Come spiego a mio figlio che quando sogno sto lavorando? - Lucy
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Simona Vinci

Come spiego a mio figlio che quando sogno sto lavorando?

24 Maggio 2023

I sogni aiutano l’essere umano a comprendere la propria natura. La letteratura, con strumenti diversi, cerca di fare lo stesso. Per questo forse narratori, saggisti e poeti hanno cercato ispirazione nei sogni.

Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita.” 

W. Shakespeare, La tempesta, (atto IV, scena I)

“Un sogno” proseguì finalmente, “mentre fila nell’aria della notte, emette un sottile sssibilo. Ma questo sssibilo è così leggero e argentino che nessun popollano riesce a udirlo”. 

Roald Dahl, Il GGG

Non ho idea di come possa vivere la gente che non si ricorda i sogni che fa quando dorme. Come possa non impazzire. Evidentemente, la vita onirica ottempera alla sua funzione sia che tu ricordi o che non ricordi; ma lo stesso, il fatto che possano esistere persone costrette a vivere nella non conoscenza di una parte così importante della propria vita mi sgomenta.

Ogni volta che qualcuno mi dice che non riesce a ricordare i sogni che fa provo un profondo e sincero dispiacere per quella persona. La percepisco come mutilata, mancante, punita chissà per quale oscura colpa da un’assenza intollerabile e fatale. Diminuita, quasi accecata, di certo orbata.

Penso che potrei sopportare molte altre assenze, ma quella dei sogni no, la troverei intollerabile, quanto l’assenza della lettura e della scrittura, anzi, forse  peggio. Nei sogni c’è tutta la creatività che mi sfugge di mano e di pensiero nella veglia e finalmente, in quel margine poroso che si attraversa di colpo come quando ci si tuffa in acqua, viene meno l’attitudine a smorzare la follia di visioni irrazionali, trame incongruenti che mal si accordano allo scorrere della vita quotidiana con le sue incombenze pratiche e prosaiche, permeate di logica, circoscritte allo scorrere rigido e impietoso del tempo che ci siamo costretti a scandire per organizzare e punire l’esistenza.

Benedico i miei sogni e pure tutti gli incubi che ho fatto e mai dimenticato: mi hanno portata a vedere il nero abissale, il profondo indicibile, ma anche l’altissimo sopra e oltre, la luce accecante e la gioia folle. Mi hanno guidata verso innumerevoli trasformazioni, a riorganizzare le mie esperienze diurne, a riviverle amplificate, deformate talvolta e mi hanno abituata a non aver troppa paura dell’apparente – e sottolineo, apparente – assenza di logica.

Non a caso, il genere letterario più visionario che esista, la fantascienza, è intessuto di sogni, cresciuto da utopie, metabolizzato in via onirica. Penso a Ray Bradbury, autore di capolavori come Fahrenheit 451 e Cronache Marziane, che affermava: “il problema con la fantascienza è che ormai si occupa solo di scienza impazzita (…)”. Per lui, invece, la fantascienza doveva nascere da un sogno e sognare il futuro provando a mapparlo. 

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Penso poi a Ubik, e ai “sogni elettrici” degli androidi di Philip K. Dick.

Penso a Dino Buzzati che non era propriamente scrittore di fantascienza, ma che dalla fantascienza, oltre il gotico e il fantastico che praticava, era certamente affascinato, vedi il romanzo Il grande ritratto dove viene messo in scena un supercalcolatore che è allo stesso tempo macchina, creatura, e attraversa i generi potendo configurarsi come donna o come uomo.

Buzzati che si raccontava, in pittura e prosa, attraverso i propri sogni, spesso, incubi: come inventarsi, altrimenti, che sia possibile per una goccia risalire le scale al contrario? Penso al ciclo dei sogni di Lovecraft, le sue Opere Oniriche e penso a Mary Shelley. 

