Giuliano Malatesta
11 Luglio 2025
Trent’anni dopo, il processo di elaborazione e assunzione di responsabilità per una delle vicende tra le più drammatiche della storia recente europea (anche per le responsabilità dell’ UNPROFOR) è ancora difficile: i serbi negano il genocidio, mentre i bosgnacchi cercano ancora i loro morti.
L’11 luglio del 1995, mentre le unità dell’esercitò della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina guidate dal generale Ratko Mladić entravano a Srebrenica, il comandante dell’UNPROFOR Hagrup Haukland si godeva le sue vacanze in Norvegia.
Eppure, qualche giorno prima il colonnello colonnello Charles Brantz, Comandante delle Nazioni Unite per la Bosnia nord-orientale, lo aveva chiamato più volte, implorandolo di tornare, vista la gravità della situazione: già da giorni infatti, l’esercito serbo-bosniaco circondava la città con intenzioni bellicose.
Srebrenica era vulnerabile e particolarmente invisa ai serbi di Bosnia: una “zona protetta” creata nel 1993 dalle Nazioni Unite per garantire la protezione dei civili bosniaci, quasi tutti musulmani, in una area del paese serbizzata. Per riscrivere i confini della nuova Bosnia, i serbi miravano a prendere il controllo della città.
Nonostante l’imminenza dell’offensiva serba, Haukland, pur essendo responsabile della forza di peacekeeping incaricata di tutelare i civili rifugiatisi a Srebrenica, non ritenne necessario interrompere le sue vacanze. Tornò in Bosnia solo il 14 luglio, quando il più grande genocidio avvenuto in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale era già stato compiuto.
Più di 8000 morti. 8372 per la precisione, come ricorda l’iscrizione che accoglie i visitatori all’ingresso del Memoriale di Potočari, dove i nomi e le date di nascita di tutte le vittime sono incise in ordine alfabetico. Le lapidi si estendono per la collina, dietro il muro della memoria, in sette spiazzali disposti a forma di petali di fiore. Su ognuna di esse sono incise le stesse parole: “Non dite che sono morti. No, sono vivi, ma non potete udirli”. Nel 2023 una risoluzione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, con il voto contrario di Cina, Russia e Serbia, ha istituito l’11 luglio come giornata di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica. E l’11 luglio è anche il giorno in cui ogni anno vengono tumulati i resti dei corpi trovati grazie all’analisi del DNA. Un’impresa ardua, considerato che i corpi furono prima gettati in fosse comuni, e poi riesumati e posizionati altrove per renderne più difficile il ritrovamento.
Ancora oggi si stima che le vittime di Srebrenica non identificate siano circa un migliaio, ed è plausibile che esistano, da qualche parte, fosse comuni mai scoperte.
“Non dimenticherò mai la paura nei loro occhi mentre uscivano dalla zona protetta: sapevano benissimo a cosa stavano andando incontro”, mi racconta Gerry Kremer, con un tono di voce che anche a distanza di decenni mantiene viva tutta la sua indignazione. In quei giorni, Kremer lavorava come medico militare per le forze olandesi dell’Onu, il famigerato battaglione Dutchbat di stanza a Srebrenica, che di fronte alle minacce e alle intimidazioni di Mladić – ad esempio: dopo aver convocato in albergo due ufficiali Onu, fece portare un maiale e lo sgozzò in loro presenza – e alla sproporzione numerica di forze, non provarono nemmeno a opporre resistenza, abbandonando i civili bosniaci, inermi e disarmati, al loro destino.
“Più di 8000 morti. 8372 per la precisione, come ricorda l’iscrizione che accoglie i visitatori all’ingresso del Memoriale di Potočari, dove i nomi e le date di nascita di tutte le vittime sono incise in ordine alfabetico”.
La storia che segue è tristemente nota. L’esercito della Repubblica Srpska, comandato sul campo da Ljubiša Beara, ex ufficiale di alto rango dei servizi di sicurezza della JNA (l’Armata Popolare Jugoslava), si recò davanti alla sede della missione Onu a Potocari, dove migliaia di sfollati dell’area intorno a Srebrenica si erano accalcati già nei giorni precedenti con la speranza di trovare rifugio. I soldati spedirono donne e bambini nella zona di Tuzla, nel territorio controllato dal governo bosniaco, mentre uomini e ragazzi vennero stipati come animali in scuole, palestre e case della cultura, giustiziati e gettati nelle fosse comuni. A Kremer, come agli altri soldati, fu ordinato di mettersi in salvo e di rientrare nel bunker, che si trova davanti al Memoriale e che nel 2003 è stato trasformato in un museo. “Rifiutai l’ordine perché c’erano molti feriti e io ero un chirurgo, quindi vincolato al mio dovere dal Giuramento di Ippocrate. Ma rimasi solo. Gli altri avevano paura delle conseguenze del rifiuto di un ordine militare. Per lungo tempo mi sono vergognato del mio Paese”. Oggi, accanto al Memoriale, una scritta difficile da non condividere recita: “Srebrenica: a failure of the international community”.
Paolo Rumiz, inviato di guerra e raffinato conoscitore di vicende balcaniche, ha scritto che chi è sopravvissuto a Srebrenica “non può avere sentimenti in corpo e chi non l’ha conosciuta non può dire di aver visto la verità sulla guerra in Bosnia”.
Sulla genesi e le motivazioni che hanno prodotto un genocidio di tale proporzioni chiedo lumi a Ivica Dikic, giornalista, scrittore e autore di Metodo Srebrenica (una nuova edizione è uscita nei giorni scorsi per Bottega Errante Edizioni). Un libro che utilizza la forma del romanzo – il modello dichiarato è Anatomia di un’istante dello spagnolo Javier Cercas – per provare a comprendere la natura del genocidio.
