Le parole che non so dire - Lucy
articolo

Antonella Lattanzi

Le parole che non so dire

Di fronte a un lutto come l’aborto, persino a una scrittrice possono mancare le parole per dare forma al dolore.

Domenica, febbraio, qualche settimana fa, sono andata al Mercato di San Teodoro, a Roma, per il pranzo. Il pranzo però non l’ho fatto. C’erano degli amici che mi aspettavano, ma quando sono arrivata i tavoli erano tutti occupati, c’era troppa gente, la mattina era iniziata col sole ma adesso il cielo diventava di un ossessivo color grigio da togliere il respiro, la fila per comprare da mangiare era lunghissima, il mio compagno ha ringhiato andiamocene, odio la folla, tu lo sai. Ho odiato l’idea di lasciar lì i miei amici, fare la figura di quella che non sopporta il caos e se ne va mentre gli altri rimarranno insieme, ho pensato di oppormi, dire al mio compagno no, voglio rimanere. Ne sarebbe scaturita una piccola lotta. Poteva finire in tre modi: vincevo io, vinceva lui, io rimanevo e lui andava via. Ho aperto la bocca e mi sono preparata alla battaglia. Stavo per iniziare a perorare la mia causa, impuntarmi, sbattere i piedi, dire voglio stare qui. Poi, mi è passato un pensiero nella testa: un dispiacere enorme per il mio compagno. Un dispiacere immenso, del tutto sproporzionato alla situazione, un dispiacere che inglobava e masticava tutti i dispiaceri che potevo avergli dato in questi otto anni da che stiamo insieme. Un dispiacere che aveva a che fare con tutti i dispiaceri che avrei potuto dargli da lì in poi. Ci sono attimi così. Allora ho preso fiato, ho detto: va bene, ce ne andiamo.

Sono andata via odiando il fatto di andar via, l’ho seguito mentre raggiungevamo il motorino, ho visto senza vederlo il Circo Massimo lì accanto (sono passati dei ricordi: mia madre era venuta a Roma, tanti anni prima, sorridevamo abbracciate mentre mio padre ci scattava una foto, io avevo una gonna verde e i capelli lunghissimi, nerissimi, mia madre i jeans e una camicia a quadri, i capelli corti di un bianco splendente), sono salita sul motorino dietro di lui, mi guardavo intorno cercando altre persone nel mio stesso stato emotivo, cerco sempre altre persone, tra gli sconosciuti, che immagino possano stare come me, provare le mie stesse sensazioni, vivere la mia stessa storia. A cui attribuire la mia storia per sentirmi meno sola. Mi sento spesso sola. Abbiamo sfilato per le strade mezze vuote di Roma di domenica, siamo arrivati a Testaccio, ha parcheggiato il motorino. Abbiamo attraversato la strada, raggiunto il ristorante che lui aveva scelto per il nostro pranzo invece del Mercato, era un ristorante che di solito piace molto anche a me, il cielo era sempre di un colore asfissiante, abbiamo salutato il ristoratore, non ci ha consegnato nemmeno un piccolo lampo di riconoscimento nello sguardo, ci siamo seduti, abbiamo mangiato. Lui un’orata, mi pare, io dei gamberoni, credo. 

Mi sforzavo di dare un senso a quella piccola rinuncia – che mi sembrava enorme –, mi sforzavo di essere divertente, di parlare. Perché l’avevo seguito, se poi non mi impegnavo a renderlo felice? Così scontentavo me e pure lui. Ma le parole non venivano, Testaccio era deserto, ci eravamo seduti fuori e cominciava a fare freddo. Mi sono detta: non fare quella faccia da funerale, sei una stupida.

Abbiamo finito di mangiare. Siamo tornati a casa. Abbiamo appena traslocato, siamo tornati in una casa che non sentivo mia. Era domenica, mancava ancora un po’ di tempo all’uscita del mio nuovo romanzo, mi ero ripromessa di passare il pomeriggio a leggere o rileggere dei libri che, per me, avevano a che fare con quanto avevo scritto. Mi servivano per trovare le parole per rispondere alle domande che mi avrebbero fatto all’uscita. Come ti è venuta l’idea? Di cosa parla il tuo romanzo? Domande a cui, per lo più, non so rispondere. In quel momento, se avessi dovuto dire di cosa parlava il mio romanzo, avrei potuto solo girare intorno lo sguardo e indicare questa casa ancora mezza vuota. Una casa troppo grande per noi due, o almeno per me. Se avessi dovuto dire come mi è venuta l’idea del mio romanzo, non avrei potuto fare altro che indicare il divano. 