Sul lago di Ginevra, Svizzera, Cologny, nell’agosto del 1816, a Villa Diodati, arriva una giovane donna – ha solo diciotto anni – di nome Mary Goodwin, insieme al futuro marito Percy Bysse Shelley (dal quale prenderà il cognome, diventando così la Mary Shelley che tutti conosciamo, l’autrice di Frankenstein). Sono ospiti di Lord Byron che ha preso in affitto la villa da giugno a novembre, per tutta quella che sarà un’orribile e gelida stagione.

L’anno senza estate, lo chiamarono in seguito: mesi prima, l’eruzione di un vulcano nelle Filippine aveva raffreddato l’atmosfera. Villa Diodati, che prima si chiamava Villa Belle Rive, è una tenuta sulle sponde del lago. Ora è dipinta di giallo chiaro, ha le persiane verdi (tantissime persiane a proteggere infinite finestre) e un colonnato che protegge un portico.

Per passarsi il tempo, visto che sono letteralmente confinati in casa perché il freddo, piove e di gite e di barche non se ne parla, gli ospiti della villa si sfidano a scrivere storie dell’orrore. Mary non ha nessuna idea per la testa e se ne cruccia, ma una notte fa un sogno.

Così scrive nella prefazione di Frankestein: “Durante una di queste (serate) si discusse di varie dottrine filosofiche, della natura dell’origine della vita e della possibilità di scoprirne e decifrarne la vera essenza. Si parlò anche degli esperimenti del dottor Darwin (non di ciò che egli ha realmente fatto o affermato di aver fatto, ma di quanto si diceva allora che avesse fatto, cosa molto più interessante per il mio intento), il quale aveva conservato sottovetro un segmento di vermicello finché non si era mosso, sospinto da un’energia di origine ignota.

Ma dopotutto ciò non significava “dare la vita”. Forse un cadavere poteva essere rianimato: con il galvanismo si era ottenuto qualcosa del genere; forse le diverse parti di un corpo potevano essere manipolate, riunite e animate da un nuovo soffio vitale. 

Scese la notte su questi discorsi ed era già trascorsa l’ora delle streghe allorché ci ritirammo per dormire. Ma quando poggiai la testa sul guanciale non potei prendere sonno e neppure potrei dire che stessi pensando. L’immaginazione, senza che lo volessi, si impadronì di me guidandomi: le immagini si susseguivano nella mia mente vivide come non mi era mai accaduto prima, travalicando i confini consueti della fantasticheria.

“Potrei sopportare molte altre assenze, ma quella dei sogni no, la troverei intollerabile, quanto l’assenza della lettura e della scrittura, anzi, forse peggio”.

Vedevo – a occhi chiusi ma con la mente ben desta – lo studioso di una scienza sacrilega, pallido, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme. Vedevo l’orrida forma di un uomo disteso, poi una macchina potente entrava in azione, il cadavere mostrava segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale. Doveva essere terrificante: come terrificante sarebbe l’effetto di qualsiasi opera umana che riproducesse lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo.

L’artefice è atterrito dal proprio successo. Pieno d’orrore fugge da quella sua spaventosa creatura. Forse spera che, abbandonata a se stessa, la debole scintilla di vita che vi ha acceso si spegnerà; che quella cosa cui ha dato un’animazione così imperfetta sarà risucchiata nella morte.

Potrebbe addormentarsi, certo che il silenzio eterno della tomba calerà sull’attimo di vita di quell’essere orrendo al quale egli aveva guardato come alla cuna della vita. Scivola nel sonno, poi si scuote, riapre gli occhi: la cosa è lì, in piedi, accanto al suo letto, ne sta aprendo le cortine e lo fissa con occhi giallastri e acquosi, ma penetranti. 

Io aprii i miei per il terrore. La visione mi possedeva a tal punto da darmi brividi di paura; volevo sostituire quelle fantasie orripilanti con la rassicurante realtà che mi circondava. La rivedo ancora adesso nei particolari: la stanza, il parquet scuro, la luna che tentava di penetrare attraverso le persiane chiuse, e la consapevolezza del lago ghiacciato e delle alte cime innevate delle Alpi al di fuori. Non riuscivo a scacciare quel fantasma pauroso, mi perseguitava”. 

