Benedetta Fallucchi
Pur essendo un evento naturale, la gravidanza nel corso del tempo è stata via via privata della sua narrazione intima e sociale e viene oggi trattata come una condizione medica, conoscibile solo con dati e referti che poco hanno a che fare con i racconti delle donne che ne fanno esperienza diretta. Quali sono gli effetti di questo fenomeno, e come arginarli?
“Voi donne, se non sanguinate, andate subito in crisi”. Se ne è uscito così, il mio ginecologo, con un tono che oscillava tra il derisorio e il paternalistico. Ero andata per una visita di routine e lamentavo il fatto che l’utilizzo della spirale mi impedisse l’abituale e tranquillizzante scrutinio del flusso delle mestruazioni. L’esprit de l’escalier si è messo tra me e l’immediata e adeguata replica; eppure sulla punta della lingua si è presto posato un nome, quello del nume che avrei voluto evocare a mia difesa: Johann Pelargus Storch! Lui sicuramente avrebbe prestato ascolto ai miei fastidi, gli umori, la hyle!
Storch: giustamente vi chiederete chi fosse. Neanche io lo saprei se non fossi incappata nei suoi resoconti, a dire il vero alquanto bizzarri per la nostra sensibilità odierna. Nella prima metà del Settecento Storch operava come medico di Eisenach, un piccolo centro protestante della Germania. Qui curava i concittadini, rustici o nobili che fossero, e in diversi volumi ha lasciato testimonianza della sua attività di anamnesi e cura delle donne della comunità. Storch non si scompone di fronte ad anziane con il mestruo (!), cui anzi prescrive salassi o suffumigi di latte; cura le donne irascibili con tinture di rabarbaro e cremor tartaro. Però, ed è il motivo per cui lo avrei voluto evocare – non certo per i rimedi suggeriti – è provvisto di una dote oggi abbastanza rara tra il personale medico: la capacità d’ascolto. Leggendo i racconti di Storch, capiamo che in passato il compito del medico consisteva nel farsi carico di una storia personale, di un corpo considerato nella sua singolarità e unicità, e che come tale andava interpretato – ciò che Duden indica con il termine “mimesis”. E così è stato per molti secoli, fino all’avvento della medicina moderna.
C’è poco da rimpiangere quell’approccio, ovviamente, ma dalla diversità di attitudine si può partire, come hanno fatto nel tempo diversi studiosi per ragionare criticamente sul corpo iatrogeno, ovvero il corpo in cui l’esperienza vissuta non solo ha perso rilievo, ma si è del tutto piegata alla rigidità classificatoria della medicina.
Michel Foucault ha parlato di sguardo medico, ovvero dei meccanismi che oggettivano il paziente, sottomettendolo a un sapere gerarchizzato e che, alla lunga, produce una cesura tra le dimensioni della sofferenza vissuta e poi esposta a parole e quella interpretativa del professionista.
Per Ivan Illich la medicina si è fatta pervasiva: ogni aspetto della vita quotidiana viene misurato e controllato, spesso a scapito della capacità di autogestirsi degli individui. Così all’interno della società capitalistica la salute si è trasformata in un bene di consumo: la medicina si rivolge alle persone in quanto consumatori, inducendo bisogni artificiali, rendendole dipendenti e vulnerabili.
La questione della medicalizzazione risulta forse più lampante quando si guarda a fenomeni che in molti casi non hanno alcunché di patologico. È il caso della gravidanza e del parto.
Barbara Duden ha studiato il corpo delle donne curate da Storch nel Settecento: a differenza di quello contemporaneo, era percepito come un corpo fluido, dominato dagli umori; Duden lo definisce succulento”.
Quest’ultimo è asciutto, quasi “aspirato” dagli esami e dalle indagini cui viene sottoposto. La prospettiva di analisi della Duden non si occupa dello sviluppo delle conoscenze mediche e terapeutiche, quanto delle “conseguenze sociali della crescente medicalizzazione”. Secondo la storica tedesca, le donne sono state gradualmente spossessate dell’esperienza della gravidanza: è avvenuta una “decorporeizzazione iatrogena”, cioè a opera del medico, che prescrive, stabilisce, controlla: il medico da esegeta di una narrazione è divenuto per lo più un “analista di referti”.
