La salute mentale delle donne attraverso gli spot degli psicofarmaci - Lucy
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Francesca Mastruzzo

La salute mentale delle donne attraverso gli spot degli psicofarmaci

Donne soffocate da lavori domestici, mogli infelici con i propri mariti, figlie isteriche, madri esauste. A partire dalla seconda metà del Novecento le pubblicità degli psicofarmaci miravano a curare la frustrazione legata al ruolo di genere femminile attraverso la chimica. Oggi invece cosa cerchiamo di curare con ansiolitici, antidepressivi e antipsicotici?

Una donna con un grembiule e un foulard in testa è rinchiusa in una gabbia con le sbarre fatte di scope. Intorno a lei, un ferro da stiro, spugne, un triciclo. Si morde le unghie. Accanto, la didascalia: “Non puoi liberarla, ma puoi aiutarla ad alleviare la sua ansia”. È una pubblicità della fine degli anni Sessanta del Serax (in Italia Serpax), una benzodiazepina. Come il Valium, lo Xanax, l’Halcion. Un farmaco che possono avervi prescritto per aiutarvi a dormire o perché avete paura di volare. 

Fatico a conciliare la donna di quell’immagine con le persone della mia vita che tengono una benzodiazepina in casa; con l’armadietto dei medicinali dei miei nonni, il comodino di mia madre, il mio. 

È difficile imbattersi nelle pubblicità degli psicofarmaci in Italia. Come nella maggior parte dei Paesi europei, in Italia la pubblicità diretta al consumatore dei medicinali soggetti a prescrizione è vietata. Vediamo lo spot del collutorio in tv, ma non quello dell’antibiotico o dell’antidepressivo. Quindi, a meno che non siate psichiatri o figli di psichiatri, è probabile che non ne abbiate mai viste. 

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Io sono capitata davanti a questa immagine per caso, all’inizio di un anno in cui ho provato diversi psicofarmaci per curare un’emicrania cronica. Ero in un museo della farmacia, uno di quei posti in cui si va quando si è esaurita la lista dei musei istituzionali. Al piano terra c’erano armadi di legno, vasi da speziale fotogenici e un turista americano che occupava un intero corridoio mentre firmava con entusiasmo il registro dei visitatori. Al piano di sopra, poco segnalata, una mostra sulla pubblicità degli psicofarmaci. Non c’era nessuno, ma c’erano tutte queste persone su carta, ingabbiate nelle loro malattie.

Donne, molte donne. Quasi tutte sopraffatte dai lavori domestici o dalla cura dei figli. Ansiose, isteriche. Donne da sedare.

Soprattutto nelle pubblicità degli anni Sessanta e Settanta, quando l’emancipazione femminile era appena iniziata o faticava ad affermarsi. Davanti all’immagine di una donna che guarda affranta una pila di piatti da lavare, mi sono chiesta cosa c’entrasse con la principale figura femminile della mia vita, mia madre. Lei lavorava, non ha mai indossato un grembiule in vita sua, la donna delle pulizie è sempre andata a casa sua ogni mattina, per dodici anni io sono stata la sua unica figlia ed ero, a quanto mi dicono, una bambina buonissima. Ma lì in mezzo vedo il nome di un farmaco che lei assumeva e mi viene in mente un ricordo. Io che la rincorro, quasi invasata, attorno  a un tavolo. Minaccio di sputarle addosso. Quel giorno mi becco il primo e ultimo schiaffo della mia vita. Oggi mi rendo conto che stavo cercando di svegliarla dal torpore in cui era sprofondata. 

Qualche mese prima mi aveva insegnato a usare gli acquerelli. Non ero brava, la prima volta avevo dipinto – per sbaglio – quello che pareva essere un albero sferzato dal vento. Lei, pensando che lo avessi fatto apposta, era entusiasta. Ora la pregavo di riprendere gli acquerelli, ma non ne aveva voglia. Quando non dormiva o non leggeva a letto, stava attaccata al telefono. Era difficile parlarle perché era sempre da un’altra parte. Altrove, ma a casa. Avrei scoperto più tardi che aveva avuto un aborto spontaneo, che ai suoi problemi di salute se ne erano aggiunti altri, che non era normale che mio padre urlasse tutto il tempo. 

Poi le avevano prescritto un farmaco e lei per un po’ era tornata a essere se stessa. Mi aveva insegnato a fare gli origami. Non aveva ricevuto una diagnosi, solo una pillola. Erano gli anni Ottanta. 