Mary la chiama “visione”, dice che aveva gli occhi chiusi ma la mente lucida, però, da come la descrive, questa visione, dà l’idea di essere una di quei momenti che stanno a margine tra sonno e veglia. Lì, sulla soglia lei vede un uomo che assembla una creatura e le dà vita: così nasce il Prometeo Moderno, Frankenstein.

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Ciò che nel sogno sperimentiamo come ambiguo, difforme e meraviglioso, una volta raccontato, trascritto, tende a perdere splendore. Ma non è sempre vero, come dimostrano appunto Frankenstein, o la Commedia di Dante, opera che nasce da un sogno e che essa stessa è un sogno, attraversato da sogni, cominciato all’alba di un Venerdì Santo. 

Fantascienza, dunque, regni del fantastico, certo, ma tutta la letteratura di ogni latitudine e tempo, da sempre, di sogni si nutre e attraverso i sogni racconta, inventa esorcizza, trasforma. “Smisurata, nell’impero delle misure” scriveva la poetessa russa Marina Cvetaeva in un suo verso e, in effetti, è così che ci ritroviamo, nel territorio dei sogni, smisurati, come Alice nel paese delle Meraviglie

Sempre tenuto, fin da quando ero bambina, un quaderno dei sogni e tante volte, in momenti di ristagno creativo, a quei quadernetti gonfi di appunti sono tornata per cercare tracce, immagini, emozioni: possibilità alternative per tentare di agganciarle e riportarle di qua.

Sono convinta che la nostra vita onirica sia non meno reale di quella vera. Costituisce una seconda memoria del nostro passaggio sulla terra, in questa incarnazione di esistenza, ma porta dentro di sé la traccia di qualcosa che ci trascende individualmente e si riconnette alla memoria della specie umana e forse non solo, visto che i nostri sogni sono popolati di creature animali che attraverso di noi e viceversa vedono, sentono, patiscono.

Sì, ho letto Jung. Confesso. E confesso anche un cruccio che mi costa ammettere, ma che ho: da quando sono diventata madre non sogno più con la stessa libertà di prima. La maternità mi ha relegato visioni diurne, ma mi ha tolto un bel po’ di sogni notturni. Non tutti e non sempre ma direi molto più che spesso visto che mio figlio si sveglia sempre almeno cinque minuti prima di me – e del trillo della sveglia – e compare sulla porta della mia stanza già pieno di energia e con l’eloquio a macchinetta.

È invece è proprio quella soglia del risveglio, per me, la porta magica dalla quale riportare i preziosi contenuti del sonno, dall’abisso al quotidiano, e basta un attimo, uno soltanto, per perderli in via definitiva. Nonostante i tappi per le orecchie e il mio mugugnare rigirandomi col cuscino premuto in faccia per riconoscere i filamenti luminosi che si allontanano da me in un altrove mai più raggiungibile, io provo una profondissima rabbia e una feroce tristezza incomunicabili a un ragazzino di undici anni.

Il mondo onirico mi è necessario perché io possa sopravvivere allo schiacciante reale, e così scarabocchio, con la prima matita o penna che trovo, degli appunti confusi sugli spazi bianchi di un libro abbandonato a terra la sera prima. Un giorno forse mio figlio mi perdonerà per i miei risvegli rancorosi e io perdonerò lui per il suo assalto al mio giardino onirico, capirà che ero ancora di là, dall’altra parte, oltre la soglia del mistero, in un mondo incomunicabile se non per trasmutazione letteraria.

Devo ammetterlo, i miei sogni sono bellissimi anche quando sono brutti. Anche quando si tratta di incubi che mi costringono a svegliarmi nel cuore della notte o alle porte dell’alba sudata fradicia e con il cuore in gola, sono belli esteticamente. Piccoli capolavori che assomigliano a possibili cortometraggi di Louis Buñuel o David Lynch, di Bergman o di Fellini, maestri di sogni su celluloide. A dipinti di Louise Bourgeois o Frida Kahlo.