Le parole che non so dire -

Questo divano, nella mia vecchia casa, era rivolto verso la finestra. Dalla finestra, spesso, si vedeva la luna. Altre volte si vedeva una luce tonda come la luna, che sembrava tantissimo la luna, e però era la luce di una casa di fronte che avevano costruito a forma di nave, e la finestra era un oblò. A volte, nei mesi passati con chi non ho mai avuto le parole per definire ma che è stato, per un tempo, dentro di me, mi sembrava di starci, in una nave. Guardavo quell’oblò e pensavo madonna mia, che viaggio che facciamo io e te. Tutte queste cose, nella mia casa nuova non le vedo più.

Se quella domenica, dopo il pranzo di pesce, mi avessero chiesto come ti è venuta l’idea del tuo romanzo o di cosa parla, io avrei potuto solo indicare, non avevo le parole. Quindi, volevo chiederle ai romanzi. Siamo entrati in casa, ho tolto la giacca e la sciarpa, ho poggiato la borsa sulla poltrona (non sul divano), mi sono seduta al tavolo di legno bianco che galleggiava in mezzo al salotto vuoto. Tutto intorno, scatoloni ancora chiusi su cui c’era la parola: libri, e quadri imballati. Di fronte a me, mezza aperta, la cassaforte che chissà chi aveva fatto incastonare nel muro chissà quanti anni prima. Una cassaforte che, chiaramente, non useremo mai, e in cui non sapremmo nemmeno cosa mettere. Il tavolo era ingombro. Da qualche giorno, raccoglievo disordinatamente in un angolo i libri che volevo leggere o rileggere per trovare le risposte alle domande. Ho allungato una mano, ho preso L’evento di Annie Ernaux. Non l’avevo mai letto. Ho ripreso dal punto in cui avevo interrotto prima di uscire. Mi sono trovata subito spinta nell’orrore di un aborto che la protagonista, nel ’63, è costretta a compiere in modo illegale (avevo smesso la lettura nel momento in cui Annie entra nella casa della mammana, non avevo avuto il coraggio di proseguire), un feto partorito nel bagno di uno studentato (un “bambolotto”, scrive lei), ho letto tutte le parole anche se mi sentivo svenire, tirare, e trapassare, non mi sono fermata, sono andata avanti, ho letto:

“Per le sue credenze e il suo sistema di valori borghese O. non era preparata a tagliare il cordone di un feto di tre mesi. Oggi, a distanza di tempo, forse ricorda quell’episodio come un disordine inspiegabile, un’anomalia nella sua vita. Forse è una convinta antiabortista. Eppure è lei, di cui rivedo l’esile sagoma riluttante, in lacrime, l’unica persona che era al mio fianco, quella notte, a improvvisarsi levatrice nella stanza 17 dello studentato femminile”.

“Se quella domenica, dopo il pranzo di pesce, mi avessero chiesto come ti è venuta l’idea del tuo romanzo o di cosa parla, io avrei potuto solo indicare, non avevo le parole. Quindi, volevo chiederle ai romanzi”.

Avrei voluto essere da sola nella casa. Sola su tutta la terra. Per avere il silenzio giusto per poter sentire – sentire con le orecchie, anche se non avrei mai letto quelle pagine ad alta voce – ciò che avevo letto. Annie da sola nella casa della mammana. Costretta ad abortire in quel modo. A portare una sonda dentro di sé per giorni per indurre il travaglio. A doversi tirare fuori un feto morto nei bagni di uno studentato. I medici omertosi e pieni di sudore che non l’aiutavano. Il padre di quel bambino che se ne disinteressava. O. l’unica persona al suo fianco. Ho cercato di respirare. Il mio compagno faceva tanto rumore, stava spacchettando qualcosa che era chiuso nella plastica. Aveva messo su la musica, Paolo Conte credo. Avrei voluto dirgli quello che la ragazza di Colline come elefanti bianchi di Hemingway dice all’uomo che vuole convincerla ad abortire (mi rendo conto solo ora, mentre scrivo, che mi è venuto in mente proprio un racconto sull’aborto, in quel momento mi sono tornate queste parole a prescindere da ciò che Hemingway racconta): “Vorresti per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere smettere di parlare?”

Domanda che potrebbe aver ricevuto Annie Ernaux all’uscita del suo libro: Di cosa parla “L’evento”? Domanda che avrebbe potuto ricevere Hemingway: Di cosa parla “Colline come elefanti bianchi”?

Può essere che parlino d’amore, in tutto un altro senso rispetto a quello più intuitivo?

Domande che avrebbero potuto ricevere entrambi: Siete proprio sicuri di voler raccontare queste cose?

L’amore.

L’amore era quello che, in una domenica di febbraio, mi aveva convinto di dover fare una piccola rinuncia che però mi aveva reso rabbiosa oltre ogni ragionevolezza? 