“Al piano di sopra, poco segnalata, una mostra sulla pubblicità degli psicofarmaci. Non c’era nessuno, ma c’erano tutte queste persone su carta, ingabbiate nelle loro malattie”.

In una pubblicità degli anni Settanta dello Stelazine (Modalina in Italia) tre donne vestite di tutto punto su una sedia Thonet, la loro immagine ripetuta sei volte, sono chine su un telefono: “Se ti chiama mattina, mezzogiorno e sera… Giorno dopo giorno dopo giorno… Per alleviare la sua ansia nevrotica cronica, prova Stelazine”. La frase è rivolta allo psichiatra. Alla fine l’avevo trovata, mia madre. Una donna bisognosa, a cui è impossibile dare conforto. 

Per queste donne che non riuscivano a essere felici nel ruolo che la società aveva loro assegnato, qualche decennio prima c’erano stati i barbiturici, con cui era molto facile morire di overdose. Poi, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, era arrivato uno dei farmaci più famosi del Novecento (e non meno pericoloso dei predecessori): il Miltown (in Italia Quanil). Ne parlava tutta Hollywood e i Rolling Stones lo citavano indirettamente nella canzone del 1966 Mother’s Little Helper

Il Miltown era interamente una faccenda da donne; un bambino delle dimensioni di Gulliver che minaccia di schiacciare con un giocattolo la minuscola mamma; una donna che stringe il telefono sotto il mento, un neonato in braccio, un altro figlio sul seggiolone che pretende qualcosa e, sullo sfondo, un bambino poco più grande che si allunga pericolosamente verso i fornelli. La foto è alterata, come in un film horror o in un trip. Il claim per entrambe le immagini: “La sindrome del genitore vessato”. La parola “madre” non compare.

Ma la cosa che colpisce di più di queste pubblicità è il testo. È il più lungo e il più sensibile che abbia mai letto, in contraddizione con l’implacabilità delle immagini. “Lei è il paradosso della nostra epoca. Rispetto a sua madre, ha ricevuto una migliore istruzione, dispone di un reddito e di elettrodomestici che le fanno risparmiare tempo. Eppure è fisicamente ed emotivamente sovraccarica […]. Cos’è andato storto? Fare figli non dà quella rosea soddisfazione di cui parlano le riviste femminili? […] Qualcuno sostiene che non sia realistico dare un’istruzione a una donna e poi aspettarsi che si accontenti che il suo unico sbocco intellettuale sia il club dei boy scout. O concederle uguaglianza sociale, politica e culturale ma continuare a pretendere che sia asservita dal punto di vista domestico e biologico.” Ma se negli anni Sessanta i pubblicitari del Miltown si chiedevano cosa fosse andato storto, quelli del più grande blockbuster che lo avrebbe seguito (escludendo il Prozac, ancora successivo) avrebbero fatto enormi passi indietro. 

Compare l’uomo. È piccolo. Lo circondano varie donne, raffigurate in diverse dimensioni dentro dei cerchi. La madre, la moglie, la suocera, la figlia. Più piccole di lui ci sono invece le silhouette nere delle figure maschili della sua vita (zio, suocero, figlio, amico, papà, dicono le didascalie) con cui, stando al testo, non riesce a relazionarsi. “Le donne dominano il suo universo. La tensione psichica può rovinargli la vita.” Finalmente, seppur a causa delle donne, anche un uomo può soffrire di ansia. Sono gli anni Settanta: è arrivato il Valium. 

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Il claim di un’altra pubblicità recita: “35 anni, single e psiconevrotica”. Non trova marito perché nessuno può eguagliare suo padre. Accanto ci sono tutte le foto di lei con il genitore. Già, cos’è andato storto? 

Negli anni Ottanta le pubblicità del Valium diventano più generiche. Nel decennio degli status symbol, degli yuppies, della glorificazione della carriera, l’uomo soffre perché è stressato al lavoro. Perché è stanco di fare il pendolare. Perché il telefono squilla in continuazione mentre è alla scrivania. Ma eccolo riguadagnare la sua voglia di vivere e andare a comprare una mazza da golf. La sofferenza psichica maschile si sposta sempre di più verso la performance. Il ceto sociale è medio-alto. 

