Ferdinando Cotugno
18 Gennaio 2024
Oggi inizia a Riyad la Supercoppa italiana. Tra calcio, turismo e progetti folli di nuove città, l’Arabia Saudita vuole conquistare il mondo e farci dimenticare chi è davvero: una teocrazia violenta e autoritaria fondata sui combustibili fossili, che si oppone in modo feroce alla mitigazione della crisi climatica.
La Supercoppa italiana in Arabia Saudita sarà un episodio miserabile, minore, nella storia del nostro calcio, un torneo senza grande importanza spostato all’estero per fare cash flow (“Prendi i soldi e scappa”, ha detto l’allenatore della Lazio Maurizio Sarri).
Nel disegno più generale delle cose, però, le tre partite a Riyadh (due semifinali e la finale) sono da prendere molto più sul serio, perché sono l’ennesima anticipazione di qualcosa a cui dovremo fare l’abitudine: le impronte saudite sulle nostre vite. Non c’è modo di comprendere il futuro del mondo, e di tutto quello che del mondo consideriamo rilevante (a partire dalla questione climatica o dai diritti umani), senza avere presente la gigantesca rilevanza che sta assumendo la monarchia saudita.
Non è facile: forse per nessun paese è così grande il divario tra la sua influenza e quanto noi effettivamente ne sappiamo. È probabile che non ci siate mai stati, in Arabia Saudita, che non conosciate nessuno che c’è stato. Non ci sono film o romanzi ad aiutarci, il soft power culturale è prossimo allo zero, a parte quella manciata di influencer e calciatori che negli ultimi anni sono stati pagati (molto) per darci una specifica versione dei fatti, una storia di lussi, di hashtag, idrocarburi e alberghi eleganti.
L’Arabia Saudita fino a oggi è stata il grande indistinto contemporaneo, un buco nero di non conoscenza. Ma non sarà così a lungo. Siamo abituati ad associare il paese al fondamentalismo religioso, all’11 settembre e alle violazioni dei diritti umani, ma è col suo scintillante neo-nazionalismo fossile che dovremo confrontarci in futuro. Come tutti i nazionalismi, anche quello dell’élite saudita ha sviluppato un potente ego collettivo: vogliono che li vediamo, vogliono far sapere di loro, di come vivono, sono qui per raccontarci la loro storia di successo. È per questo che le nuove ossessioni della monarchia saudita sono i consumi di massa per eccellenza del mondo occidentale: calcio e turismo.
“Forse per nessun paese è così grande il divario tra la sua influenza e quanto noi effettivamente ne sappiamo. È probabile che non ci siate mai stati, in Arabia Saudita, che non conosciate nessuno che c’è stato”.
Il 2030 è la grande deadline contemporanea: la fine di questo decennio è l’anno più politicizzato che ci sia, il nostro segnaposto nel futuro, il benchmark di tutti i nostri tentativi di cambiare. Per un occidentale, 2030 significa soprattutto una cosa: il controllo di metà percorso sulla lotta ai cambiamenti climatici, l’anno entro il quale dovremo aver quasi dimezzato le emissioni di gas serra. Per un saudita, invece, il 2030 è l’anno culmine della volontà di potenza nazionale, dell’affermazione della visione costruita e imposta dal principe ereditario Mohammad bin Salman.
Così si descrive l’Arabia del futuro prossimo nei suoi documenti ufficiali: “una società vibrante in cui tutti i cittadini possano perseguire le proprie passioni e prosperare, una forte infrastruttura sociale dentro una società che valorizza le tradizioni culturali, l’orgoglio nazionale e tutti i comfort della vita moderna [amenities, in inglese, come nel depliant di un villaggio vacanze], tutto sostenuto da un islam moderno e da servizi sociali efficaci”. Sembra il lessico della neo-lingua delle agenzie di comunicazione e, islam a parte, potrebbe andare benissimo per un progetto di edilizia residenziale nella periferia di Milano. Ma qui c’è anche tutto il disegno di bin Salman: Corano, bandiera e Jacuzzi.
