La testa a posto - Lucy
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La testa a posto

Con Ottobre su Lucy arriva anche un nuovo tema mensile. Qui iniziamo a raccontarvelo.

Mai come adesso, in Occidente, siamo stati così edotti sulla nostra salute mentale. Le categorie cliniche del DSM-5, il manuale per i disturbi diagnostici, fioccano su TikTok e nelle biografie di Instagram, rivendicate – e a volte quasi desiderate – come se nelle asettiche parole che le compongono potesse celarsi, una volta per tutte, il senso del malessere che ci attanaglia con più o meno vigore in momenti diversi della nostra vita. Eppure, per molto tempo, le cose sono andate diversamente: il disagio psichico era motivo di vergogna e paura, un marchio che relegava ai margini della società. O ancora, veniva considerato un segno del divino che si manifestava negli esseri umani: le storie della Pizia, di Santa Caterina, del furore di Giovanna d’Arco, sarebbero davvero giunte fino a noi come straordinarie se avessimo appreso prima i concetti di disturbo di personalità, anoressia o delirio psicotico? Ciò che insegnano nelle facoltà di Psicologia e nei dipartimenti di Psichiatria, è che la mente è un oggetto complesso, dimensionale. La lingua, purtroppo, non gode dello stesso privilegio. Quando descriviamo la mente e tracciamo le linee di demarcazione tra ciò che è sano e ciò che non lo è, lavoriamo con l’unico strumento che abbiamo a nostra disposizione, il linguaggio appunto, che equivale a dipingere la Venere di Botticelli con un rullo per imbiancare. Far entrare le dimensioni nelle categorie è ontologicamente impossibile. Allora, pur riconoscendo l’importanza dello studio della mente e la necessità di avere un linguaggio comune da utilizzare tra professionisti per informare e informarsi sui pazienti, non si può che provare un senso di frustrazione davanti all’impossibilità di far coincidere ciò che è scritto con ciò che è. 

“Le storie della Pizia, di Santa Caterina, del furore di Giovanna d’Arco, sarebbero davvero giunte fino a noi come straordinarie se avessimo appreso prima i concetti di disturbo di personalità, anoressia o delirio psicotico?”

Come fare, dunque, a ovviare questo ostacolo? Ce lo siamo chiesti, e l’unica risposta che ci siamo dati è che, da un punto di vista culturale, si può tentare di restituire alla mente la componente dimensionale, profonda avvalendoci di ciò che abbiamo a disposizione oltre al linguaggio: la Storia, che ci racconta come era vista la follia prima dell’Illuminismo; le analisi di sentimenti che proviamo tutti, come la vergogna o la paura; l’esplorazione della relazione tra genio e pazzia. E ancora tutti gli altri colori che, se adoperati su un unico affresco, rendono possibile l’intuizione di ciò che la mente è, anche solo per un istante. Come quando capita di entrare in una chiesa e pensare che sia grande e labirintica al punto da potercisi perdere dentro, prima di realizzare che si tratta di un meraviglioso trompe-l’œil.

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