Ma c’è una categoria di psicofarmaci che ha avuto sin dall’inizio l’uomo al centro: gli antipsicotici, i cui usi sono molteplici, sebbene il nome suggerisca un orizzonte limitato. A qualcuno verrà in mente il Serenase, per quella canzone dei CCCP.

Davanti alla basilica di San Francesco d’Assisi, mio nonno disse a sua moglie e ai suoi figli che sarebbe rimasto lì e si sarebbe fatto frate. Per quanto lo riguardava, loro potevano mettersi al volante (come? Mia nonna non aveva la patente perché lui le aveva impedito di prenderla) e tornarsene a casa. Lui aveva trovato la sua vocazione. 

Come ogni estate, erano saliti sulla Giulietta verde (avevano sempre posseduto solo macchine verdi), erano partiti dalla Sicilia e avevano attraversato l’Italia a tappe, come tanti facevano negli anni del boom economico. Quando passavano da Roma, mia nonna e mia madre andavano sempre da un parrucchiere famoso a tagliarsi i capelli, poi facevano compere. Mio zio studiava gli orari dei treni, anche se non bisognava prenderli. Mio nonno, al bar, ordinava sempre una camomilla. Guidava in maniera spericolata e nessuno poteva sorpassarlo.

La mattina dell’annuncio mia nonna non lo prese sul serio, ma lottò per giorni per farlo tornare in sé. Mia madre era terrorizzata. Questa fu una delle sue crisi peggiori, però nessuno si sognò di farlo visitare. Era un padre di famiglia. Era la Sicilia. Erano gli anni Sessanta. Io lo ricordo come un nonno premuroso e ossessionato dalla preghiera: non saltava un rosario, anche se spesso arrivava dopo un concitato elenco di bestemmie perché il verduriere l’aveva fregato per l’ennesima volta. 

L’infervoramento per la religione era sopraggiunto intorno ai vent’anni, a seguito di un evento oscuro cui accennava soltanto. Probabilmente, un tentativo di suicidio. Subito dopo aveva fatto voto a San Francesco. 

Le crisi mistiche, avrei scoperto, sono tipiche del bipolarismo, così come l’irrequietezza, l’ideazione suicidaria, l’umore che cambia drasticamente da un giorno all’altro. Da anziano gli prescrissero il Seroquel, che come molti antipsicotici è usato anche per trattare l’irrequietezza dell’Alzheimer. Forse avrebbe dovuto iniziare a prenderlo decine di anni prima. 

“Davanti alla basilica di San Francesco d’Assisi, mio nonno disse a sua moglie e ai suoi figli che sarebbe rimasto lì e si sarebbe fatto frate”.

Gli antipsicotici comparvero negli anni Sessanta e in parte contribuirono, ai tempi di Franco Basaglia, a tirare fuori molte persone dai manicomi, restituendo loro una vita più o meno normale. Nelle pubblicità del Thorazine questo emerge chiaramente: si vedono solo i piedi e l’orlo della gonna di una donna, in due foto diverse. Nella prima, è vestita di bianco, con scarpe di tela senza lacci, sporche. Si intuisce che è in un istituto. Nella seconda indossa delle décolleté, una bella gonna, i collant. È decorosa, è tornata a casa. 

Nelle pubblicità in cui sono presenti maschi adulti, invece, la storia raccontata è quella della violenza che precede la cura. Un uomo in poltrona, visto di spalle, che ha buttato giù una lampada e stringe un bicchiere in una mano e una bottiglia di vino nell’altra (il farmaco qui è consigliato per trattare la dipendenza da alcol). Un uomo – definito violento nella didascalia – su cui torreggia un gigantesco occhio, che probabilmente simboleggia la psicosi. Poi un uomo e una donna. Lei fugge, lui le alza le mani. “Per controllare l’agitazione, un sintomo che interessa diverse categorie diagnostiche”. La violenza sulle donne è un disequilibrio chimico. 

Poi, ancora uomini, i lineamenti contorti dalla malattia, facce quasi animalesche. Un viso rabbioso dentro un pugno chiuso. Una testa che si allunga diventando un cactus spinoso. Un volto che si scioglie come a contatto con l’acido. 

Forse, penso, quelle in cui mi ritrovo di più sono le prime pubblicità dello Xanax. Una in particolare. È un dipinto con tanti volti affastellati, grotteschi, urlanti, dai colori lividi: “L’ansia ha molte facce. Ma c’è solo uno Xanax”.