Poco tempo fa ho sognato una mia carissima amica al bosco dove spesso passiamo le domeniche con amiche e amici e bambini. Era vestita di blu e azzurro, tulle e voile e in mano aveva un ombrellino da sole di quelli che usavano le donne nell’Ottocento. All’improvviso, un vortice d’aria le sollevava il vestito e poi la rapiva verso l’alto e la mia amica volava nel cielo con l’ombrellino dispiegato e rideva, rideva come una pazza, come in un quadro di Chagall mentre io e mio figlio restavamo a terra sconcertati.

Cosa dice questo sogno? Cosa dice di me, e a me? Pensateci, per voi quale potrebbe essere il significato? In termini generali io ci vedo un volo verso la libertà, uno staccarsi dalle regole quotidiane che ti inchiodano alla logica inflessibile, alla razionalità. Lo slancio vitale e ribelle verso l’ignoto, il folle, lo sconcertante. Cosa dice a me, di me, questo sogno, in questo momento preciso della mia vita? Che sto planando verso la libertà o che sono inchiodata? Certamente che desidero quello slancio.

E poi c’è il blu, il blu di quel vestito magico, il colore dell’abito di Cenerentola, il colore del sentimento, della sensibilità, della saggezza che Kandinsky cercava di spiegare così: “L’azzurro è simile a un flauto, il blu scuro somiglia a un violoncello e, diventando sempre più cupo, ai suoni meravigliosi del contrabbasso; nella sua forma profonda, solenne, il suono del blu è paragonabile ai toni gravi dell’organo”.

“Ciò che nel sogno sperimentiamo come ambiguo, difforme e meraviglioso, una volta raccontato, trascritto, tende a perdere splendore”.

I sogni raccontati spesso sono noiosi per chi li ascolta e però questa è una costante nelle nostre vite: raccontarci i sogni a vicenda con le persone più care, quelle che condividono con noi la quotidianità. È un esercizio di intimità spaventosa condividere i contenuti del mondo onirico senza barare, ci si mette a nudo e, infatti, sono pochissime le persone con cui ci sentiamo di farlo.

Lalla Romano, scrittrice atipica e coraggiosa, nel 1951 tenta con Le metamorfosi primo volume dei Gettoni Einaudi scelto da Elio Vittorini, un’operazione rischiosa: un testo in prosa nel quale raccoglie i sogni sognati da lei stessa e da altre persone care cercando di riportali così come sono stati sognati.

Cosa ne faranno, le lettrici e i lettori, di questi sogni altrui? Ne escono brani che si avvicinano alla fiaba, al mito. Narrazioni senza tempo, immerse in una luce abbagliante, che dopo decenni riecheggiano di significati anche per chi non li abbia sognati in prima persona.

Incredibile la coincidenza di due libri che ho letto contemporaneamente, per pura attrazione, naso, intuito, senza saperne quasi nulla. In un caso conoscendo e amando da anni l’autrice, Anne Carson, della quale l’editore Utopia sta pubblicando tutte le opere di saggistica, e si tratta di Decreazione, nell’altro di una prima assoluta, per me, ovvero Olivia Laing, scrittrice e critica letteraria britannica, con il suo Gita al fiume: un viaggio sotto la superficie uscito per Il Saggiatore.

Secondo la mia abitudine di incominciare più testi contemporaneamente, mi sono ritrovata presto ad avere le vertigini, a sperimentare un senso di confusione: quale stavo leggendo delle due? I due libri risuonano l’uno dentro l’altro, con un’eco involontaria, ma davvero sconcertante.

Il libro di Olivia Laing è, letteralmente, un viaggio, compiuto dall’autrice nel 2009 alla scoperta di un fiume, l’Ouse, nel Sussex, Inghilterra. Lo stesso fiume in cui Virginia Woolf si annegò, con le tasche piene di sassi, il 28 marzo del 1941, dopo aver scritto una serie di lettere, averle indirizzate, chiuse e posate sopra la mensola del camino.