O l’amore era quello che stavo provando, nella casa mezza vuota, mentre Paolo Conte discettava dello spettacolo di arte varia di uno innamorato di te e io volevo solo chiedergli per favore per favore per favore di smettere di cantare, mentre il mio compagno faceva scattare il metro di metallo, allungabile, più e più volte, e prendeva le misure per fantasmi di divani, cassettiere, poltrone, scrivanie che ancora erano solo nella sua testa – ma che lui probabilmente vedeva –, fantasmi di scrivanie e poltrone e cassettiere e quadri e libreria in tutta la casa e anche in quello che ci siamo dovuti arrendere a chiamare studio, mentre il nome di quella stanza, la parola giusta per definirla sarebbe dovuta essere un’altra, mentre per fortuna il sole calava e iniziava finalmente a nascondere quel cielo assillante, quel “cielo così bianco” (il cielo così bianco di Andrea Pazienza in Pompeo, uno schizzo a tutta pagina del viso di una donna – donne dappertutto in quel momento), o l’amore era quello che provavo per la scrittrice Annie Ernaux, per la protagonista de L’evento, Annie, per l’amica di Annie, O., l’unica che le era stata vicina nel momento più terribile della sua vita, per la ragazza di Colline come elefanti bianchi?

L’amore è l’amore, o è un’altra cosa?

Le parole che non so dire -

Sono tornata indietro. Ho ripreso un altro pezzo de L’evento che avevo sottolineato.

“Dopo la prima visita in passage Cardinet ho cominciato a prendere la penicillina, e da quel momento, in me, c’è stato posto soltanto per la paura. Vedevo la cucina e la camera della signora P. R., non mi volevo immaginare cosa avrebbe fatto. Alle ragazze che incontravo in mensa raccontavo di essere terrorizzata perché mi dovevo far togliere un grosso neo sulla schiena, lasciandole perplesse per quella che, ai loro occhi, sembrava una reazione tutto sommato sproporzionata. Confessare di aver paura mi procurava sollievo: per un secondo potevo credere che ad aspettarmi, invece di una vecchia in una cucina, ci fosse un chirurgo con i guanti di lattice in una sala operatoria attrezzata”. 

Qui Annie è appena stata per la prima volta dalla mammana che le praticherà l’aborto. Sono gli anni ’60, l’interruzione di gravidanza è illegale, lei non ha raccontato niente quasi a nessuno di quello che le sta accadendo, mente sul motivo per cui è terrorizzata e dunque non può essere compresa, ma almeno poter raccontare una cosa, la paura, le dà sollievo.

E io penso di amare quella Annie perché fa la stessa cosa che ho fatto io quando mi sono accaduti i fatti che ho raccontato nel mio romanzo – mentire, non dire a nessuno –, i fatti che ho raccontato nel mio romanzo e che riguardano quello che ho avuto dentro di me per mesi e che non so nominare, non voglio nominare, e penso di amare Annie Ernaux, la scrittrice, che non aveva le parole allora ma adesso, al momento di scrivere, ce le ha. Deve trovarle per forza. Non le dice: le scrive.

Un altro pezzo da L’evento: “Ancora non so quali parole mi verranno. Non so cosa fa accadere la scrittura. Vorrei rimandare quel momento, attardarmi in questa attesa. Paura, forse, che la scrittura dissolva quelle immagini, come succede a quelle del desiderio sessuale che dopo l’orgasmo si cancellano in un istante.” Un altro pezzo: “Né lui né io abbiamo pronunciato una sola volta la parola aborto. Era qualcosa che non aveva posto nel linguaggio”. Nel linguaggio orale, no. Nella parola scritta, finalmente sì.

Ora che l’ho letto lo posso nominare. Aborto.

È questo l’amore?

Questo trovare finalmente un posto nel linguaggio scritto a ciò che siamo ma non abbiamo il coraggio di dire, nemmeno di pensare?

Può essere che l’amore sia l’evento letterario, quel momento in cui tutte le cose che non si possono dire, tutte le cose che non abbiamo il coraggio di dire, tutte le “cose che non si raccontano” come le chiama Simenon, che siano reali o finzionali, diventano vere perché finalmente trovi una parola per nominarle sulla pagina? Non vere nel senso di reali. Vere in senso assoluto. Vere come la prima volta che scrivi la parola mela e finalmente puoi portare la mela che è sulla pagina – e quindi la mela vera – in giro per il mondo. Vere come la prima volta che leggi la parola mela e allora, solo allora, alzi la testa, vedi un pomo rossiccio in una cesta sul tavolo e capisci cosa una mela davvero è.

Le parole che non so dire -

Torniamo alla O. de L’evento, che non ha nemmeno un nome, perché la scrittrice Ernaux non sa se la donna vera vorrebbe essere riconosciuta. Il personaggio O. che si sobbarca l’esperienza di tagliare il cordone ombelicale di un feto morto. O. in lacrime. 

