In difesa del bad trip - Lucy
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Carlo Mazza Galanti

In difesa del bad trip

Negli ultimi tempi la riscoperta dei benefici di LSD e funghi allucinogeni, anche in campo medico, ha portato a parlare di "rinascimento psichedelico". Facendo troppo spesso dimenticare l'ambiguità di queste sostanze, che producono visioni e stati alterati dove divino e demoniaco sono inseparabili. Ma, in fondo, è proprio il loro lato oscuro a renderle interessanti, come dimostrano decine di libri, film e opere d'arte.

Swim mi racconta spesso dei suoi viaggi mentali. Sono cose che trovo agghiaccianti. Per esempio poche sere fa, davanti a una birra, Swim ha cominciato a parlare di una dimensione sconosciuta dove si sarebbe trovato durante un’esperienza psichedelica:

“un fluire turbolento e colorato dove il mio io sembra fondersi, sparire, conservare appena una scintilla di individualità senza la quale non saprei neanche ricordare quello che sto dicendo, ma è come un residuo malinconicamente disperato. Sono in un altro mondo, un mondo che non ha nulla a che fare con la realtà, con la mia famiglia, mia figlia, i miei amici, il mio lavoro, e che in un certo senso li vanifica tutti, li fa apparire come un semplice sogno. Tutto quello che conosco non esiste, non è mai esistito, è stato un’illusione. Ciò che conta, ciò che resta, è  l’irrequieto, infinito rimuginio di un’immane congerie psichica, di una marea transpersonale: un’eterna insonnia di tutte le coscienze della quale faccio ormai parte e come tutti, come tutto, devo fare la mia parte, cercando di assecondare lo sforzo, il pensare vuoto, ciclico, inutile che è l’unica e inesorabile attività di questo plasma infinito che qualcuno potrebbe chiamare dio”.

Il racconto di Swim è più lungo, dettagliato, e inquietante. Eppure lui sostiene che si tratti di un’esperienza altamente significativa. Mi ha confessato che, pur rabbrividendo ogni volta che ci ripensa, ha una gran voglia di tornare in quella specie di plasma divino.

Se è vero che certe sostanze psicoattive danno accesso a esperienze di tipo “mistico”, quella di Swim mi sembra una delle più credibili. Forse proprio perché fa paura.

Gli enteogeni sono una categoria di sostanze psicoattive che si suppone siano capaci di porci in una condizione tale da accogliere dio: da renderci “entusiasti”. Entusiasta, etimologicamente, è colui che custodisce dentro di sé il divino. Il termine “enteogeno” è stato coniato alla fine degli anni Settanta da alcuni studiosi di storia della religione e da etnobotanici statunitensi. Tra questi il più noto è Gordon Wasson, autore insieme a Carl A. P. Ruck e Albert Hoffman di La strada per Eleusi. Lì si sostiene la tesi secondo cui nella Grecia antica, durante i misteri eleusini, si facesse uso di ergot, il parassita delle segale da cui Hoffman stesso ha estratto la dietilamide dell’acido lisergico, LSD-25. 

“Gli uomini condividono molte emozioni con il regno animale, ma stupore, venerazione e timore di dio sono peculiari agli umani”, scriveva Wasson in un suo storico articolo pubblicato su Life, nel 1957. “Quando pensiamo al senso di beatifico stupore, estasi e carità che suscitano in noi i funghi divini, siamo incoraggiati a chiederci se non siano stati loro a impiantare nell’uomo primitivo l’idea stessa di dio”: siamo poco lontani dalle idee di Terrence McKenna, psiconauta tra i più gettonati della generazione successiva a quella di Wasson, secondo cui i funghi magici sono i responsabili di un salto evolutivo della specie umana, nella notte dei tempi. 

