Internet è una festa, ma non ci stiamo più divertendo - Lucy
articolo

Priscilla De Pace

Internet è una festa, ma non ci stiamo più divertendo

10 Maggio 2023

Internet prometteva di essere un luogo perfetto per socializzare ed esprimere se stessi in modo libero e creativo. Oggi, a trent'anni dalla nascita del primo sito web, possiamo dire che non è andata esattamente così, anzi.

Qualche mese fa, mentre ero a Milano per lavoro, sono stata invitata alla festa di compleanno di una persona che non avevo mai visto dal vivo. Non era la prima volta che incontravo qualcuno di cui avevo fatto conoscenza esclusivamente online, anzi; nel corso dei miei vent’anni avevo già sperimentato il brivido di scoprire come erano fatti i corpi e le voci di amicizie e flirt sbocciati tra le discussioni di forum musicali e blog.

Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso, che non aveva nulla a che fare con l’improvvisa e penosa sparizione dei forum e dei miei vent’anni, quanto più con il fatto che quella sera il festeggiato non sarebbe stata l’unica persona di cui conoscevo solo la versione digitale: tutti gli invitati, infatti, erano presenze familiari nel mio feed Instagram.

Nonostante il pregio della selezione musicale e gli ottimi cocktail serviti all’open bar, la serata si rivelò un disastro. Dopo un iniziale imbarazzo e degli auguri impacciati, mi sono rifugiata in un angolo del locale. Nascosta nel buio, osservavo i membri della mia bolla emergere dalle nature morte dei loro profili e muoversi per la prima volta in uno spazio fisico. Vedevo per la prima volta persone che, fino a poco tempo prima, avevano vissuto solo nella mia testa sotto forma di immagini digitali esteticamente coerenti e accattivanti. Vedevo le loro espressioni e i loro gesti dal vivo, così diversi da quelli che trasparivano dalla griglia fotografica di Instagram. Vedevo la loro personalità sotto nuove sfaccettature, accorgendomi delle differenze tra ciò che erano e ciò che mostravano di essere. Ma, soprattutto, mi scoprivo a fissare come un’imbecille un gruppo di sconosciuti, constatando il prevedibile epilogo che avevo evitato di pronosticare nel tragitto verso la festa: mi stavo comportando come una disadattata. 

Oggi, che siamo più consapevoli dei limiti e degli affaticamenti causati dall’eccesso di interazioni online, questo aneddoto rischia di suonare ridicolo. 

Con la fine del lockdown (e il conseguente abbandono della virtualità come unica possibilità di incontro) si è imposto un ricco vocabolario di acronimi e neologismi che mappano i disagi provocati dai nostri incontri digitali; sintomi che raccontano del logoramento di una generazione portata a relazionarsi agli altri in un contesto di intermediazione tecnologica. Il vademecum delle disfunzioni da social network ci avverte che se ci sentiamo stanchi e disorientati è perché siamo affetti dalla online fatigue – un peculiare tipo di spossatezza provocata dalla vita in una società iperconnessa –, ma anche che potremmo contrarre la FOMO, la Fear Of Missing Out, ovvero la paura di sentirci esclusi e tagliati fuori dalle interazioni che contano e ridotti a uno stato di social burnout, l’esaurimento psicologico causato dalla pressione di mantenere un profilo online sempre aggiornato e perfetto. 

In questo scenario contraddittorio, stressante e instabile come le nostre vite onlife, in cui virtuale e reale si accavallano ininterrottamente, non c’è niente di sorprendente nel sentirsi inadeguati di fronte all’incontro con persone di cui si conosce alla perfezione tone of voice ed estetica, ma con cui non ci si è mai scambiati più mezza parola su Instagram; figurarsi poi se il contesto è un presepe vivente della propria filter bubble e tu sei l’unico membro del cast a cui non è stato affidato un ruolo.