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Come spiego a mio figlio che quando sogno sto lavorando? -

Chissà che sogno aveva fatto, la notte precedente, Virginia e se ne aveva fatto uno. Woolf la cui scrittura è costellata di sogni, intrisa di quella che Carson chiama “sostanza” del sonno. Una scrittrice, Woolf, capace di raccontare per pagine e pagine il sonno degli abitanti di una casa e il sonno della casa stessa, e di questo parla Anne Carson, nel breve saggio Ogni uscita è un’entrata (Elogio del sonno) che compare in apertura del suo Decreazione.

E Laing: “Quasi la carne si dissolvesse” è una sua frase caratteristica: le metafore con cui Virginia Woolf descriveva il processo della scrittura, l’ingresso nell’universo onirico in cui lei era al suo meglio, sono fluide: tuffarsi, inondare, immergersi, essere sommersa. È stato questo suo desiderio di addentrarsi negli abissi ad attrarmi verso di lei…”

Gli stessi verbi possono essere utilizzati per creare metafore sul sonno perché acqua, abissi e sonno e sogni sono appunti compartecipi: fatti della stessa “sostanza” immateriale ma in fondo no, materiale: acquatica, vischiosa, collosa. 

E indietro nel tempo, entrambe, Carson e Laing arrivano fino all’Iliade che è un infinito racconto di addormentamenti, risvegli e sogni. Sogni che possono essere premonitori e forieri di sciagure o di fortune insperate. Seguirli? Non seguirli? Crederci, non crederci? E cosa farne dei sogni brutti? Guardarli, lasciar loro dire quello che devono dirci.

Ne ho trascritto uno durante il primo lockdown, nel 2021: “stanotte facevo l’ora d’aria in mezzo a persone spaventate in una città brumosa, buia. Una piazza quadrata circondata da portici angusti. Camminavamo in traiettorie casuali avanti e indietro, io e tutti questi sconosciuti, uomini e donne con gli occhi bassi, le mascherine, le mani guantate in tasca o strette al petto.

All’improvviso serpeggiavano piccoli gesti di rivolta che subito venivano sedati con la violenza da altri che sembravano come noi ma erano invece guardie armate. Capivamo subito che i gesti di rivolta erano provocati ad arte e che la finalità era quella di far convergere quante più persone possibili in uno spazio chiuso da muri e un pullman messo di traverso.

Come polli in batteria, o animali da macello: stretti gli uni agli altri, tremanti, ormai consapevoli che la nostra prossimità fisica – i respiri mescolati, il sudore, l’inevitabile contatto tra parti di corpo esposte – ci condannava agli occhi dell’autorità. E così vedevamo scendere dal cielo una copertura di plastica e sapevamo che gli aghi di un’arma simile a un’immensa macchina da cucire sarebbero calati dall’alto a perforarci le pupille.

So di essere morta, stanotte. Stretta ad altri, spaventati e impotenti quanto me. So di essere risorta, stamattina, quando ho aperto gli occhi ed erano intatti e io ero ancora qui, con mio figlio di sette anni e dieci mesi chiuso dentro una stanza al buio, con le candeline accese e una coperta sulle ginocchia, come se non volesse più lasciar andare il conforto della notte. Ho spalancato la finestra, ho fatto entrare l’aria e lasciato uscire gli incubi”.

A volte, come in questa, i sogni si ricordano con dettagli precisissimi, altre volte resta soltanto lo stato d’animo che ci hanno provocato e che può persiste per molte ore, a volte per un’intera giornata, fino al nuovo ciclo del sonno che, da capo, ci porterà in un’altra stanza segreta.

“Da quando sono diventata madre non sogno più con la stessa libertà di prima. La maternità mi ha relegato visioni diurne, ma mi ha tolto un bel po’ di sogni notturni”.

Esistono persone meteoropatiche ed esistono persone, come me, oniropatiche: si può usare, questo termine? Che importa, lo uso, l’ho coniato adesso, mentre riassaporo con la mente l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Il passeggero, e miracolosamente mi sembra ritrovare anche qui il filo onirico che sto seguendo da settimane.