Wasson e McKenna, come si capisce, sono degli entusiasti. A differenza di McKenna, Wasson era anche un personaggio non privo di ombre: banchiere della JP Morgan, qualcuno sostiene che abbia indirettamente collaborato con MK ULTRA, il programma attraverso cui la CIA cercava applicazioni belliche per le sostanze psichedeliche. Di certo è Wasson ad avere conosciuto e reso famosa María Sabina, la sciamana messicana che gli fece per prima provare i funghi psichedelici. Pare che Sabina gli avesse proibito di divulgare la sua storia e le sue immagini ma Wasson lo abbia fatto comunque, spingendo verso la comunità della curandera una folla di hippie e turisti alla ricerca dello sballo divino con il risultato che la donna venne isolata dalla sua gente e trascorse gli ultimi anni in condizioni miserevoli. Il lato oscuro di una leggenda psichedelica (chi fosse interessato ad approfondire, può cercare Vita di María Sabina di Alvaro Estrada).

C’era una volta il colonialismo dei missionari cattolici che reprimevano gli usi di sostanze psicotrope (diverse dal vino) nei rituali delle popolazioni autoctone amerindiane. Ma anche l’esotismo degli entusiasti alla ricerca del misticismo premoderno ha veicolato, e forse ancora veicola, qualche forma di violenza neocoloniale.

L’aggettivo “enteogeno”, a quanto pare, sta vivendo oggi una seconda giovinezza: lo si preferisce ad altri – psichedelico, fantastico, allucinogeno, delirogeno, psicotomimetico – e appare spesso nei titoli di articoli scientifici e giornalistici dedicati a sostanze la cui definizione resta sfuggente, ma che facilmente s’avvicina ai terreni sdrucciolevoli dello spiritualismo. D’altronde anche il termine “psichedelico”, nella sua radice, trattiene un retaggio fortemente religioso: psiche-delein, rivelare l’anima. 

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Eppure, a scorrere una lista degli effetti farmacologici prodotti dalle sostanze visionarie appare abbastanza evidente come il beatifico stupore degli entusiasti sia una descrizione parziale dell’esperienza. Quando si parla di queste sostanze, al contrario, i mostri sono sempre dietro l’angolo. E non i mostri paventati dal moralismo dei proibizionisti ma quelli evocati dalle sostanze stesse: le epifanie tossiche sono costellate di figure sinistre.

Difficile, d’altronde, immaginare che la cosiddetta e tanto entusiasticamente invocata “ego-dissolution” (invocata peraltro da individui che spesso esibiscono ego tutt’altro che dissolti) consista in un gradevole sdilinquirsi nel cosmo panteistico. Una personalità che va a pezzi non è una passeggiata di piacere e straniamento; derealizzazione, pensieri paranoici, dissociazione, sono alcuni degli eventi a cui potrebbe andare incontro chi sceglie di introdurre nel proprio organismo certe molecole. Quasi certamente alla base dell’ottimismo, di ogni ottimismo, c’è una memoria fortemente selettiva. 

Per accorgersene basta sfogliare la bella rassegna letteraria di Scritti sulla/sotto droga di Sadie Plant (il suo saggio è stato pubblicato per la prima volta in Inghilterra negli anni Novanta, è arrivato da poco in Italia per Not nella traduzione di Clara Ciccioni). Tra De Quincey, Coledrige, Poe, Wilkie Collins, Doyle e molti altri, la storia delle droghe del diciannovesimo secolo (oppio soprattutto, ma non solo) sembrerebbe ridursi a una lunga sequela di bad trip. 

I paradisi artificiali di Baudelaire, e prima ancora Le confessioni di un mangiatore d’oppio di De Quincey, pullulano di visioni minacciose, comprese quelle in cui si concretava un orientalismo tipico dell’epoca, pieno d’immagini oscure e demoniache, che sarebbe sopravvissuto in forme edulcorate nel sincretismo hippie che dagli anni Sessanta del Novecento ha abitato, e ancora abita, gli immaginari lisergici. Ecco un brano prelevato direttamente dal saggio dello scrittore inglese (nella traduzione di Filippo Donini):