“Per Ivan Illich la medicina si è fatta pervasiva: ogni aspetto della vita quotidiana viene misurato e controllato, spesso a scapito della capacità di autogestirsi degli individui”.
La tecnologia ha impattato sull’evento nascita e ha modificato la percezione del sé e del tempo della gravidanza, spostando l’attenzione delle donne dalle proprie sensazioni corporee agli strumenti impiegati per le indagini: l’ecografia, l’analisi del sangue, i test genetici. La misurazione sostituisce il vissuto. La vista sostituisce il tatto.
Non dum era l’espressione che in passato si accompagnava al periodo di attesa del nascituro: significa non ancora, a indicare una trasformazione che si compiva nel tempo ma che manteneva un margine di incertezza, e diventava evento solo con il parto (fino ad allora, coliche o altri disturbi potevano indurre in errore rispetto al reale stato). Il parto era un fatto per lo più tra donne, grazie all’intervento della levatrice. Durante la gravidanza, il medico si limitava ad ascoltare i sintomi riportati, fornire consigli, le sue mani spesso neppure sfioravano le pazienti. Però la paziente restava al centro – con i suoi malesseri, i suoi bisogni.
La gravidanza contemporanea è cadenzata da controlli medici ed esami svolti con l’ausilio della tecnologia diagnostica, nonché di frequente dal ricorso a interventi farmacologici: è medicalizzata.
Gli screening e le analisi prenatali hanno contribuito alla progressiva riduzione della mortalità sia per le madri che per i neonati ma hanno anche prodotto delle distorsioni.
Il discorso teorico può essere illustrato attraverso alcuni riferimenti più concreti. A livello internazionale, l’Organizzazione mondiale della Sanità già dalla fine degli anni Ottanta ha rilevato il rischio di un eccesso di medicalizzazione; nel tempo ha emanato delle linee guida sempre più incentrate sul rispetto del parto fisiologico e su un utilizzo ponderato delle tecnologie anche durante la gravidanza. In Italia, la sovrautilizzazione delle prestazioni diagnostiche durante la gestazione è particolarmente evidente: se prendiamo come riferimento il numero di ecografie effettuate, esse sono in media 5,7 per ogni parto (laddove il protocollo nazionale d’assistenza alla gravidanza ne raccomanda tre, e l’Oms una entro la ventiquattresima settimana).
Ad ogni modo, la maggiore sensibilità rispetto al tema della medicalizzazione ha portato nel tempo a nuove iniziative per la promozione di un percorso di gravidanza e di parto naturale, così come si è iniziato a parlare di violenza ostetrica.
La violenza ostetrica – definizione peraltro non unanimemente ben accolta (per OMS meglio utilizzare termini come abuso o maltrattamento) – è identificata come una forma di abuso fisico, psicologico o verbale ai danni delle donne da parte di operatori sanitari. Più specificamente, essa viene ricondotta all’obbligo per le donne di partorire in determinate posizioni, o di accettare il ricorso a determinate terapie mediche e farmacologiche, o a determinate procedure (come le episiotomie: ovvero le incisioni chirurgiche del perineo per agevolare il parto) senza il consenso o senza essere adeguatamente informate circa i rischi e le conseguenze a lungo termine. Il Consiglio d’Europa nel 2019 ha approvato una risoluzione per invitare gli stati membri a produrre dati sul fenomeno e promuovere l’assistenza rispettosa alla maternità.