Adesso, mentre sto scrivendo, è passata qualche settimana dalla domenica di febbraio in cui sono andata via dal Mercato di San Teodoro. Adesso la casa è ancora mezza vuota, ma dal soffitto penzolano delle grosse palle di carta che il mio compagno ha scelto come lampadari. Stamattina ci hanno portato la scrivania per lo studio (rileggi la parola che hai appena scritto, Antonella: studio, studio, studio), era una scrivania che stava in casa di sua madre. Qualche giorno fa gli operai hanno montato lo specchio in bagno, e delle mensole. Hanno ridipinto le pareti là dove il trasloco le aveva segnate (un sogno: impronte di mani di bambine). In cucina c’è una lavastoviglie. Non avevo mai avuto una lavastoviglie, prima. Ho chiesto a mia madre se vuole venire a vedere la casa, se vuole venire qualche giorno a Roma per stare un po’ insieme nella casa nuova. Pensavo sarebbe stata entusiasta. Invece ha detto: no, fa freddo. Non so se ci sono rimasta male, o no. A mia madre non ho raccontato niente. Non lo racconterò. Adesso sono appena uscita dalla doccia. In accappatoio, sono andata nello studio per vestirmi. Il mio compagno e l’architetto hanno deciso che il mio armadio dovesse stare qui. Mi sono fermata sulla soglia. Ho visto il fantasma della stanza che questa stanza reale avrebbe dovuto essere. 

“È questo l’amore? Questo trovare finalmente un posto nel linguaggio scritto a ciò che siamo ma non abbiamo il coraggio di dire, nemmeno di pensare?”

Volevo spaccare i mobili reali di questa stanza di fantasmi. Non ho spaccato niente. Volevo spaccare in mille pezzi la mia relazione. Non ho spaccato niente. Mi sono seduta per terra. Ho riaperto L’evento. Mentre leggevo, di colpo ho capito, in un lampo, che detesto questa casa. La odio con tutte le mie forze. E ho capito, in un lampo, perché. Nell’altra casa, ho vissuto con quella cosa che doveva essere. Cambiare casa. Rifarsi una vita. Perché l’ho fatto? Adesso, dopo aver fatto la doccia ed essermi vestita, sto scrivendo, è lunedì, sono le sedici e zerocinque e piove. Oppure non è vero.

Oppure non c’è stato nessun mercato, non c’è stata alcuna pila di libri sul tavolo, non c’è stato Paolo Conte, non ci sono palloni come lampadari, salotti, bagni, case, non esiste lo studio e non esiste il fantasma della cameretta delle bambine, non esiste questa casa e non esiste alcun compagno. Non esiste nessun bambino che doveva esserci e non c’è.

Esiste solo, ed esiste veramente, Annie che esce da casa della mammana dopo tutto, e cammina a piedi, mentre la donna l’accompagna, O. che taglia il cordone ombelicale, la ragazza che chiede all’uomo di smettere di parlare in Colline come elefanti bianchi, il cielo così bianco di Andrea Pazienza, l’uomo che forse ha ucciso sua moglie nel romanzo di Simenon in cui si parla delle cose che non si raccontano. Forse non esiste niente. Ma quando lo leggi in un libro, certamente e finalmente esiste tutto.

Allora l’amore è davvero una cosa innominabile dal vero, imprendibile, indistinguibile dal vero, ma così chiara, così vera, così lampante, così commovente nel nero su bianco della parola scritta che tu finalmente puoi leggere, nel fraseggio dei capitoli, nella ruvidezza, se la tocchi, della pagina.

Postilla

Un’immagine, un ricordo. Ho quindici anni, il mio primo fidanzato Alessandro e io abbiamo litigato, lo evito da una settimana. Non ricordo perché. Arrivo nella scuola di danza in cui studio tutti i giorni. La signora Claudia, che sta alla scrivania all’ingresso della scuola, mi saluta e mi consegna un pacco di lettere che Alessandro mi ha fatto recapitare lì. Sono impacchettate con un nastro e una rosa blu che ha fatto lui con la plastilina e che ha dipinto lui. La prima lettera inizia così: “Ti scrivo per dirti quello che non riesco a dire a voce”. Mi ricordo che leggo quelle lettere e finalmente capisco (non so se facciamo pace o no, non so se ci lasciamo allora o tempo dopo). Leggere mi consola sempre. Anche quando mi distrugge. Scrivere vuol dire nominare, leggere vuol dire avere coraggio. Leggo per dirmi quello che non riesco a dirmi a voce; che non ho il coraggio nemmeno di pensare.

Antonella Lattanzi

Antonella Lattanzi è scrittrice e sceneggiatrice. Il suo ultimo libro è Cose che non si raccontano (Einaudi, 2023).

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