“Tutto questo, e molto più di quel che io possa dire, o abbia tempo di dire, il lettore deve metterselo bene in mente se vuole comprendere l’orrore inimmaginabile che suscitavano in me quei sogni pieni di visioni orientali, di torture mitologiche. (…) Ero circondato da occhi e smorfie di scimmie, da grida e schiamazzi di pappagalli e cacatoa. Correvo nelle pagode, e passavo dei secoli immoto sulla loro sommità, o in stanze segrete; ero l’idolo, ero il prete, mi adoravano, mi sacrificavano. Fuggivo dall’ira di Brama per tutte le foreste dell’Asia: Visnù mi odiava, Siva stava in agguato per me. D’improvviso ero dinanzi a Iside e Osiride: avevo compiuto un misfatto, mi dicevano, che faceva tremare gli ibis e i coccodrilli. Ero seppellito per mille anni in bare di pietra, con le mummie e le sfingi, in qualche stretta camera nel cuore di piramidi eterne. Mi baciavano, oh! I baci purulenti, i coccodrilli; e giacevo, confuso con le cose più viscide e schifose, tra i giunchi e il fango del Nilo”. 

Non si vuole sostenere la verità controintuitiva che le cosiddette “droghe” siano spiacevoli, semmai quella più sottile secondo cui numerose sostanze, e in particolare quelle capaci di produrre alterazioni che rientrano nello spettro degli effetti psichedelici (o enteogenici) debbano molto della loro attrattiva proprio agli incubi e ai succubi che inevitabilmente emergono dalle macerie della percezione “normale”. Credo insomma che il lato oscuro, mostruoso e inquietante di queste sostanze sia quello che, in qualche misura, le rende interessanti, e che da sempre questa sia una loro peculiarità, tanto nelle pratiche sciamanico-religiose delle culture tradizionali quanto nelle avventure mentali dei moderni psiconauti. 

Può sembrare una declinazione drogata dell’adagio tolstoiano sulle famiglie, ma è un fatto che quasi tutte le opere d’arte degne di tale nome che hanno raccontato queste sostanze lo hanno fatto mettendo in primo piano paranoie, complotti, creature orride, situazioni infernali più che paesaggi edenici ed estasi caritatevoli.

Guardiamo al cinema: gli acidi di Fonda in The trip (Il serpente di fuoco, 1967), e di Hopper/Fonda in Easy rider (1969), probabilmente i primi film che hanno cercato di mostrare un viaggio lisergico, molto difficilmente si potrebbero definire “euforici”. 

Dopo avere fatto amicizia con due prostitute i protagonisti di Easy rider finiscono in un cimitero dove assumono LSD: segue un montaggio sconnesso di pianti, preghiere, visioni carnevalesche, paure varie tra cui la convinzione di essere morti, episodi psicotici, rimersioni di traumi infantili, il tutto accompagnato dal rintocco continuo e inquietante di una grande perforatrice. 

Altri vecchi film dello stesso filone controculturale esibiscono una simile predilezione verso il lato più ombroso della psichedelia, come The Wickerman, La foresta di smeraldo, o Altered States. Quest’ultimo, una libera interpretazione di Ken Russel intorno alle vicende vissute da John Lilly, è tra i più inquietanti. Per chi non lo conoscesse Lilly è stato, insieme a Burroughs, uno dei più estremi e originali sperimentatori di sostanze psicotrope: se leggete il libro di Karl Jansen sulla ketamina (“Ketamine, dreams and realities”), troverete non solo una lunga parte dedicata alle sue prodezze ma anche moltissime pagine su tremebonde esperienze di pre-morte e altre visioni tutt’altro che rassicuranti.

“Le opere d’arte degne di tale nome che hanno raccontato queste sostanze lo hanno fatto mettendo in primo piano paranoie, complotti, creature orride, situazioni infernali più che paesaggi edenici ed estasi caritatevoli”.

Medico ricercatore, psicoanalista, etologo, scrittore, Lilly assumeva allucinogeni con un frequenza impressionante e a dosi elefantiache dentro le vasche di deprivazione sensoriale da lui stesso inventate: isolation flotation tanks, contenitori chiusi riempiti di acqua calda in cui Lilly scioglieva dei sali. Questo isolamento radicale gli permetteva di compiere escursioni attraverso “inners spaces” così vivaci da non essere distinguibili dal mondo esterno. Personaggio eclettico e poliedrico, Lilly ha anche lavorato per quasi tre decenni con i delfini, in particolare presso un centro di ricerca alle Isole Vergini da lui stesso diretto. L’obiettivo era di attraversare le frontiere della specie e comunicare con gli animali, anche avvalendosi di linguaggi sintetizzati dal computer. 