Il passeggero è colmo di sogni, un sogno esso stesso, forse: personaggi che sognano di altri personaggi, voci che si intrecciano e si raccontano sogni tra loro. Sogni come presagi e prefigurazioni, come moniti, come nostalgie di un tempo perduto che non potrà mai più tornare. Sogni come micce che accendono idee, trovano soluzioni.

In Stella Maris, il volume che seguirà questo appena pubblicato che è il seguito de Il passeggero, e qui mi affido al bellissimo articolo di Cesare Sinatti uscito su «La Balena Bianca»:

“McCarthy discute le potenzialità dell’inconscio, utilizzando come esempio centrale il famoso aneddoto per cui il chimico tedesco August Kekulé avrebbe ricevuto in sogno la soluzione a un problema su cui rifletteva da tempo, ovvero come immaginare la struttura di una molecola di benzene: nel sogno di Kekulé sarebbe infatti comparso un serpente che si morde la coda, permettendogli di indovinare la struttura circolare della molecola.

Per McCarthy, la possibilità di risolvere problemi in sogno è significativa nel dimostrare l’esistenza di operazioni mentali complesse che restano però del tutto inconsce, tra le quali spicca, come esempio lampante, l’espressione linguistica.

Riprendendo Wittgenstein (che si affaccia qua e là tanto nelle meditazioni di Alicia quanto nelle interviste rilasciate dall’autore), McCarthy sostiene infatti che buona parte dell’espressione linguistica quotidiana non pianificata avvenga esprimendo linguisticamente contenuti mentali fino a poco prima inconsci, che vengono in qualche modo tradotti istantaneamente in parole comprensibili dalla loro originale forma prelinguistica”.

Pare che l’umanità, soprattutto in Occidente, stia progressivamente perdendo la capacità di sognare: sogniamo poco, male, o non ricordiamo i sogni. E non perché siamo stati colpiti da una qualche lesione della corteccia visiva, ma perché o ci teniamo a distanza da contenuti troppo incandescenti per volerli ricordare, o perché siamo spesso sotto effetto di sostanze che ci aiutano a prendere sonno ma che ottundono la creatività onirica, o, ancora, perché dormiamo troppo poco e la veglia ci appare molto più importante – produttiva – del sonno che percepiamo ormai come una porzione di vita sprecata.

Come spiego a mio figlio che quando sogno sto lavorando? -

Io sono di tutt’altro avviso. Forse perché leggo e scrivo e dunque so bene quanto i sogni mi siano utili al lavoro, ma credo che questa facoltà andrebbe coltivata il più possibile mettendoci in condizione di dormire il numero di ore giusto, nel modo giusto per ciascuna e ciascuno, proprio per non perdere questa opportunità di attraversare una soglia e intrattenerci in un mondo che ci appartiene e al quale apparteniamo in un modo molto più libero, arcano e primitivo di quanto non ci appartengano le ore di veglia.

Per quanto mi riguarda, ho fatto un sogno, questo: che non smetterò di vivere finché continuerò a sognare e finché continuerò a vivere, continuerò a sognare. Questo pensiero è uno dei più dolci che io possa pensare ed è foriero di una felicità segreta e profondissima, una sorgente interna di un liquido che sgorga limpido o nero, non importa, ma è la cosa più viva che io riesca a immaginare. Finché non ti rubano i sogni notturni, che siano in technicolor in bianco e nero, lievi o orrorifici, tieni stretta te stessa o te stesso, la tua parte più intima e incoercibile.

Grazie GGG (grande gigante gentile) che conservi i sogni delle persone e glieli vai a portare quando servono. Ecco, anche di questo io sono convinta, che Roald Dahl, il GGG non se lo sia inventato, ma lo abbia sognato e siccome ciò che è sognato è reale, il GGG, da qualche parte esiste ed è lì a proteggere le fragili sfere e i barattoli di vetro nei quali sono conservati i sogni futuri, pronto a soffiarceli dentro la stanza mentre dormiamo, al momento più opportuno. 

Simona Vinci

Simona Vinci è scrittrice. Il suo ultimo libro è L’altra casa (Einaudi, 2021).

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