Nel 2030 la vetrina di tutto questo sarà l’EXPO strappato a Roma: faceva tenerezza il tentativo del sindaco Gualtieri di soffiare l’evento a Riyadh, non c’era verso che i sauditi si facessero sfuggire una possibilità del genere nell’anno che avevano trasformato nel proprio brand, nell’endgame di tutta la loro identità nazionale. Se, come succede in Infinite Jest, si potessero sponsorizzare le annate, il 2030 sarebbe già, sicuramente, l’anno di Riyadh Season, il festival di sport e intrattenimento finanziato dallo stato (che è già sulle magliette della Roma).
Nel 2030 i sauditi saranno reduci dall’espressione massima di dominio dell’extraprofitto sulla geografia: i Giochi invernali asiatici del 2029, per la prima volta nel Golfo Persico. Nel 2030 sarà in moto la macchina logistica e politica per i Mondiali di calcio del 2034. Nel frattempo alcune loro destinazioni saranno diventate mete turistiche esotiche ma più che legittime, come oggi la Giordania o Dubai: sugli sfondi delle foto Tinder vedremo molto di meno Petra e molto di più i canyon di basalto nero di AlUla.
In questo scenario, mentre il resto del mondo prova a dimezzare le emissioni, il sistema operativo saudita sarà sempre lo stesso: il petrolio, estratto oggi a un ritmo che oscilla tra cinque e sette milioni di barili al giorno. Il greggio saudita è il 17 per cento di tutte le riserve globali, ed è quello che paga tutto, dal re-branding del cosiddetto Rinascimento saudita a Cristiano Ronaldo e Roberto Mancini, passando per Neom, la metropoli costruita dal nulla, nella provincia di Tabuk, grazie al lavoro di 60 mila operai, quasi tutti provenienti dall’Asia meridionale.
Le principali società di consulenza globali, a partire da McKinsey, in questo momento sono impegnate soprattutto in questo: riscrivere l’immagine del petrolio: perché il transito dell’Arabia Saudita alla sua visione 2030 (e oltre) avrà nel motore il combustibile fossile di sempre. Senza i 160 miliardi di profitti annui di Saudi Aramco, le ambizioni di bin Salman sarebbero posate solo sulla sabbia. L’attivismo mediatico saudita, quindi, serve anche a promuovere la faccia hi-tech e pulita dell’idrocarburo, creare un immaginario del petrolio che sia scintillante e desiderabile. Su come si presenti questa nuova narrazione saudita – scritta dai consulenti occidentali – ci arriveremo, ma prima dobbiamo parlare di Neom, perché senza Neom non si capisce niente su quanto sia grande l’ambizione di Mohammad bin Salman di riscrivere la storia del futuro con Riyadh al centro, facendone allo stesso tempo nuova una nuova Dubai, una nuova Londra e una nuova Singapore.
Potremmo descrivere Neom come il perfetto punto di congiunzione tra Blade Runner e Lawrence d’Arabia. Il cuore sarà una città tutta dritta, come in un film di fantascienza, chiamata The Line, lunga 170 chilometri e larga 200 metri, con nove milioni di residenti di cui non ce n’è oggi nemmeno uno (anzi, le popolazioni indigene sono state deportate), una metropoli senza emissioni e senza auto, che userebbe una ferrovia ad alta velocità come metropolitana, e che sarebbe quasi un unico edificio continuo. Il regno del greenwashing, praticamente. Al momento non c’è niente, pochi edifici e qualche viaggio stampa organizzato per le riviste patinate del Golfo (come «Wired Middle East» o «GQ Middle East»), più l’occasionale celebrity paracadutata per meno di ventiquattro ore da un evento nei paraggi.
C’è una serie di video Instagram di Will Smith in visita a Neom in cui l’ex fresh prince ripete il vecchio numero del suo stupore alla scoperta di Bel Air ma in versione araba, si guarda intorno con gli occhi sgranati, dice solo “This is crazy”, mostrando rocce desertiche dall’estetica vagamente marziana, poi un campo da basket, un cinema all’aperto vuoto, tantissimi elicotteri, sabbia e luce accecante. Come tutto questo possa inaugurare l’anno prossimo e ospitare i Giochi invernali nel 2029 lo sa solo bin Salman, e qui arriviamo al cuore della questione. Mohammad bin Salman è l’unico maschio sulla Terra che possa gareggiare con Elon Musk per ambizioni di terraformazione e creazione di nuovi mondi a misura del proprio ego.