Sembra un’opera di James Ensor. Quelle forme mi pare di averle già viste molte volte chiudendo gli occhi. È la prima pubblicità di una benzodiazepina che descrive l’ansia con i toni deformanti di quelle degli antipsicotici, senza mettere in primo piano la persona, solo ciò che prova. Siamo sempre negli anni Settanta. Nei decenni successivi compariranno figure di cervelli e molecole chimiche, linee astratte e l’occasionale donna in poltrona a colloquio con lo psicoterapeuta, e questo cambio di immaginario riguarderà tutti gli psicofarmaci. Si vedrà la scienza oltre alla persona.

Nel 1987 arriva sul mercato il Prozac. Negli Stati Uniti, dove è legale fare pubblicità diretta al consumatore, la promozione di questo farmaco è martellante. “Milioni di vite ricostruite.” “Bentornata.” Ragazze che fanno snorkeling, fumetti con nuvolette piovose che si trasformano in soli gialli, piantine vizze che diventano rigogliose, palloni da basket che rimbalzano – la mamma è tornata a giocare con i figli. 

Negli Stati Uniti il Prozac veniva prescritto al primo segno di sofferenza, medicalizzando anche situazioni che avrebbero beneficiato della sola psicoterapia o di altri tipi di interventi. In Italia se ne parlò molto sulla stampa. Questa copertura mediatica, per quanto in parte critica della “pillola della felicità”, che pareva  una scorciatoia, fece quello che l’azienda farmaceutica Eli Lilly non aveva potuto fare nel nostro Paese.

Per la prima volta, la comunicazione di uno psicofarmaco uscì dagli opuscoli e dalle riviste degli psichiatri e si riversò sulla stampa, in mano a giornalisti che spesso ne sapevano poco di farmacologia, ma che leggevano le notizie americane e le statistiche italiane.

Il 23 maggio 1986 il «Corriere della Sera» presentava così il nuovo farmaco: “Prozac, l’antidepressivo che fa anche dimagrire” – un titolo molto allettante considerato che il 45% delle persone in Italia dichiara di voler perdere peso. Nel 1993 un approfondimento su «La Stampa» non lasciava spazio a dubbi: “Una pillola per curare l’anima. Il trionfo del Prozac”. «Repubblica», che probabilmente vedeva in questa medicina la massima espressione del capitalismo americano, usava toni beffardi, rischiando di ridurre la depressione a vezzo o a fenomeno da cui l’Italia era miracolosamente esente: “Tutte le droghe dell’America malata” (1990), “La cosmesi dell’umore” (1994). Il 14 agosto 1997 Umberto Galimberti  scambiava direttamente l’antidepressivo per un altro tipo di farmaco – forse un tranquillante – e scriveva: “Ma che cosa vogliono far tacere con il Prozac?”. Rileggendo certi articoli, è difficile distinguere tra divulgazione scientifica, antipsichiatria e promozione. Ciononostante, il Prozac era sulla bocca di tutti. 

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Una mattina d’inverno la mia professoressa di lettere entrò furiosa in classe e inveì contro questa pillola. La felicità non era una cosa automatica, bisognava sforzarsi. Io non prendevo medicine, ma già sapevo di non essere felice e che non sarebbe bastato sforzarmi per esserlo. Ci avrebbe pensato l’estate, perché andava così. Il mio umore variava con le stagioni. Non sapevo cosa significasse, allora. 

Mia madre lavorava nel mio liceo, avrebbe potuto sentire quell’invettiva. Lei prendeva uno psicofarmaco. Faceva la bibliotecaria e gli studenti andavano a confidarsi oltre che a chiederle consigli di lettura. Ogni tanto entravo nel suo ufficio e la trovavo a ridere e chiacchierare con una coetanea  a cui avrei tanto voluto rivolgere la parola, se solo ne avessi avuto il coraggio. Invidiavo la socievolezza di mia madre, la sua faccia di bronzo. Tanto era popolare lei, tanto ero timida io. 

A un certo punto cominciò a soffrire di emicrania. Sempre più spesso, gli studenti si affacciavano alla sua porta e non la trovavano. Le assenze si accumularono. Il suo ufficio fu spostato in quello che era praticamente uno sgabuzzino. Non aveva voglia di lavorare, era l’opinione di mio padre e dei professori. Alla fine si dimise. Non aveva ancora trovato una cura.

