La politica sta smantellando il Servizio Sanitario Nazionale - Lucy
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Chiara Giorgi

La politica sta smantellando il Servizio Sanitario Nazionale

L'ultimo decennio di politiche neoliberali in materia di sanità sta mettendo a dura prova una delle più importanti conquiste della nostra costituzione.

Il diritto universale alla salute

Troppe volte le notizie di cronaca ci parlano di casi di persone malate che hanno difficoltà ad accedere alle cure della sanità pubblica. Per capire i problemi attuali, ma anche l’importanza dei servizi di cui disponiamo, è importante guardare alla storia. 

L’istituzione, nel dicembre 1978, del Servizio sanitario nazionale (Ssn) è stata infatti una delle più importanti conquiste dell’Italia repubblicana. Di fronte alle trasformazioni industriali, urbane e sociali degli anni Sessanta e Settanta – e alle domande sociali espresse dai conflitti sulle condizioni di vita e di lavoro – la creazione del Ssn ha consentito di rendere effettivo il diritto universale alla salute, come sancito dalla Costituzione italiana all’articolo 32.

Il servizio sanitario pubblico ha garantito grandi miglioramenti nelle condizioni di salute e nella speranza di vita della popolazione, che ha raggiunto gli 83,4 anni nel 2024, tra le più alte del mondo. Ha portato a importanti risultati di salute, ad esempio, in termini di mortalità evitabile o di sopravvivenza a cinque anni per molte patologie oncologiche. Rispetto al sistema precedente ha notevolmente ridotto le disuguaglianze di salute tra i cittadini e tra le classi sociali. 

In Italia la storia della sanità pubblica è stata lunga e accidentata. La centralità di un intervento pubblico mirato a garantire una vita in buona salute – tra gli elementi del Beveridge Report del 1942 e del National Health Service realizzato nel Regno Unito nel 1948 – emerse fin dagli anni della Resistenza e della Costituente.

Nella Costituzione, all’articolo 32, la salute è definita come un diritto fondamentale, diritto sociale e di libertà. Nel testo, in particolare, si uniscono pretese positive, attribuendo ai singoli il diritto di pretendere dalla Repubblica servizi funzionali alla tutela della salute, e pretese negative dell’individuo rispetto a comportamenti lesivi per la sua integrità psico-fisica, sulla base del diritto all’autodeterminazione personale. Oggetto del diritto alla salute, nella sua dimensione sia individuale sia sociale, è l’integrità psico-fisica della persona umana, intesa secondo la definizione fornita dall’Organizzazione mondiale della Sanità nel 1946: la salute come stato di “benessere fisico, psichico e sociale”. 

Come si è tradotto questo principio nella realtà italiana? Dopo il varo della Costituzione trascorsero trent’anni prima della nascita del Servizio sanitario pubblico, che subentrò a un sistema       inadeguato, diseguale e frammentato quale era quello mutualistico che la Repubblica aveva ereditato dal fascismo. Un sistema che si fondava su un approccio occupazionale (copriva solo alcune categorie professionali) e contributivo (ciascuno era coperto in base ai contributi versati), segnato da forte eterogeneità, sperequazioni, inefficacia degli interventi.

Le spinte al cambiamento

L’accelerazione della storia avvenne dunque negli anni Sessanta. La riforma sanitaria entrò nell’agenda della programmazione economica, con la proposta di istituire un servizio sanitario nazionale. Nei documenti più avanzati della programmazione si assumeva la politica sanitaria e il sistema di sicurezza sociale come fondamento di un’agenda di redistribuzione del reddito, di programmi economici orientati al soddisfacimento dei bisogni collettivi e all’ampliamento dei diritti sociali.  

“Troppe volte le notizie di cronaca ci parlano di casi di persone malate che hanno difficoltà ad accedere alle cure della sanità pubblica”.

Nel corso del decennio, più iniziative sostennero questa nuova impostazione: già nel 1956 la CGIL aveva proposto un primo progetto volto a garantire un diritto universale alla “protezione sanitaria”. La salute divenne il terreno di un nuovo protagonismo operaio e sindacale, con la maturazione di una diversa consapevolezza rispetto al passato sui problemi sociali, sanitari e ambientali associati alla crescita industriale del paese, anche sotto la spinta delle lotte portate avanti dalla classe lavoratrice contro la nocività del proprio      ambiente di lavoro. Di altrettanto rilievo furono le numerose iniziative dei due partiti della sinistra, PSI e PCI, a favore della creazione di un servizio sanitario nazionale, garantito a tutti, finanziato tramite la fiscalità generale – cioè dalle imposte pagate dai cittadini, con aliquote crescenti in base al reddito –, volto ad assicurare una tutela sanitaria completa con una responsabilità diretta dello Stato e con un’organizzazione sanitaria decentrata a livello territoriale.

