"Kaos" dimostra che il mito è ancora vivo - Lucy
articolo

Maddalena Giovannelli

“Kaos” dimostra che il mito è ancora vivo

23 Settembre 2024

La serie risulta essere una delle più viste su Netflix, è non è un caso. Ben scritta e congegnata, attualizza il mito in modo intelligente e dice qualcosa sul nostro destino, senza per questo prendersi sul serio.

Zeus fa capolino dalle nuvole come un boss mafioso: occhiali fumé, vestaglia e tuta acetata. l’immagine promozionale di Kaos (produzione UK, 8 puntate da circa 50 minuti l’una) può forse spaventare i palati più raffinati. Vale la pena andare oltre, perché la serie non è solo una boccata di aria fresca tra le offerte di Netflix, ma addirittura un caso di studio su come il mito possa essere riscritto in modo vitale e antidogmatico.

La mente del progetto è Charlie Covell, una laurea ad Oxford alle spalle e una passione smodata per la cultura antica: “I was a massive nerd”, ha dichiarato in un’intervista a «Cosmopolitan» e, dopo aver finito la serie, non si stenta a crederci. La sua scrittura – come già dimostrato nella precedente The End of the F***ing World – si muove a passo di danza nelle ampie intersezioni tra fantasy e realismo, con dialoghi intelligenti, comici, di rado prevedibili.

La voce narrante di Kaos è Prometeo (Stephen Dillane), che ci parla incatenato a una rupe mentre, Eschilo docet, un’aquila gli mangia il fegato. Dillane guarda in camera, sibillino e ammiccante come Frank Underwood in House of Cards, e ci svela i suoi piani: vuole far crollare il regno degli dei. Nel corso delle otto puntate, scopriremo che i complici della rivoluzione sotterranea sono più numerosi e più potenti di quello che immaginiamo, e anche i motivi per cui l’autocratico re del cielo (Jeff Goldblum) viene definito dal suo antagonista “a transcendent bastard”. 

Come in ogni narrazione sul potere che si rispetti, i conflitti parentali hanno conseguenze pubbliche e indeboliscono chi siede sul trono. Anche sull’Olimpo (una villa di lusso, con scale marmoree) la famiglia è disfunzionale: i fratelli di Zeus si muovono tra l’ansia di compiacerlo e il desiderio di tradirlo, i figli neanche gli rispondono al telefono (“Come on, it’s papooza!”), e tutti cercano di stare alla larga da casa, anche se a tavola si beve elisir di immortalità e si gode di un ottimo panorama sul mondo. Poseidone preferisce vivere a bordo del suo yacht e aprire aragoste a mani nude, Dioniso ama frequentare i club e gli umani, mentre Ade e Persefone gestiscono pratiche di smaltimento anime nell’Oltretomba e salgono malvolentieri alla luce del sole. 

Era (Janet McTeer, superba) assomiglia a una Lady Macbeth crudelissima e intelligente, suo marito è invece un tiranno da cartoon che tutti riescono a raggirare, così spesso da farci dubitare che sia davvero temibile. Ma la storia – anche quella recente – insegna che un potente ridicolo e stupido può essere assai pericoloso, e su questo aspetto la serie è filologica: gli antichi greci sapevano ritrarre gli dei come buffoni da commedia, eppure non dimenticavano di fare sacrifici per placarli. 

Kaos fa parlare e utilizza il mito antico su almeno tre piani differenti, a diversi gradi di profondità. Si comincia dalla girandola vivace delle rivisitazioni, che spazia dal ripensamento fantasioso di alcune figure (le Erinni sono tre minacciose motocicliste butch, ovvero una personificazione del senso di colpa che ti insegue in autostrada), alle nomenclature scanzonate (i cereali “Tallone d’Achille”, il condominio “Villa Tracia”), fino ai piccoli giochi costruiti ad hoc per mandare in visibilio i nerd come Covell (Medusa, quando schiaccia un pisolino, chiede ai suoi capelli-serpenti di svegliarla, mentre un mistico baracchino “Il Fato del Falafel” dispensa panini e consigli come un oracolo).