“Potremmo descrivere Neom come il perfetto punto di congiunzione tra Blade Runner e Lawrence d’Arabia. Il cuore sarà una città tutta dritta, come in un film di fantascienza”.
In questi giorni abbiamo celebrato con stupore l’età del nuovo primo ministro francese, Gabriel Attal, 34 anni, classe 1989, senza ricordarci che il politico millennial più illustre al mondo è proprio bin Salman, che è un classe 1985, è principe ereditario da quando aveva trent’anni, ha elaborato Vision 2030 a 31 ed è diventato primo ministro (qualunque cosa significhi in una monarchia assoluta) a 35, all’epoca il più giovane al mondo (altro spin su cui si vedono chiare le impronte delle società di consulenza e degli amici occidentali vari, che sanno quanto sia vendibile l’immagine next-gen del giovane leader ambizioso che prova a rifare la sua nazione da zero).
Il millennial più potente del mondo sta provando a cambiare il suo paese con un mix di tecnologia, cautissime riforme sociali e furibondo sviluppo economico. “Ci sono stati alcuni cambiamenti nella società, come il permesso alle donne di guidare, o la possibilità per loro di viaggiare all’esterno senza il permesso del guardiano maschio”, mi racconta Eleonora Ardemagni, ricercatrice senior di Ispi, una delle massime esperte di monarchie del Golfo in Italia. “La velocità delle riforme economiche, però, va al triplo della velocità delle riforme sui diritti umani. E la cosa più importante da avere presente è che sono concessioni dall’alto e non frutto di mobilitazioni dal basso”.
Non c’è una società civile che promuove un cambiamento e lo ottiene (anche perché a provarci si finisce come il giornalista Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nell’ambasciata saudita in Turchia e trasportato fuori in una valigia), ma un’elargizione controllata da parte del sovrano ereditario. È una “versione del Golfo” del patto che per decenni ha retto la Cina: migliorare i livelli di benessere, rendere più contemporaneo lo stile di vita, senza intaccare in nessun modo la struttura di potere.
Il problema è che l’Arabia Saudita non è la laica Cina. Come spiega Ardemagni, “il tentativo di bin Salman nella sfera del potere interno è un graduale depotenziamento del ruolo della religione e del wahabismo nella vita pubblica e nella politica, per ripensare l’Arabia intorno al tema dell’identità nazionale, mettendo al centro il legame tra la famiglia regnante Al Saud e l’Arabia Saudita, fondendo inscindibilmente i due destini”. Vision 2030 e tutto quello che contiene vuole essere la vetrina di tutto questo. È come se con lo scintillio di calcio, spettacolo, turismo e distopie varie stessimo assistendo al tentativo di trasformazione dell’Arabia Saudita da teocrazia medievale ad autocrazia hi-tech, meno sharia e più famiglia reale.
È uno sforzo applicato a una società molto più difficile da riformare rispetto agli unici modelli in mano ai sauditi per capire come uscire dal loro Medioevo: gli Emirati Arabi e il Qatar, nazioni più giovani, diventante indipendenti negli anni Settanta, con popolazioni piccole, in cui i cittadini sono a loro volta una minoranza interna. Insomma, macchine sociali più maneggevoli da guidare e modernizzare, al contrario di uno stato più antico (l’Arabia Saudita moderna nasce nel 1932), di 36 milioni di persone, custode della tradizione e dell’ortodossia musulmana, in cui il Corano è anche la Costituzione nazionale. Quella saudita è una società ancora disomogenea, il 60 per cento ha meno di trent’anni, la scolarizzazione è alta, ci sono città grandi e per certi versi moderne come Jeddah o la capitale, e altre molto più conservatrici. In quest’ottica calcio e affini sono anche uno strumento di gestione interna del potere. Spiega Ardemagni: “L’industria del divertimento in Arabia Saudita è tutta statale, è un intero progetto di società coordinato in modo centralizzato, uno dei suoi obiettivi è coinvolgere la popolazione under 30, mobilitarla a sostegno di un leader quasi coetaneo”.