Nel frattempo ha continuato a sperimentare con LSD e soprattutto Ketamina fuori e dentro le suddette vasche. Iniziò pensando che si trattasse di realtà proiettive, immaginarie, e finì per credere che le realtà esperite in quel contesto fossero più alte e vere di quelle “esterne”. Elaborò pensieri paranoico-complottisti, credette di ricevere messaggi segreti da meta-realtà cosmiche o astronomiche, arrivò a iniettarsi dosi ogni ora per molti giorni vivendo a tempo pieno in un mondo parallelo, di puro pensiero, e un giorno, trovato dalla moglie a faccia in giù incosciente nella vasca, venne trasportato d’urgenza in ospedale con l’elicottero e rianimato. Continuerà comunque ad assumere sostanze psicoattive fino a tarda età credendo fortemente nel potere trasformativo e rivelativo di quelle esperienze. È morto ultraottantenne, ancora perfettamente lucido (secondo Jansen), nella sua casa alle isole Hawaii.

Pellicole più recenti, direttamente o indirettamente ispirate alla psichedelia, indugiano con altrettanta insistenza sugli aspetti più disturbanti dell’esperienza. Ne cito qualcuna in ordine sparso, quasi tutte horror o fanta-horror: Vivarium, Aniara, The color out of space, Annihilation, John dies at the end, Beyond the black rainbow , Midsommar (diretta filiazione di The Wickerman), Bliss, e non ultimi i film di Gaspard Noé dedicati agli psichedelici: Climax e soprattutto (molto più riuscito) Enter the void

La mutazione aliena del mondo naturale nell’horror ispirato a Lovecraft  (The color out of space), fa evidente riferimento ad allucinazioni psichedeliche. Aniara, splendido e drammatico sci-fi svedese mette in scena un’enorme nave spaziale alla deriva piena di coloni diretti su Marte: i passeggeri vivono continue esperienze visionarie attraverso una sorta di intelligenza artificiale. Isagel, una delle protagoniste, finisce per suicidarsi dopo avere assunto LSD. Anche la progressiva assimilazione delle esploratrici nella natura mutante dell’area X, in Annihilation, si manifesta attraverso insinuanti allucinazioni lisergiche: animali umani, piante cristallizzate, riflessi iridescenti, e l’influenza della psichedelia è ancora più netta nella trilogia letteraria di Vandermeer di cui il film è una specie di sintesi.

Nella stessa lista si potrebbero aggiungere alcuni film a tema multiverso se è vero che l’esperienza di realtà alternative, variazioni quantistiche, cunicoli spazio-temporali sono una peculiarità di queste sostanze e che alcuni dei padri del web hanno tratto ispirazione dalla psichedelia. Pellicole come Donnie Darko, Coherence, i film di Shane Carruth (Primer, Upstream color), Another Earth e i molti altri usciti in questi ultimi anni fino al pluripremiato Everything everywhere all at once mostrano turbamenti della percezione e disturbi dell’identità che somigliano da vicino agli effetti dell’LSD.

Se torniamo alla letteratura gli esempi sono altrettanto numerosi: dell’Ottocento si è già detto sopra, a proposito del Novecento basterebbe il già citato (e sempre citato) Burroughs con le sue visioni paranoiche-tossiche-queer e la sua scrittura dissociata, a cui affiancherei volentieri Philip K. Dick, un vero maestro nell’immaginare realtà mentali manipolate chimicamente e Hunter Thompson, il cui Paura e disgusto a Las Vegas è una temeraria collezione di esperienze tremende. Ma sui risvolti mostruosi (in un senso più sociologico) dell’alterazione psichedelica si pensi anche al seminale Il mondo nuovo di Huxley, uno dei padri nobili della psichedelia, che non a caso dopo il suo classico distopico ha pubblicato un testo dal titolo Paradiso e inferno. Le porte della percezioni, insegna lo scrittore britannico, possono aprirsi su entrambi gli scenari, l’uno non implica “maggiore liberazione” dell’altro. 