Secondo Antonella Nespoli, ostetrica, ricercatrice e coordinatrice del corso di laurea in Ostetricia presso l’Università di Milano Bicocca, quando il luogo del parto diventa l’ospedale cambia di senso tutto quel che riguarda la nascita: “Un evento bio-psico-sociale diventa evento sanitario, cioè viene sottoposto a paradigmi biomedici. È come se ci si approcciasse a un evento normale della vita trattandolo però come una malattia. C’è un che di paradossale nell’andare a partorire in ospedale, che è un luogo di per sé deputato a trattare i fenomeni acuti. Tanto più se si pensa che le donne tra i 20 e i 45 anni sono la fascia di popolazione più sana di una società. La nascita non è un fatto puramente biologico, ha a che fare con una dimensione psichica individuale e con una dimensione più propriamente sociale e culturale”. Per Nespoli è necessario ripensare il luogo della nascita così come i modelli di assistenza ostetrica, per esempio implementando l’assistenza sul territorio in tutte le fasi del percorso nascita.
In effetti, è stata l’industrializzazione stessa della nascita che, tra carenze e frustrazioni, ha nutrito una contro-reazione: in anni recenti il modello ospedaliero è stato ripensato con altre formulazioni ritenute più accoglienti (parto in casa, case maternità, ecc.), mentre la mancanza di sostegno emotivo e accompagnamento alla madre è stata colmata per esempio dall’emergere di figure come quella della doula, il cui primo e centrale scopo è assistere la donna nella transizione a madre.
I., 46 anni, mi racconta del disagio vissuto in ospedale dopo il parto, del senso di abbandono e di inadeguatezza che le instillava un’operatrice religiosa: questa la biasimava per la forma dei capezzoli, inadeguati ad allattare, secondo lei. I. decise di farsi dimettere, nonostante i medici la volessero tenere più a lungo perché sua figlia non cresceva adeguatamente di peso, e si rivolse a una doula per avere una qualche forma di supporto. “Appena penso a lei e all’aiuto che mi ha dato”, mi dice, “provo come una sensazione di calore”.
Negli ultimi anni tante donne hanno offerto la loro testimonianza sulle esperienze dolorose vissute durante il parto in ospedale. Ne ho parlato con M., 37 anni, che ha partorito a novembre 2024 presso un ospedale romano e ancora combatte con le conseguenze, sia fisiche che psicologiche, di quello che non esita a definire un trauma. Il suo caso raccoglie molte delle procedure e degli atteggiamenti che vengono stigmatizzati quando si parla di violenza ostetrica.
Prima c’è stata l’induzione del travaglio, che M. ha vissuto – e come lei le compagne di stanza in ospedale che avevano subito la stessa sorte – come una “pratica barbara e medioevale” e, poi, a seguire la mancata lettura di una complicazione e una serie di scelte mediche che M. oggi reputa dannose e non rispettose. Durante il monitoraggio viene rilevata l’assenza di battito cardiaco del bambino per qualche secondo ma quando M. chiede spiegazioni l’ostetrica di turno le risponde in modo rude: “Mi disse che se ci fosse stato qualche problema serio sarei già stata in sala operatoria e sostenne che il termine sofferenza non esiste in ostetricia”. La situazione, insomma, sembra sotto controllo, dice M: “Fino a un certo punto, si procedeva con calma, mi hanno fatto l’epidurale e, quando avvertivo dolori intensi, l’anestesia veniva ripetuta. Poi, inspiegabilmente, mi hanno messo fretta. Mi hanno detto che dovevo partorire velocemente; che se non riuscivo era perché non stavo spingendo abbastanza. La stanza, da che c’era solo un’ostetrica, era ormai piena di gente: 15-20 persone che non sapevo chi fossero e a che titolo si trovavano lì. Poi chi mi tirava per una caviglia, chi per l’altra, chi mi trascinava per le braccia… Mi viene praticata la manovra di Kristeller (una tecnica ostetrica che consiste nella pressione manuale sul fondo uterino, da molti ritenuta pericolosa, nda), dopodiché hanno usato la ventosa, quindi mi hanno tagliato in più punti, fino all’ano. Risultato: una lacerazione di terzo grado. M. mi racconta che si è sentita come un “colabrodo”, o come una pratica da sbrigare nel cambio turno, e per di più colpevolizzata: “Solo dopo che ho partorito mi hanno spiegato che c’erano i due giri stretti di cordone e che, in effetti, non era una mia responsabilità se il bambino non usciva”. Oggi M. si fa seguire privatamente da un’ostetrica: “Non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello umano e psicologico”, mi dice, “ho riguadagnato moltissimo da questa nuova relazione: ho anche potuto rivivere quei momenti che mi erano stati strappati brutalmente: per esempio avere il piccolo a contatto con la mia pelle, cosa impossibile per me dopo il parto, mentre mi ricucivano”.