Un altro aspetto centrale del nazionalismo saudita è che niente viene lasciato al caso, ogni imprevedibilità fa suonare segnali d’allarme. “Nell’idea di bin Salman il cambiamento va anticipato e controllato, l’opposto di quello che è successo in Iran, che per loro è stata una lezione: mai arrivare a un punto di rottura con la società”.
Vision 2030 si regge sugli investimenti stranieri, sulla capacità di attirare soldi e progetti dal mondo. Questa idea è fondata su un capitale reputazionale che è, per usare un eufemismo, molto precario. Lavorare a Riyadh continua a essere più difficile che farlo a Doha o Dubai. Infatti, nonostante tutti gli sforzi, gli hashtag e le campagne, l’Arabia Saudita è dietro sia il Qatar che gli Emirati per investimenti internazionali, pur essendo più grande, ricca e popolosa. E su quanto sia difficile ancora oggi rapportarsi con la società saudita, al di là della propaganda di Vision 2030, abbiamo a disposizione un campione efficace: i calciatori comprati nell’ultimo anno dalla Saudi League.
Dovevano essere gli ambasciatori del nazionalismo fossile hi-tech, l’illustrazione pratica di come le poche concessioni fatte allo stile di vita contemporaneo fossero già sufficienti a creare una società del benessere di stampo arabo senza frizioni, soprattutto a quei livelli di reddito. Sta andando malissimo: si moltiplicano tentativi di fughe (come quello ormai in atto di Jordan Henderson, che è anche il più progressista dei calciatori comprati dal campionato saudita), storie di malessere sussurrate alla stampa (il giovane spagnolo Gabri Veiga, che si era promesso al Napoli e poi ha preferito il Golfo Persico a quello partenopeo), o vicende ancora difficili da interpretare (come quella di Benzema, che ha tardato il suo ritorno dalle vacanze a Mauritius, mancando l’inizio del ritiro della sua squadra e scatenendo voci di mercato). Alcuni rinunceranno in anticipo a stipendi abnormi pur di ritornare a condurre vite meno segregate.
Una cosa è ospitare i calciatori per un torneo di una settimana, un’altra è farli venire con famiglie o fidanzate al seguito e gestire tutti i piccoli e grandi conflitti tra visioni e stili di vita che la cosa comporta. La legge saudita impedisce a coppie non sposate di convivere, ed è servito un permesso a Cristiano Ronaldo per abitare con la sua fidanzata Georgina Rodriguez.
È uno dei motivi per cui Ronaldo e Rodriguez vivono al Four Seasons di Riyadh e non in una villa: dal 2019 le coppie non sposate di turisti possono condividere il letto, ma solo in albergo. È una delle lezioni del realismo fossile saudita: le ragioni del capitalismo battono quelle del Corano.
La monarchia saudita rinuncerà agli aspetti più oppressivi del fondamentalismo wahabita più velocemente di quanto farà con l’altro pilastro del regno, il petrolio, prima risorsa del regno, ma anche sua incognita più grande. All’ultima conferenza delle Nazioni Unite sul clima, la COP28, che si è svolta a un migliaio di chilometri da Riyahd, a Dubai, lo status quo fossile ha vissuto una sconfitta a lungo attesa e altrettanto procrastinata, soprattutto grazie all’abilità negoziale saudita: la prima menzione dei combustibili fossili in un documento ONU sul clima.
In trent’anni di scienza, diplomazia, attivismo, politica, non era mai successo. È un enorme smacco da amministrare. Le COP sono state per tre decenni il capolavoro saudita di gestione maniacale dell’imprevisto: il regno negli anni ha formato una delle migliori classi diplomatiche al mondo.
Quando ci chiediamo perché le conferenze sul clima non riescano mai a produrre risultati all’altezza della crisi, è nella direzione della diplomazia climatica saudita che dobbiamo guardare, la più preparata e feroce di tutta la scena internazionale, capacissima di rallentare con ogni mezzo possibile un processo basato sul consenso (che non è l’unanimità, ma le somiglia molto). Questo sistema di voto sul clima, confuso e inefficace, è un lascito diretto dell’Arabia Saudita, che negli anni Novanta si oppose a qualunque ipotesi di istituire una maggioranza qualificata (o anche una super maggioranza di quattro quinti dei paesi) per le decisioni delle COP.