Tornando nella mia stanza d’albergo, però, non era più il pensiero della mia goffaggine a impedirmi di prendere sonno. Sebbene non avessi dato prova di particolari competenze in materia di socializzazione, non potevo fare a meno di pensare che il problema si fosse rivelato, in qualche modo, sistemico oltre che personale: anni di interazioni online avevano reso inaffrontabile l’incontro in carne e ossa con la mia nicchia virtuale. 

E se Internet è il luogo dove ho costruito relazioni di lunga durata con persone con cui poi non riesco a interagire nella vita reale, allora Internet ha fallito. E con Internet intendo i social.

Internet è una festa, ma non ci stiamo più divertendo -

Che l’infrastruttura tecnologica che usiamo per creare, impacchettare, trasmettere e processare dati ogni giorno non coincida esclusivamente con il Web e che il Web non sia sinonimo di social media è cosa nota a chi è nato prima del 2000. Lo testimonia una nuova ondata di letteratura tecnologica che ci avverte di come le piattaforme si siano impossessate di Internet. Ci dicono che tocca riscuoterci, che sta a noi sottrarci a questo inganno e reagire per salvare quel che di buono resta della dimensione virtuale. Per farlo, dobbiamo: schivare gli imperativi produttivi dei social media; tornare offline e fare birdwatching; imparare a vivere il Web in maniera sana e costruttiva, organizzando comunità digitali resilienti attraverso cui esercitare il nostro diritto all’imprevedibilità.

Nonostante gli avvertimenti e i saggi diligentemente impilati sul comodino, però, mi pare che niente di tutto questo stia funzionando in maniera concreta, mentre la goffaggine sociale sembra essere l’unica eredità che quasi vent’anni di relazioni online ci hanno rifilato senza che ce ne accorgessimo, in barba agli sforzi di autodiagnosi a cui ci sottoponiamo costantemente.

È sempre più difficile smarcarsi dal motto “non incontrare mai i tuoi eroi”, considerato che ciascuno di noi è ormai una micro-celebrità per la propria community online. Nessuno degli invitati a quella festa poteva definirsi una persona famosa, ma tutti si erano costruiti negli anni un proprio immaginario visivo e linguistico; avevano, insomma, una personalità online distintiva e riconoscibile, fatta di interessi, gusti e tendenze stilistiche uniformi e molto curate.

È una dinamica che riguarda chiunque utilizzi assiduamente un social network: non possiamo fare a meno di presentarci agli altri costruendo identità fittizie, nelle quali cerchiamo di restituire una rappresentazione il più possibile seducente del nostro Io. La mediazione operata dai nostri smartphone ci induce a selezionare e a raffinare minuziosamente solo alcuni aspetti della nostra identità, quelli più adatti a comporre il mosaico di immagini e didascalie che finiranno per definire la qualità della nostra performance online. Non sorprende, allora, che la parasocialità sia diventata l’unica forma relazionale possibile nei confini digitali: l’illusione di intrattenere un rapporto di intimità con l’utente-performer non è meno inconsistente dell’idealizzazione, da parte degli spettatori, dei personaggi televisivi.

Oggi sui social siamo tutti, al tempo stesso, osservatori delle performance altrui e interpreti dei nostri personaggi, immersi in un continuum di connessioni effimere e unidirezionali, in cui è sempre più difficile distinguere tra il retroscena e la ribalta, e da cui – a quanto pare – è impossibile evadere. 

Internet è una festa, ma non ci stiamo più divertendo -

D’altronde sono anni che ce lo diciamo: le piattaforme ci isolano, ci trasformano in imprenditori della nostra immagine, ci brandizzano e, infine, ci lasciano stanchi e disorientati, cringe – imbarazzati e imbarazzanti – e in burnout, incapaci di recuperare quell’autenticità che eravamo così convinti di poter coltivare nei cantucci sicuri delle prime sperimentazioni di socialità online. 

A più di quindici anni dall’ingresso dei social nelle nostre vite, le espressioni su cui si sono fondate tante di quelle prime interazioni sono ormai gusci vuoti, parole-ombrello che decorano il vocabolario commerciale delle aziende tecnologiche, senza intrattenere alcuna relazione con l’effettiva esperienza degli utenti online. 