Ed è proprio sulla centralità dell’ostetrica che bisogna tornare.
Secondo Barbara Duden la medicalizzazione cancella il rapporto di fiducia che legava le donne coinvolte in un parto: “la nascita di un bambino è un evento in cui due donne agiscono insieme, non un fatto riguardante un organismo femminile tenuto in pugno da un sistema che occasionalmente dispensa anche un supporto psicologico”.
Difficile costruire un rapporto di fiducia con un medico e un’ostetrica di turno, visti di sfuggita, magari già gravati dal troppo lavoro. Per questo, secondo Nespoli, bisogna lavorare sull’intero percorso nascita, non concentrarsi esclusivamente sul momento del parto: si tratta di un processo in cui ogni fase ha importanza, e la donna deve sentirsi supportata in ognuna di esse.
La figura che maggiormente potrebbe offrire questo supporto su più livelli e a lungo termine – lo prevede in teoria anche il nostro sistema sanitario – è proprio quella dell’ostetrica, una professionalità che l’immaginario comune relega a ruolo ancillare del ginecologo in sala parto, e che non sempre è vissuta in termini positivi. Invece, sono molte le ostetriche, anche in Italia, che si discostano dall’idea stereotipata di mere “assistenti del ginecologo”; talvolta lavorano in maniera autonoma, oppure in realtà pubbliche particolarmente illuminate; organizzano incontri per parlare con le adolescenti alla comparsa del menarca, per accompagnare le madri nel post-partum, o per le donne che si avviano al climaterio. Lavorano per quel rapporto di fiducia così cruciale.
Il termine ostetrica deriva da ob-stare, stare davanti: indica proprio colei che si pone davanti alla donna che deve partorire. In altre lingue, la stessa professione preserva nel nome qualcosa dell’antico mestiere della levatrice – sagefemme in francese, midwife in inglese – e mantiene la considerazione sociale che alle levatrici spettava.
In Italia tradizionalmente le ostetriche sono per lo più donne; hanno ognuna una propria storia e visione del mestiere; eppure sono professioniste quasi “trasparenti”, poco note. Me lo conferma Elena Spina, professoressa all’Università Politecnica delle Marche, che si è occupata molto di professioni sanitarie e ha lavorato sulla differenza tra la realtà italiana e quella inglese. Spina mi spiega come storicamente l’ostetricia in Italia abbia risentito di una maggiore sudditanza verso la professione medica; il fatto che le ostetriche si formino nelle facoltà di medicina è indice di un’oggettiva difficoltà a incarnare un sapere autonomo, proprio. In altre parole, in Italia il modello medico della nascita ha prevalso su quello sociale, e con modalità diverse nelle varie aree considerate: più marcatamente al Sud, dove spesso il privato sopperisce alle mancanze del servizio pubblico, e dove la frequentazione dei corsi pre-parto e dei consultori è piuttosto bassa; meno al centro-Nord dove le donne si sono fatte portatrici attive nella richiesta di servizi alternativi per la maternità. In tutto questo, la carenza di ostetriche in Italia è lamentata da più parti.
Ma il loro apporto sarebbe cruciale per un cambio di passo. Alle ostetriche può essere affidato l’intero percorso della maternità laddove non ci siano alti profili di rischio, come avviene per esempio nel modello della midwifery inglese. La midwife poi ha come missione la cura globale della salute della donna durante l’intero arco della vita. La funzione delle ostetriche, se implementata, fornirebbe dunque degli strumenti di empowerment sostanziali in un Paese come il nostro dove peraltro ancora si guarda con sospetto all’educazione relativa alla sessualità.