Nasce il Servizio Sanitario nazionale

Il 23 dicembre 1978, nel contesto del governo di “solidarietà nazionale” – Ministra della Sanità era Tina Anselmi – venne approvata a larghissima maggioranza la legge di istituzione del Ssn (n. 833), con il solo voto contrario del Partito Liberale e del Movimento Sociale. Questa venne tra l’altro preceduta da altre due leggi fondamentali nell’ambito della salute: quella sull’interruzione volontaria della gravidanza (n. 194), quella sull’assistenza psichiatrica e la fine del sistema manicomiale (n. 180).

L’approdo alla riforma sanitaria, dopo più di un ventennio di discussioni e tentativi, fu il risultato di un’intensa stagione di azione collettiva. La creazione del Ssn venne infatti alimentata dai conflitti, dalle sperimentazioni ed elaborazioni degli anni Settanta, con risultati significativi per il riassetto complessivo del welfare. Il grande salto fu possibile grazie a una visione comune della salute e della cura insieme a una politica di alleanze. A questo contribuirono le  convergenze tra soggetti sociali e politici diversi – partiti, sindacati, movimenti – il dialogo tra competenze scientifiche e mobilitazioni attorno alla salute.

La salute rappresentò dunque uno dei principali terreni di un ampio cambiamento politico, culturale e istituzionale, che coinvolse partiti, sindacati, personale medico-sanitario, amministratori locali, cittadini in prima persona, protagonisti della stagione dei movimenti – operaio, studentesco, femminista.

Sull’affermazione del diritto universale alla salute e la conseguente predisposizione di un servizio sanitario pubblico, si svilupparono molte spinte che investirono i rapporti sociali di produzione e riproduzione, l’assetto istituzionale, la produzione di nuovi saperi condivisi, i nodi della cittadinanza democratica.

Gli ambiti in cui questo processo di rinnovamento si dispiegò furono la medicina del lavoro e la salute in fabbrica, la salute delle donne, la salvaguardia dell’ambiente, la salute mentale e la riforma della normativa psichiatrica, la dimensione sociale della medicina, gli innovativi approcci epidemiologici e di prevenzione, l’istituzione di nuovi servizi di cura.

I principi e le caratteristiche su cui veniva fondato il Ssn erano: universalismo, equità di accesso e uguaglianza di trattamento, globalità e uniformità territoriale dei servizi e delle prestazioni erogate, centralità della prevenzione, partecipazione, finanziamento tramite la fiscalità progressiva generale.

Il nuovo Ssn rispondeva al criterio del bisogno, quale variabile indipendente dai contributi versati e dalla capacità di reddito; il finanziamento progressivo era parte dei meccanismi redistributivi del welfare. L’istituzione del Ssn permetteva di superare l’inadeguato assetto precedente, affermare l’universalismo nell’accesso e nella disponibilità di cure e servizi, predisporre il carattere democratico del nuovo assetto sanitario, assicurare una crescente integrazione tra servizi sanitari e servizi sociali, garantire risultati di salute e obiettivi di uguaglianza.

L’inversione di rotta

A partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso si è registrata un’inversione di rotta nella cornice di nuove politiche di stampo neoliberale: misure che hanno allargato gli spazi del mercato in ambiti tradizionalmente regolati dallo Stato, ridimensionato i servizi pubblici di welfare, introdotto l’esternalizzazione dei servizi pubblici e logiche competitive in ambito sociale. Le politiche sanitarie risentirono di questi orientamenti caratterizzati da una liberalizzazione dei mercati, dalla privatizzazione di servizi pubblici, da una forte espansione della finanza, con il progressivo imporsi del protagonismo di istituzioni economiche come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, imprese farmaceutiche multinazionali e società finanziarie. Attività come le cure sanitarie e l’assistenza ai più fragili cominciarono ad assumere la forma di “merci” comprate sul mercato dalle persone con capacità di spesa, anziché di diritti garantiti dallo Stato sociale. Queste dinamiche si manifestarono in molti Paesi sotto forma di riduzione della spesa sanitaria pubblica, crescita della spesa sanitaria sostenuta direttamente dai cittadini per l’acquisto di servizi sanitari privati (out of pocket), perdita di capacità di programmazione dei servizi socio-sanitari.