“Condivisione”, “community”, “produzione dal basso” sono oggi poco più che eufemismi che descrivono il modo confuso, annoiato e meccanico con cui ci riversiamo sui social quotidianamente, ciascuno con il proprio self-brand che richiede cura, coerenza e costanza, mentre le idee scarseggiano, i trend si susseguono isterici e le risorse mentali vengono prosciugate da stimoli effimeri e martellanti.

Tuttavia, se è vero che l’ambiente online è diventato inospitale – è sempre più difficile distinguere tra una pubblicità e il post di un utente, mentre bot camuffati da adolescenti provocanti attirano la nostra attenzione con finti like – c’è da dire che anche la dimensione della socialità offline non se la passa affatto bene. La compenetrazione del virtuale nel reale ha prodotto nelle nostre vite conseguenze più problematiche di PokemonGo e delle sneakers digitali: ha inquinato l’esperienza sensibile con un eccesso di immagini e informazioni troppo ingombranti da elaborare. Da questo punto di vista, il mio personalissimo dramma del compleanno milanese non aveva nulla a che fare con il naturale imbarazzo di incontrare un gruppo di sconosciuti, ma con il sovraccarico informativo che, per la prima volta, smascherava la relazione ambigua che intrattenevo con gli altri invitati: di ognuno di loro sapevo troppo, ma il troppo superfluo, e quindi, in fondo, non sapevo nulla. Il contrario di ciò che Internet ci aveva promesso. 

Internet è una festa, ma non ci stiamo più divertendo -

In un passaggio del suo saggio Cold Intimacies: The Making of Emotional Capitalism, Eva Illouz porta come esempio il film di Nora Ephron del 1998 C’è posta per te per raccontare le ottimistiche premesse delle prime interazioni online. La protagonista Kathleen è una giovane libraia che si innamora di un uomo conosciuto su Internet, mentre la sua vita reale viene sconvolta dall’attrazione, tanto irresistibile quanto tormentata, per il suo rivale sul lavoro.

Combattuta tra i due uomini, alla fine Kathleen preferirà lo sconosciuto di Internet al nemico-amante conosciuto dal vivo, per poi scoprire che, in realtà, si trattava della stessa persona. Come spiega Illouz, l’opera di Ephron illustra con semplicità quella che, per anni, ci è apparsa come la più grande verità sul nostro modo di mostrarci online, ovvero che nel digitale – complice un Internet che ancora incoraggiava l’anonimato – ci sentivamo liberi di essere noi stessi, di abbandonare i condizionamenti della vita reale per rivelarci in tutte le nostre autentiche e tenere debolezze. 

C’è posta per te racconta il sogno romantico dei primi incontri su Internet e descrive gli entusiasmi che hanno alimentato le prime forme di socializzazione di massa online, da Friendster a MySpace, da Twitter a Tumblr. È proprio quest’ultimo social network – sorprendentemente ancora attivo dopo sedici anni di gestioni difficoltose – a solleticare oggi la fantasia dei nostalgici dell’interazione-che-fu e a ravvivare il loro auspicio nel ritorno a un modo più “autentico” di relazionarci online. Lo so bene, perché anche io faccio parte di quei nostalgici. 

C’è lo screenshot di un tweet che gira online e che recita: Every social media platform is Tumblr if you are brave enough. La didascalia, scritta con l’intento di strizzare l’occhio agli utenti che hanno popolato la piattaforma di microblogging verso la fine degli anni Zero, fa luce sul divario tra i social network di oggi e quelli di una quindicina di anni fa. Durante i suoi primi anni di vita, Tumblr era il social simbolo delle possibilità di espressione creativa che Internet poteva offrire ai suoi utenti. Era un luogo incontaminato da brand e spot pubblicitari, dove ognuno poteva costruire blog personali e realizzare contenuti che intrecciavano foto, video, musica, e che, soprattutto, permetteva di gestire l’esposizione della propria identità e la qualità delle interazioni con gli altri utenti. 