L’immaginario sull’antichità è poi utilizzato come dispositivo metanarrativo, con un felice superamento della diatriba stantia tra distanziamento e attualizzazione. Il vecchio caro Mighty Aphrodite di Woody Allen (1995, distribuito in Italia come La dea dell’amore) ha fatto scuola e Netflix ha imparato la lezione: nel film – un classico di genere che regge bene il passare del tempo – gli episodi ambientati nella mondana New York si alternavano a interventi lirici di commento da parte di un coro greco doc, con tanto di tuniche, maschere e calzari. Anche in Kaos la realizzazione pedissequa delle nozioni da manuale sulla grecità, accostata senza timore di incoerenza ai linguaggi e ai temi del presente, crea di per sé un effetto comico; ma ha anche la funzione di strizzare l’occhio allo spettatore, un invito brechtiano a non immedesimarsi troppo, a guardare i personaggi come gli dei guardano gli umani, senza giudizio e  senza drammi.

Covell sembra aver meditato a lungo anche sulla nozione stessa di mito, inteso nella sua ambiguità epistemologica di racconto fondativo ma anche fittizio. Nel plot, quasi tutti i personaggi sono ossessionati da una profezia (ognuno la riceve dal fato alla nascita); è un tormento soprattutto per gli umani che non riescono a interpretarla (Minosse, Arianna, Euridice), ma persino Zeus rilegge quotidianamente la sua, certo di non poterle sfuggire. In uno dei passaggi più belli e conturbanti dell’ultimo episodio, il re dell’Olimpo chiede alle Moire se sia possibile scampare al proprio vaticinio: “se decidi che non esiste, non esiste”, rispondono salottiere, come se fosse cosa di poco conto, “esiste la possibilità che si realizzi, ma sei tu a farlo accadere”.

Come a dire che siamo spesso noi ad attuare il destino che ci hanno assegnato, e a scrivere alla cieca biografie che non riusciamo a leggere con sufficiente distanza. Non sono pochi gli snodi della sceneggiatura che insistono sul tema: nel quinto episodio, Arianna viene costretta a guardare la propria vita da uno schermo come se fosse la puntata di una sit-com, mentre le Erinni sgranocchiano pop-corn; nell’ottavo, Persefone chiede a Era perché mai abbia messo in giro la favola (falsa) del suo rapimento da parte di Ade. L’arco drammatico della serie, dunque, coincide anche con un atto di progressiva demolizione e smascheramento di miti, sul piano personale, collettivo e politico: un’ode alla bellezza delle narrazioni, e allo stesso tempo un invito a decostruirle. 

Emerge nitida, in controluce, la postura anti-patriarcale di Covell, che mostra gli abusi di un potere tutto maschile, concede l’intelligenza quasi solo ai personaggi femminili e affida il ruolo del salvatore a un eroe transgender (Ceneo, una figura secondaria nel mito, qui fondamentale). Proprio per queste ragioni, Kaos è una serie adatta anche a chi si interroga con preoccupazione sui possibili risvolti moralistici della cultura woke. I temi sono à la page, l’eccellente cast è un meraviglioso caleidoscopio di diversità per geografie e generi, ma non aspettatevi il trionfo del politicamente corretto: si tagliano lingue di donna e si uccidono neonati, si ride sui tradimenti e sugli incesti, nel letto con il proprio partner si finisce facilmente accoltellati, l’amore più che un sentimento pare una distrazione che distoglie dalle grandi gesta, la solidarietà tra simili e l’aiuto reciproco sono rari e transitori. Kaos è crudele e sanguinaria quanto Game of Thrones (che aveva già saccheggiato ampiamente la mitologia antica, senza dichiararlo), ma si prende meno sul serio: non pretende davvero di rappresentare l’essere umano e le sue costanti nel tempo. È piuttosto un inno alla possibilità dell’autodeterminazione, a una liberatoria incoerenza, al non essere quello che è stato scritto per noi.

Maddalena Giovannelli

Insegna all’Università della Svizzera Italiana e si occupa di teatro antico nel contemporaneo. Scrive su «Domenica» del Sole 24 Ore, «Stratagemmi», «Doppiozero».

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