L’Italia si inserì presto in questa tendenza internazionale. Nel corso di pochi anni si verificò un mutamento rispetto al decennio precedente: a un impianto integrato alla salute subentrarono modelli di mercato; alla centralità dell’azione politica in ambito sanitario una individualizzazione delle risposte fornite; l’attenzione ai determinanti sociali e ambientali della salute fu sostituita da un paradigma fondato sulle condizioni individuali. Il tutto accompagnato da una svolta manageriale e dall’esternalizzazione dei servizi pubblici a soggetti privati. Tra i principali passaggi di questa inversione vi furono i cambiamenti introdotti alla legge n. 833 con il Dlgs n. 502/1992 (ministro della sanità era Francesco De Lorenzo), nella direzione dell’aziendalizzazione, della regionalizzazione e di un primo tentativo di privatizzazione. La costruzione del “modello lombardo”, dalla seconda metà degli anni Novanta, fu l’applicazione di questi nuovi orientamenti, con l’abbandono dell’universalismo, la cancellazione della rete dei servizi territoriali pubblici, il riconoscimento alle strutture private di un piano di parità con quelle pubbliche, in una concorrenza sleale a svantaggio di queste ultime.

Un importante tentativo di tornare ai principi della legge del 1978 fu quello della riforma del 1999 (con la ministra della sanità Rosy Bindi), volta a riaffermare la centralità della sanità pubblica, a rilanciare l’integrazione socio-sanitaria e a contrastare le spinte a una differenziazione regionale che stava compromettendo l’unitarietà del Ssn frammentato in tanti diversi servizi sanitari regionali.

Negli anni Duemila più modiche istituzionali e scelte politiche hanno penalizzato la sanità pubblica, dirottando le risorse verso i privati, hanno ridotto le garanzie effettive del diritto alla salute in più Regioni, in specie nel Sud, hanno peggiorato le condizioni di lavoro del personale sanitario, accentuando la frammentazione a scala regionale, la selezione nell’accesso alle cure, la crescita delle logiche di mercato, l’espansione della finanza e delle assicurazioni.

Si è assistito a un lento ma sistematico arretramento delle visioni e delle politiche per la sanità pubblica e universale, le cui gravi conseguenze sono state messe in luce dalla pandemia da Covid-19, che agli inizi del 2020 ha colpito l’Italia per prima in Europa. I limiti emersi nel servizio sanitario pubblico sono derivati dal suo depotenziamento, dallo spazio lasciato alla sanità privata, dall’indebolimento della prevenzione e dei servizi territoriali. La pandemia sembrava aver riportato al centro dell’attenzione pubblica il diritto alla salute e la centralità del Ssn. Tuttavia i recenti e rapidi sviluppi mostrano come la direzione intrapresa negli ultimi tempi sia tutt’altra, accelerando ulteriormente la messa in pericolo del diritto universale alla salute.

Gli scenari attuali

Nell’attuale Legge di Bilancio le risorse reali per la sanità pubblica per il 2025-2027 sono del tutto insufficienti: in rapporto al Pil la spesa per quest’ultima si ferma a poco più del 6%, con un gap crescente rispetto ad altri paesi europei; le previsioni documentano inoltre un’ulteriore diminuzione. Non ci sono risorse aggiuntive per il personale sanitario a cui da tempo non viene dato il necessario riconoscimento professionale e salariale; e viceversa si permette un aumento del 2% del tetto di spesa per l’acquisto di prestazioni dal privato.

“L’approdo alla riforma sanitaria, dopo più di un ventennio di discussioni e tentativi, fu il risultato di un’intensa stagione di azione collettiva. La creazione del Ssn venne infatti alimentata dai conflitti, dalle sperimentazioni ed elaborazioni degli anni Settanta”.