Affermare che ogni piattaforma, con un po’ di coraggio, può essere come Tumblr, può voler dire tante cose: che i social network possono ancora essere luoghi di scoperta, ispirazione e appartenenza; che c’è ancora spazio per autodeterminare la nostra identità online contro le dinamiche della commercializzazione dell’Io. Per essere noi stessi, insomma. Il significato è aperto alle interpretazioni, ma l’ambiguità della frase non scalfisce la forza propiziatoria del sottotesto: un Internet migliore è ancora possibile. Il problema di questa illusione, però, è che si basa su una forma di prognostalgia, ovvero la nostalgia per un futuro utopico che è stato predetto senza mai realizzarsi. 

Basti pensare che nel 2014 secondo Isaac Asimov avremmo dovuto viaggiare dentro macchine volanti, e invece è stato l’anno in cui abbiamo iniziato a fare balletti in lip sync su quella piattaforma che da lì a poco sarebbe diventata TikTok. Sperare di rigenerare le premesse ottimistiche della socializzazione “pre-piattaforma” non è solo naive, ma è anche impossibile, così come lo sarebbe anelare malinconicamente ai veicoli fluttuanti che non sono stati. 

Il paradosso si fa ancora più evidente quando pensiamo che Tumblr è sopravvissuto al declino che ha visto protagoniste Facebook e Instagram non per una scelta deliberata, ma per un’ironica coincidenza. L’anonimato e la mancanza di controllo sui contenuti (che nei primi anni della piattaforma si è tradotto in una libera diffusione di nudi e gif pornografiche) hanno reso Tumblr un paradiso per gli utenti e un luogo ostile alla pubblicità – pubblicità colpevole poi di aver compromesso la socializzazione online e mercificato le nostre identità. Consisteva in questo progetto libero e avverso alla monetizzazione l’idea iniziale dei fondatori di Tumblr? Difficile a credersi. Altrimenti non avrebbero ceduto la piattaforma ad aziende tecnologiche in cerca di asset da aggiungere al proprio portafoglio. Ora, con una nuova gestione e un sistema di advertising in fase di test, la comunicazione ufficiale della piattaforma prova a ricalcare il mito delle origini condiviso degli utenti, nella speranza che il revival possa dar sollievo alle fragili finanze del social network. 

Internet è una festa, ma non ci stiamo più divertendo -

Noi, d’altro canto, non sembriamo ancora disposti ad abbandonare la fantasia di uno spazio online dove socializzare in modo autentico, come se il tempo si fosse fermato a un’epoca ormai superata. Indeboliti, omologati e sorvegliati dalle piattaforme dominanti, non riusciamo a immaginare alternativa migliore della possibilità di regredire ai primi blog e proto-social network, fantasticando di recuperare lo spirito pionieristico delle interazioni online, lo stesso celebrato dal tweet su Tumblr e dalle mie memorie di un’adolescenza trascorsa sui forum musicali. Non sorprende, allora, che le nostre malinconie siano divenute il bersaglio di una nuova competizione tra piattaforme e app, che tentano di sedurci offrendoci un assaggio di quel mondo perduto.

TikTok, ad esempio, esalta il ritorno degli interessi di nicchia, che diventano espedienti perfetti per pubblicizzare il suo sistema di algoritmi personalizzati e giustificare il frenetico proliferare di nuovi trend che cercano invano di tenere il passo della nostra attenzione. Ci sono anche piattaforme come Discord e Substack, che promuovono la produzione dal basso, chat room esclusive e abbonamenti privilegiati per accedere a quelli che, un tempo, sarebbero stati semplici blog post disponibili a tutti. Perfino Instagram, che fino a poco fa cercava di attrarre i brand sventolandogli davanti la quantità di dati estratta dai suoi utenti, oggi rivendica la libertà di espressione delle sue community, rimuovendo da ogni comunicazione rivolta all’esterno parole come influencer o advertising, per non spezzare l’incantesimo nostalgico e farci sbattere il muso contro la solita e deludente realtà. 