“Credo sia impossibile arrivare a un risposta chiara, almeno da un punto di vista razionale”, risponde Dikic. “Posso dire che l’azione del generale Mladić fu dettata da un sentimento di odio e di vendetta e fu condotta con una percezione psicopaticamente distorta della realtà; e che gli altri partecipanti al genocidio, parliamo di centinaia di persone, eseguirono l’ordine più o meno meno convinti della correttezza di ciò che facevano”.
L’apparato ideologico alla base delle guerre mosse dalla Serbia contro i suoi vicini, va ricercato nel mito della “Grande Serbia”. Quello della “Grande Serbia” è un concetto nazionalistico teso a riportare la Serbia ai fasti del suo breve impero, risalente al XII secolo e terminato con la sconfitta di Kosovo Polije nel 1389, quando l’esercito del principe Lazar venne sconfitto dai turchi. Per questo Mladić, all’indomani del genocidio di Srebrenica, parlerà di “vendetta contro i turchi”. Slobodan Milošević fu abile a sfruttare la paura e il rancore verso “i turchi” (i bosgnacchi, ma anche gli albanesi) in una fase storica caratterizzata dall’incertezza seguita alla disgregazione post-Tito. Significativamente, il concetto di “Grande Serbia” è pressoché identico a quello di “Grande Russia”, utilizzato da Putin per giustificare l’annessione dell’Ucraina.
Se per molti serbi il mito nazionalistico e il desiderio di vendetta nei confronti dei turchi erano argomentipersuasivi, per il colonnello della Repubblica Serba di Bosnia Ljubiša Beara, si trattò banalmente di un comportamento di ordinaria obbedienza, per “conquistarsi la fiducia di Mladic e lavare definitivamente i peccati del passato comunista”.
L’odio interetnico “è stato in larga misura prodotto da fattori politici, ma non è stato creato in laboratorio”, aggiunge Ivica Dikić. Durante tutti i quarantacinque anni del governo di Tito, il sospetto nei confronti dell’altro covava sotto la superficie. Questo odio è stato una conseguenza delle questioni irrisolte della Seconda guerra mondiale”.
A trent’anni dal genocidio e dagli Accordi di Dayton del novembre 1995, che sancirono la fine della guerra di Bosnia e riscrissero goffamente i confini della regione basandosi sulle cosiddette “mappe etniche”, Srebrenica è una città che non riesce a voltare pagina. Oggi, dei numerosi pullman che ogni giorno si fermano a visitare il memoriale di Potočari, quasi nessuno si spinge fino in città, che pure è appena qualche chilometro più in là. Prima della guerra ci vivevano circa 36.000 abitanti, oggi meno di un terzo, più o meno. “Più o meno” perché l’ultimo censimento risale al 2013. Da queste parti hanno smesso anche di contare i vivi.
La città, che con la spartizione per mappe etniche stabilita dagli accordi di Dayton è passata nelle mani deI serbo bosniaci – che continuano ostinatamente a negare il genocidio e a sostenere velleitarie posizioni separatiste al punto da far tornare la tensione sopra i livelli di guardia – ad aprile, il memoriale di Srebrenica è stato chiuso per qualche giorno in via precauzionale e la Ue ha contestualmente aumentato la presenza di truppe EUFOR sul territorio di circa 400 unità –, ha perso tutto: le vecchie fabbriche, il turismo termale (le acque di Srebrenica e dintorni erano note per la cura dell’anemia), la speranza di un futuro. Le rovine del Domavia, ex lussuoso hotel-spa, raccontano di un tempo che non è più tornato. Oggi, camminando si incontrano solo saracinesche abbassate, fatta eccezione per un caffè e un paio di locali dove mangiare. Lo scorso anno ha chiuso anche l’ultima pasticceria, per mancanza di clienti. Si chiamava Slatki zolaj ed era gestita da una coppia mista, lui serbo bosniaco, lei bosgnacca.
Sulla pendici di una collina, nei pressi di una chiesa ortodossa, alcune anziane signore stanno discutendo della prossima Marš Mira. La Marš Mira è la marcia della pace che si tiene ogni 8 di luglio, quando dal villaggio di Nezuk migliaia di persone si mettono in cammino per raggiungere il memoriale di Potočari. La marcia, che dura 3 giorni, ripercorre a ritroso una storia meno raccontata: la fuga collettiva di circa quindicimila bosgnacchi che, non confidando nella protezione dell’Onu, scelsero di partire a piedi con l’intenzione di raggiungere Tuzla, città sotto il controllo dell’Esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. Suddivisi in gruppi per cercare di sfuggire alle imboscate dei serbi, alcuni riuscirono a Tuzla dopo sei giorni di cammini, altri vagarono per la Bosnia orientale per mesi, attraverso le foreste. Circa la metà di loro non giunse mai a destinazione.
“Ho percorso la Marš Mira due volte, nel 2005 e nel 2010 -– ricorda Gerry Kremer – e a luglio per i trent’anni sarò ancora lì Per l’ultima volta”.
Giuliano Malatesta
Giuliano Malatesta è giornalista professionista e sociologo. Ha lavorato all’Ansa, la Cbs, «Il Messaggero», «Il Venerdì di Repubblica», «il manifesto». Ed è inoltre autore per Arcana, Giulio Perrone Editore, 66thand2nd.
newsletter
Le vite degli altri
Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.
La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.
Contenuti correlati
© Lucy 2025
art direction undesign
web design & development cosmo
sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga
00:00
00:00