscono attaccate alle pareti delle pizzerie napoletane o delle trattorie di Trastevere, per magnificare l’Italia del dopoguerra e del boom. Nella foto una turista americana, una bella ragazza, percorre un ampio marciapiede, raggiungendo l’incrocio fra due strade. Intorno ci sono bar e locali. Dev’essere estate o primavera. Il passaggio della donna è intercettato dallo sguardo di ben quindici uomini, di età diverse, disposti in punti diversi dello spazio.

C’è chi le fischia dietro con volgarità evidente, chi le sorride, chi la soppesa come un giudice in un concorso di bellezza, chi la contempla sconsolato o chi insiste nel guardarla da lontano, prima che la turista inevitabilmente si dilegui, come un’apparizione che fugge. Sembra la classica foto della dolce vita romana. Non è così. La foto venne scattata a Firenze, ha detto Scarpa. Subito, vedendola, ho pensato al Mostro. 

Non credo che mi rifarò vivo con il gruppo di amici che molti anni fa, una notte di giugno, si presero un brutto spavento e scapparono con le torce in mano, per la paura di essere incappati nel Mostro di Firenze in carne e ossa o forse in un losco guardone appostato tra i cespugli, pronto a spiare tra le foglie l’amplesso di una coppietta. Non avrebbe senso. O meglio, non vorrei scoprire di essere l’unico, tra i partecipanti al weekend fiorentino, a cui capita ogni tanto di fermarsi a pensare al Mostro. Varrebbe come la conferma di un fatto: eravamo diversi l’uno dall’altro e forse nemmeno allora aveva avuto molto senso frequentarsi.

Al contrario, scrivendo questo testo, mi è tornata voglia di riaprire Una stagione all’inferno, il libro di Diego Cugia letto all’epoca della sua uscita.

Volevo accertarmi di un ricordo, verificare se quel bacio conclusivo tra il protagonista e la vedova del medico morto in fondo al lago Trasimeno corrispondesse alla realtà della pagina o fosse, invece, il frutto di una fantasia retrospettiva. Davvero si erano baciati? E se nel libro si erano baciati, se cosi stavano le cose, allora anche in questo caso la moglie del medico non era corsa a smentire l’autore del libro.

Riassumendo: un noto autore radiofonico, Diego Cugia, fabbrica una storia di finzione, una trama posticcia, in modo da poter raccogliere su carta la confessione della vedova di un uomo che molti sospettano essere stato, se non proprio il mostro, quantomeno un membro della setta complice del mostro.

“Accanto a noi potrebbero esistere individui e situazioni fuori dall’ordinario. La notizia della loro esistenza soddisfa una sete di mostruoso e meraviglioso, che in fondo è qualcosa di santo che vive dentro di noi”. 

Alla fine del libro, nel cuore della notte, i due si baciano. Sono incline a credere che il libro si chiuda per davvero con quel bacio inatteso. Il cuore, il corpo, mi ricordano che all’epoca, leggendo, quella donna mi aveva sedotto. Me n’ero sentito attratto, mi era parso di sedere di fronte a lei, al tavolo di quell’albergo deserto, mentre fuori pioveva. Ricordo gli occhi di lei che mi guardavano, la luce bassa, le posate sul tavolo.

Peccato però, perché quando l’ho cercato, non ho trovato più il libro in casa. Perciò sono andato a controllare nel sistema bibliotecario milanese. Ho trovato una copia conservata presso la biblioteca Gallaratese, che si trova all’estrema periferia nord di Milano.

Ho preso la linea rossa della metropolitana, direzione Rho Fiera, sono sceso alla fermata Bonola e nel giro di dieci minuti sono arrivato di fronte alla porta a vetri della biblioteca, proprio accanto all’ingresso di un grande centro commerciale, con i pavimenti lucidi in gres porcellanato e le luci artificiali.

Ho preso un caffè, per rimandare di qualche minuto l’incontro col libro, quindi sono entrato in biblioteca, mi sono diretto alla lettera “C” dello scaffale, ho preso il libro, era molto vecchio, l’ho sfogliato, poi senza troppa fretta sono andato all’ultima pagina e lì ho trovato conferma. La pagina era scritta male, questo lo avevo scordato, ma il bacio era vero e non lo avevo dimenticato.   

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è giornalista, scrittore e autore tv. Ha curato la raccolta Che traccia hai scelto? (Utet, 2023).

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