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È tuttavia l’inferno quello che sembra offrire i frutti più succosi, almeno da un punto di vista artistico. Ad altri importanti scrittori/psiconauti come Michaux o Artaud non si potrà certo attribuire una visione irenica delle sostanze, immersi come sono nel demoniaco (il secondo) e nel postumano (il primo), comunque in visioni di un’alterità talmente radicale che non può mancare di sconvolgere la mente.

Sarebbe difficile produrre una lista antitetica di opere di valore dove si propugni una visione celestiale della psichedelia. Quando Huxley ha provato a scrivere un pendant de Il mondo nuovo, un romanzo utopico intorno a una società ideale liberamente dedita alla psichedelia (L’isola) ha ottenuto un risultato nettamente inferiore al precedente, un polpettone dal sapore pre newage che oggi non legge quasi nessuno. 

Su Netflix o altrove si possono ancora trovare serie TV e documentari dedicati ai nuovi apostoli entusiasti della psichedelia come Gwyneth Paltrow, Mike Tyson o Ram Dass (che a differenza dei precedenti è stato un vero pioniere prima di trasformarsi in un guru borioso): propugnano una visione della psichedelia integrata e serena, tra team building e meditazioni trascendentali, ma si tratta di prodotti (e di personaggi) estremamente brutti. Per spiegare questo fenomeno si potrebbe forse stabilire un semplice paragone tra il viaggio mentale e quello fisico.

In fondo la conoscenza del mondo, l’esplorazione, il viaggio fisico, implica una qualche (più o meno apertamente perseguita) ricerca del dis-agio, della distruzione delle routine, dello spaesamento, e proprio qua si potrebbe tracciare il confine tra viaggio e turismo, dove il turismo è un modo di neutralizzare lo spaesamento connaturato al viaggio. Allo stesso modo il viaggio mentale più profondo non può che aprirsi a esperienze radicalmente alteranti, dislocanti e in qualche misura scioccanti. Per fare la frittata bisogna rompere le uova. E per tornarsene a casa soddisfatti bisognerà attraversare tunnel, smarrirsi, affrontare mostri.

Nell’accelerazione psichica indotta dalle sostanze psichedeliche gli estremi si toccano, si scambiano di posto, e basta meno di un attimo per scivolare da una sensazione di pienezza a un’agghiacciante vacuità (e viceversa). Il funambolismo tra utopia e distopia è un elemento fondante dei sogni del drogato. E se la vera esperienza mistica va al di là del regno dei contrari, come sostiene Huxley in Paradiso e inferno, altri si rappresentano anche questo stesso sfondamento, l’indifferenza cosmica, in termini poco rallegranti. In Theatrum Philosoficum Foucault (prendo la citazione proprio da Sadie Plant) mette in guardia dalla perdita di senso: 

Non appena si sfugge alle categorie si affronta il magma della stupidità e si rischia, una volta aboliti questi principi di distribuzione, di veder salire tutto intorno a sé, non la meravigliosa molteplicità delle differenze, ma il livellamento, il confuso (…), il termodinamismo di tutti gli sforzi falliti. 

Dale Pendell, autore di un’importante trilogia sulle sostanze psicoattive (pubblicata in Italia da Add), intitola il volume dedicato agli psichedelici Pharmakognosis, piante psicoattive e la via venefica, e sottolinea “venefica”. I demoni e la possessione demoniaca sono un motivo conduttore, e innumerevoli sono le creature ctonie che abitano le sue pagine (anche visivamente: il libro è pieno di immagini). Se c’è un avvertimento che riporterei da questo anomalo e poetico saggio è che “Solo i vampiri non gettano ombre”. Insomma: diffidate dei ridenti spacciatori di meraviglie.