In parallelo alla diminuzione della spesa sanitaria pubblica aumentano le risorse destinate al privato accreditato e cresce la spesa out of pocket, con percentuali più alte che in altri paesi. Di fronte al crescere delle liste di attesa per le prestazioni sanitarie pubbliche, gli interventi realizzati privilegiano l’utilizzo di attività private anziché rafforzare le strutture pubbliche. Si consolidano così gli spazi del mercato – un mercato sempre e comunque assistito dal pubblico –, le logiche di profitto, gli interessi particolaristici che aggravano le diseguaglianze sociali e le disparità territoriali. Restano significativi i dati relativi alle sistematiche differenze territoriali: la speranza di vita di chi nasce in Campania è di circa tre anni in meno di chi nasce a Trento.

Si estendono approcci prestazionali volti a mettere al primo posto la produzione di prestazioni sanitarie rispetto alla produzione di salute, con cittadini ridotti sempre più a consumatori di servizi. Anziché potenziare la rete dei servizi territoriali, fare in modo che strutture di prossimità funzionino adeguatamente per rispondere ai bisogni socio-sanitari della popolazione, si continuano a privilegiare logiche corporative e interessi di settore. Anziché rafforzare la sanità pubblica, si punta a un “secondo pilastro” di finanziamento, tramite un sistema di assicurazioni private e di fondi sanitari integrativi – divenuti peraltro in larga parte sostitutivi del Ssn –, nel quale l’erogazione delle prestazioni sanitarie e dei servizi da parte del privato, diventa prevalente rispetto a quella fornita dalla componente pubblica. Le coperture assicurative non migliorano il livello di assistenza, non garantiscono alcuna equità, sottraggono invece risorse alle entrate fiscali e ampliano la presenza delle compagnie assicurative e della sanità privata.

Quest’ultima è disegnata su misura degli interessi economici e finanziari delle grandi società che considerano la salute un mercato con grandi opportunità di crescita e profitto. Tutto ciò prefigura un sistema composto da una sanità pubblica, sempre più impoverita e indebolita, e parallelamente da un secondo pilastro privato accessibile solo ai più ricchi (lasciando peraltro al pubblico le attività più costose). Restano allarmanti i dati Istat relativi a una percentuale di oltre il 4% della popolazione che rinuncia alle cure per motivi economici; così come quelli sulle molte persone costrette a indebitarsi per sostenere le proprie cure.

Le politiche del governo e di regioni come la Lombardia si muovono sulla base di logiche di sostegno alle attività fuori dal servizio pubblico, di una declinazione selettiva dell’universalismo, di un regionalismo competitivo lontano da prospettive cooperative e solidali, nella messa in discussione dei principi di uguaglianza e di uniformità territoriale dei servizi all’origine del Ssn. 

In questo difficile contesto occorre fare scelte politiche relative a dove destinare le risorse economiche e come utilizzarle, così come rispetto al modello di cura e sanità pubblica. Puntare alla prevenzione primaria e alla ricostruzione di una solida rete territoriale di cure primarie e di servizi socio-sanitari integrati è fondamentale per rafforzare la sanità pubblica, a partire dai bisogni reali delle persone. La prevenzione, vantaggiosa sotto numerosi profili, continua a restare la Cenerentola del sistema, e anzi viene confusa con la diagnosi precoce, senza una visione sistemica su come intervenire sui determinanti della salute, che riguardano le condizioni di vita, ambientali e di lavoro delle singole persone e della collettività. 

La sanità non può essere una merce acquistata sul mercato solo da coloro che hanno capacità di spesa e alti redditi.

La tenuta e il potenziamento di un servizio sanitario pubblico, senza discriminazioni di accesso, finanziato attraverso la fiscalità generale progressiva, volto a intervenire sui numerosi determinanti di salute, dipendono dalle nostre scelte. Dalle politiche del governo italiano – e dai vincoli europei alla spesa pubblica – ma anche da nuove mobilitazioni, conflitti, partecipazione; da una spinta culturale e politica volta a riaffermare la centralità del diritto universale alla salute.

Si tratta di ridare priorità al benessere delle persone, all’esigibilità dei diritti, al soddisfacimento di bisogni individuali e collettivi, come pure  alla solidarietà, alla dignità umana, alla giustizia sociale. La posta in gioco è il modello di società che vogliamo, a partire dalla priorità che spetta alla salute per tutte e tutti.

Chiara Giorgi

Chiara Giorgi è professoressa di Storia contemporanea alla Sapienza Università di Roma. Il suo ultimo libro è Salute per tutti. Storia della sanità in Italia dal dopoguerra a oggi (Laterza, 2024).

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