Kalipso Leyla Trevisiol ha una visione piuttosto ampia della categoria dato che esercita come libera professionista ma ha lavorato anche negli ospedali e continua a frequentarli. Mi dice che, a fronte di qualche contesto virtuoso, nella dimensione ospedaliera il dominus incontrastato rimane il ginecologo: le ostetriche compaiono quasi esclusivamente in sala parto, mentre appunto le loro competenze potrebbero dispiegarsi con maggiore ampiezza. Ma è un fatto che sfugge a molte persone: “Come ostetrica ti trovi continuamente a doverti definire: le donne non sanno che puoi essere tu a seguire la gravidanza e non il ginecologo. Se prescrivi le analisi del sangue pensano che stai operando come un ginecologo, se dici che puoi fare il parto a casa, ti chiedono: allora sei una doula? Anche le linee guida sulla gravidanza fisiologica emanate dall’ISS dicono che la gravidanza dovrebbe essere seguita dall’ostetrica e dal medico di base, ma non è ciò che generalmente accade. Al dunque, per fare la professione a tutto tondo devi fare la libera professionista”, racconta Kalipso. “Ma in quel caso, ti perdi un buon pezzo di società: le donne che si rivolgono alle ostetriche per seguire un percorso sono mediamente rappresentative di certi strati sociali: spesso sono dotate di risorse economiche, hanno un buon livello culturale, prestano già attenzione ai temi della cura e del femminile”. Motivo per cui Kalipso affianca anche il lavoro con le associazioni che si occupano di comunità e persone marginalizzate . In questo senso mi spiega: “Vedo il mio mestiere anche come una forma di attivismo. Esiste un’equazione tra lo scarso riconoscimento della figura dell’ostetrica e un modello di società in cui le donne sono ancora in secondo piano”.
Qualcosa si è mosso, come detto: le Linee di indirizzo BRO emanate dal Ministero della Salute nel 2017 danno la possibilità di ricevere supporto esclusivo dalle ostetriche in strutture esterne o adiacenti agli ospedali. Ma si tratta di un’esperienza ancora poco presente in Italia, dove – si legge nello stesso documento – “il 99,7% delle donne partorisce nelle Unità di ostetricia dei presidi sanitari pubblici o privati accreditati, mentre l’offerta di percorsi assistenziali gestiti in autonomia dalle ostetriche per le gravidanze e il parto a basso rischio è ancora molto limitata. Le esperienze più interessanti e consolidate al riguardo sono concentrate essenzialmente nelle aree del centro-nord”.
“In Italia tradizionalmente le ostetriche sono per lo più donne; hanno ognuna una propria storia e visione del mestiere; eppure sono professioniste quasi ‘trasparenti’, poco note”.
Dunque molto resta ancora da fare per scalfire il modello prevalente basato sull’assistenza primaria del ginecologo e sul parto ospedaliero: se tornare indietro alla relazione tra donne che caratterizzava la maternità pre-medicalizzazione non è possibile (e nemmeno è detto che sia auspicabile), si può e si deve davvero riorientare la figura dell’ostetrica per renderla più simile a quella della midwife.
Si realizzerebbe la speranza di Barbara Duden, che delle antiche levatrici era divenuta un’esperta. Parlando in una riunione di un’associazione di ostetriche, si espresse così: «(…) Credo fermamente che l’ostetrica moderna – ancor più profondamente della strega di un tempo – possa essere trasformista, se lo vuole: solo come competente operatrice dell’ostetricia può conquistare la libertà di dedicarsi alle donne incinte come levatrice, offrendo loro quell’assistenza che è uno dei presupposti della gravidanza vissuta con calma, fiducia e speranza».
Una simile ostetrica moderna, a cavallo tra antico e nuovo, tra sapere tecnico scientifico e esperienza di ascolto dei corpi, di sicuro saprebbe come rispondere a chi scherzasse sul sanguinamento delle donne.
Benedetta Fallucchi
Benedetta Fallucchi è giornalista, scrittrice e lavora nella sede di corrispondenza romana del maggiore tra i quotidiani giapponesi. Il suo primo libro è L’oro è giallo (Hacca, 2023).
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