La gnosi drogata implica necessariamente l’infrazione di tabù, e i tabù (o almeno alcuni tabù) non sono lì per niente. Il mistero, l’incognito, il grande Altro, spaventano e andarvi incontro ha sempre significato, da Eleusi in giù, un rischioso percorso iniziatico costellato di sconvolgenti catabasi. Anche i meno sulfurei tra gli psiconauti ne sono consapevoli: “Se non si è terrorizzati allora vuol dire che non si è pienamente in contatto con le dinamiche di quel che sta succedendo” ha scritto McKenna in The Archaic Revival. E perfino il sorridente, ispirato, Timothy Leary, non si era in fondo infatuato del Libro tibetano dei morti?

Quello che sta accadendo nel discorso intorno alle sostanze visionarie di questi ultimi anni, o lustri, quello che molti entusiasti, non senza ragioni, si sono spinti a definire “rinascimento psichedelico”, è una tendenziale esclusione degli inevitabili aspetti traumatici della conoscenza attraverso le “droghe”.

Se nel consumo di sostanze alteranti la medicina e la sacralità si sono sempre mosse in parallelo, questo accadeva in un quadro culturale dove il concetto del sacro e del terapeutico veicolavano significati decisamente più ambigui e stratificati di quelli che oggi troviamo nel discorso mainstream intorno agli psichedelici. Il farmaco e il veleno, il divino e il demoniaco erano facce della stessa medaglia. Il grande ritorno della psichedelia dopo i fasti controculturali degli anni Sessanta al contrario sembra procedere da una sistematica rimozione di una delle due facce. 

“I nuovi apostoli entusiasti della psichedelia come Gwyneth Paltrow o Mike Tyson propugnano una visione della psichedelia integrata e serena, tra team building e meditazioni trascendentali, ma si tratta di prodotti (e di personaggi) estremamente ‘brutti'”.

Che gli psichedelici diventino uno psicofarmaco, magari dopo una manipolazione oculata da parte di “designers” capaci di sintetizzare molecole prive di spine come le rose geneticamente modificate, non sembra essere un rischio percepito da molti. Che si cerchi di correggere l'”edonia depressa” (Mark Fisher) del tardo capitalismo con dosi massicce di ultrasensazioni sintetiche è qualcosa che non sembra preoccupare. Di fronte a questo, e in perfetta sintonia, riemerge uno spiritualismo a trazione tecnologica, una specie di deismo scientista dove gli aspetti più oscuri del pensiero religioso evaporano come rugiada al sole del progresso e di un misticismo new-newage senza timori né tremori.

Tutti questi discorsi potrebbero essere collocati nell’alveo del transumanesimo, la ricerca di un uomo nuovo, post-biologico, capace di abbandonare per sempre i limiti del corpo “naturale”. Il transumanismo ci mostra il luogo in cui le ansie escatologiche dei contemporanei incontrano idealmente le faustiane promesse dell’avanzamento scientifico. Neospiritualisti dell’internet con la loro la fede nelle neuroscienze e negli enteogeni prosperano nella cornice del capitalismo avanzato.

Molte di queste teorie e pratiche, gran parte dell’apologetica che investe la nuova ondata psichedelica, si collocano in un campo di saperi e comportamenti appannaggio di una cultura stolidamente tecnofila, intrisa di valori aziendalistico-imprenditoriali con i suoi dictat produttivisti e con i suoi ozii privilegiati. Lo sciamano psichedelico che ha occupato Capitol Hill insieme a un manipolo di uomini armati non era un’allucinazione. 

Ma quando i mostri spariscono dall’orizzonte conviene preoccuparsi. Se non abbiamo più paura, se non temiamo più nulla quando ci sporgiamo al di là di noi stessi, se non vediamo più i mostri che ci aspettano oltre i confini della realtà, forse è perché la realtà sta perdendo consistenza, sta sparendo anche lei. O forse è perché mostri siamo diventati noi stessi.

Carlo Mazza Galanti

Carlo Mazza Galanti è traduttore, critico letterario, giornalista culturale. Il suo ultimo libro è Cosa pensavi di fare? Romanzo a bivi per umanisti sul lastrico (Il Saggiatore, 2020).

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