Infine, una nuova generazione di piattaforme sta cercando di proporsi come avamposto di autenticità contro l’establishment dei social media mainstream. Si fanno chiamare collective media e si presentano come spazi digitali tesi a stimolare relazioni più profonde, offrendo forme di intrattenimento e gioco più libere. Questo collettivo include: un’app per favorire il networking professionale tra i membri della Gen Z; una piattaforma che aiuta a informarsi in maniera più semplice e a combattere il deficit da attenzione; un’app per rimanere in contatto con sconosciuti incontrati sporadicamente a un party e uno spazio digitale per organizzare attività con i propri vicini. Mentre compilo questa lista, esamino affascinata le landing page di ogni servizio, ognuna con la sua estetica futurista dalle sfumature pastello e opalescenti e dai font in grassetto che mettono in evidenza le parole chiave che restaurano la promessa originaria della socializzazione online: find your people, dicono, oppure bring your conversation to life. Il mio passaggio preferito è quello in cui viene raccontata la genesi dell’app per non perdersi di vista dopo una festa, in cui i fondatori spiegano che le persone dovrebbero iniziare le loro interazioni dal vivo, e solo dopo proseguirle online. Vorrei averlo saputo qualche mese fa, chissà come mi sarei divertita a quel disgraziato compleanno.

Internet è una festa, ma non ci stiamo più divertendo -

Ovviamente, non esiste una risposta al logorio della nostra vita sociale online. Lo dice anche il giornalista Kyle Chayka che, proprio mentre scrivo, ha pubblicato un Substack su quello che definisce il “post-platform Internet”, un Web in cui le piattaforme non vengono sconfitte, ma solo rese meno minacciose attraverso la frammentazione in tanti micro-mondi sparpagliati online, come le migliaia di insetti che fuoriescono dalla sdrucitura del corpo di juta di Mister Bau Bau in Nightmare Before Christmas. Un lieto fine alternativo – e a questo punto più auspicabile – di quello proposto da Nora Ephron. La prospettiva di Chayka supera la nostalgia e aggira il problema invocando la post-modernità del Web: la decentralizzazione della socialità online potrebbe rivelarsi un antidoto alla costruzione di relazioni in ambienti commercializzati e sorvegliati, dove ogni contatto finisce per trasformarsi in uno scambio vuoto e alienato. Forse ha ragione Chayka, o forse è vero quello che scrive Illouz quando spiega come la comunicazione online, priva dei segnali interpretativi forniti dal corpo e dallo spazio, finisca inevitabilmente per ridursi a un’esperienza interiore, in cui l’altro è solo un riflesso dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, a prescindere dalla piattaforma in cui ci si è connessi.  

Non è colpa nostra, è solo che l’interazione online funziona così. Che sogno sarebbe se bastasse questa semplice constatazione a fermare il flusso dei nostri accessi alle piattaforme.

L’Internet che sognavamo è già alle nostra spalle, ma questo non ci impedirà di iscriverci alla nuova app per organizzare feste di quartiere, o di fingerci più giovani per imbucarci nel servizio di networking per Gen Z, crogiolandoci nel sogno di una nuova soluzione tecnologica pronta a prometterci community e condivisione, connessione e autenticità. Proprio come Gatsby, crediamo nella luce verde, in un futuro luminoso che anno dopo anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani saremo più veloci, tenderemo di più le braccia finché le nostre dita non si sfioreranno. Così andiamo avanti, barche contro corrente, risospinti senza sosta dentro spazi digitali sempre più simili a feste dove non conosciamo nessuno. 

Priscilla De Pace

Priscilla De Pace scrive di cultura digitale e società. È autrice della newsletter “Una goccia” e del saggio Al centro dei desideri. Nostalgia, consumo ed estetiche digitali pubblicato per la collana Quanti (Einaudi, 2023). 

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2024

art direction undesign

web design & development cosmo

lucy audio player

00:00

00:00