Subito dopo il Prozac arrivarono sul mercato  altri SSRI (inibitori selettivi del reuptake della serotonina). Zoloft, Sereupin, Effexor. Le pubblicità sono affollate da donne. Accanto, o sullo sfondo, un po’ sfocati, ci sono mariti e figli. Oppure lo shopping con le amiche, lo yoga. Quando compaiono gli uomini, capita che si accenni al fatto che potranno tornare a giocare con i figli, ma i bambini accanto a loro non figurano mai

La persona tipo che assume psicofarmaci, in quegli anni, è ancora donna, bianca, spesso casalinga. Eppure i dati di diverse ricerche dicono che in Nord Europa e negli Stati Uniti gli psicofarmaci vengono prescritti soprattutto a donne migranti, provenienti dall’America del Sud, dall’Africa, dall’India. Ma non è attraente usare la foto di una donna indiana costretta ad andare in Svezia per un matrimonio combinato con un suo connazionale espatriato. Che non parla la lingua di quel Paese. Che forse non voleva neanche sposarsi o avere figli. Che ogni giorno sente la mancanza della famiglia, delle amiche. O forse è un sollievo entrare in un museo della farmacia e non ritrovarsi?  

Alla fine trovo delle pubblicità degli anni Duemila. C’è una coppia di colore. Sono tornati a stare bene e soppesano peperoni al mercato. C’è un ragazzo che fa il corriere. Ora può tenersi il lavoro. E un altro che non si capisce cosa stia combinando. Ma ha in mano una penna e un bloc-notes, è un membro produttivo della società. Non hanno un reddito alto, non sono bianchi. Questa è una novità. Ah, ecco una donna. È con un neonato. Compaiono anche gli animali. Un banco di pesci, un leone. Sono foto semplici, noiose, a malapena distinguibili da immagini di stock. 

Una mattina mi arriva tramite un’amica una pubblicità del 2023 dello Spravato, l’esketamina. È un derivato della ketamina, una sostanza sedativa e psichedelica nata in ambito medico ma in seguito usata a scopo ricreativo. 

“Una mattina d’inverno la mia professoressa di lettere entrò furiosa in classe e inveì contro questa pillola. La felicità non era una cosa automatica, bisognava sforzarsi”.

Sullo sfondo di un appartamento in stile scandinavo, una silhouette maschile di cartapesta si è rotta e ne è uscito un uomo, giovane, vestito bene ma in maniera informale. Borghese come chi assume farmaci (e non psichedelici), sbarazzino come chi sta bene.

Non c’è dubbio che la più importante novità nel trattamento farmacologico delle patologie mentali sia il rinascimento psichedelico, ma ripulire l’immagine della ketamina richiede uno sforzo creativo. Il guscio di cartapesta che si spacca per rivelare l’uomo in carne ossa infatti mi colpisce.

Dopo anni di immagini di sorrisi con le faccette dentali, di persone rannicchiate contro un muro, di pose yoga, di accenni stereotipati a una vita lavorativa o sociale riconquistata, qui riconosco davvero la sofferenza e la liberazione. Se questa pubblicità fosse diretta ai pazienti, li convincerebbe all’istante. 

Poi penso a un paio di ragazze che parlavano dello Zoloft su Tiktok. Se avessi potuto vederle a 16 anni, mi avrebbero fatto avvertire il mio disagio? Sarei andata da un medico chiedendo di farmi prescrivere proprio quel farmaco? Avrei tirato dritto, pensando, come è stato, che mi bastava aspettare l’estate, rifiutando anche l’idea della psicoterapia, mentre i miei mi incoraggiavano e io mi rifugiavo dentro la vasca da bagno? 

Mia madre col tempo si è sempre più rinchiusa in casa. Oggi non ne oltrepassa la soglia. Non è sempre malinconica e ossessiva. È ironica, strabordante, scrive. E tutta questa pienezza è racchiusa tra quattro mura, in un corpo minuscolo. L’anno scorso ha ammesso di avere ricevuto una diagnosi. A settant’anni.

Io vivo lontano. Ogni volta che torno a casa la trovo più carica di oggetti. Belli, colorati, frutto di momenti di euforia passeggera. Quando i pianeti si allineano e sia io che lei siamo in buona, guardiamo le foto dei miei nonni, le incorniciamo, cambiamo la disposizione della sua collezione di teste di Moro. È come tornare a dipingere gli acquerelli. 

Francesca Mastruzzo

Francesca Mastruzzo è traduttrice, editor e collabora a diverse testate.

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