Lo racconta uno studio del Climate Social Science Network (CSSN), che è una miniera di informazioni sull’ostruzionismo sistematico dell’Arabia Saudita sul clima. Avevano studiato la situazione e ci avevano visto lungo, hanno evitato trent’anni di imprevisti e fatto guadagnare altrettanto tempo all’espansione petrolifera. Quella strategia si rispecchia in ogni singola stanza delle COP, dal macro al micro. Come si legge nel racconto di CSSN, tutto può diventare un pretesto procedurale: un meeting comincia in ritardo? Lo fanno cancellare. Manca la traduzione di un documento in inglese? Non ci sediamo. Hanno evitato per decenni che gli organi regolatori di aviazione e commercio marittimo (fonti di emissioni ma anche clienti del petrolio) fossero chiamati a partecipare alle COP. Negli anni Novanta e Duemila hanno contrastato in ogni modo l’adozione della conoscenza scientifica sul clima, quando si è fatto l’accordo di Parigi sono stati i fautori della non menzione delle fonti fossili.
“Quando ci chiediamo perché le conferenze sul clima non riescano mai a produrre risultati all’altezza della crisi, è nella direzione della diplomazia climatica saudita che dobbiamo guardare, la più preparata e feroce di tutta la scena internazionale”.
Da qualche anno c’è uno spin nuovo. Se non puoi contrastare le ragioni dell’ecologia, prova a imitarle, hanno suggerito i consulenti. E così oggi gli emissari sauditi non fanno che parlare di economia circolare del carbonio, cioè l’idea che possa esistere un petrolio pulito e che loro saranno in prima linea per fornirlo, soprattutto grazie alla tecnica più controversa al mondo del momento: la cattura e stoccaggio della CO2. La cosiddetta CCS è una tecnologia su cui vengono investiti 6 miliardi di dollari ogni anno, lo scopo degli impianti è succhiare, catturare e stoccare sotto terra la CO2 dei processi estrattivi. Finora non ha mai funzionato su scala, nonostante tutti i tentativi, andrebbe considerata un prototipo futuribile, ma sono stati i negoziatori sauditi a farla inserire nel testo finale di COP28 come una tecnologia già disponibile.
La CCS è diventata un pilastro di tutte le strategie delle grandi aziende petrolifere ma, per un paese che programma di raddoppiare le estrazioni nel corso di questo decennio, è una tecnologia che assume connotati esistenziali. Il calcio, il turismo, i diritti umani, la modernizzazione dell’islam, la Formula 1: tutto è secondario rispetto a questo. Che la CCS funzioni, o almeno che il mondo di creda.
Secondo il Production Gap Report 2023 dell’ONU, nonostante l’obiettivo di neutralità climatica al 2060 dichiarato nei documenti ufficiali, “l’Arabia Saudita non ha nessuna policy governativa per gestire una riduzione della produzione di fonti fossili”. Non ci stanno nemmeno provando. L’Arabia Saudita non ha nessun piano per un’economia alternativa agli idrocarburi, che oggi nonostante ogni documento di visione o diversificazione sono metà del PIL e due terzi delle esportazioni. Nel frattempo negli anni che verranno la crisi climatica si aggraverà.
Nello stesso 2030 messo da bin Salman come destinazione di grandezza internazionale per la sua nazione, abbiamo due probabilità su tre di aver riscaldato il pianeta già di 1.5°C rispetto all’era pre-industriale, con tutte le future catastrofi che ne verranno. Per un paese che più di tutto sta provando a costruirsi un’immagine nuova agli occhi del mondo, è un problema reputazionale, prima ancora che industriale. Ogni mossa saudita, a partire dai trascurabili eventi calcistici italiani, va letta anche in quest’ottica: un acconto sulla crisi di immagine che ne verrà.
Ferdinando Cotugno
Ferdinando Cotugno è giornalista freelance. Il suo ultimo libro si intitola Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).
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