Giulia Matarazzo
25 Giugno 2025
Figli di chi si è incontrato grazie al noto programma universitario, gli Erasmus babies sono oggi la vera anima dell’Europa.
Marta, Inés e Bruno vivono a Maastricht, Madrid e Bruxelles, parlano quattro lingue, hanno tre passaporti ciascuno e sono parte del milione di bambini nati da coppie conosciutesi durante l’Erasmus. I loro genitori, Carlota e Hubert, lei franco-spagnola e lui belga, si sono incontrati nel 1996 in Italia, dove si trovavano per trascorrere un semestre all’Università di Firenze. “I belgi hanno un ottimo senso dell’umorismo, sono propositivi, molto più dei francesi” spiega Carlota, con una certa autoironia, rievocando il primo incontro con Hubert e tutto ciò che ne è seguito.
“Abbiamo avuto una relazione a distanza per due anni, poi io ho deciso di fare un master a Bruxelles, così siamo andati a vivere insieme” mi dice, ripercorrendo i vari spostamenti. “Dopo dieci anni, quando le bambine erano ancora molto piccole, ho cominciato a sentire nostalgia del mio Paese, per cui ci siamo trasferiti in Spagna e siamo rimasti lì per quattro anni e mezzo. Questo mi ha aiutato a riconnettermi con il mio Paese, ma anche a capire che ero molto cambiata e che anche la Spagna, allo stesso modo, era cambiata. E poi, il periodo a Madrid mi ha permesso di apprezzare ciò che mi piaceva del Belgio. Alla fine, siamo tornati a Bruxelles quando è nato il nostro terzo figlio, nel 2010. È stata ed è tuttora un’avventura fantastica” conclude “Allo stesso tempo mi sento ancora un’espatriata in Belgio e, in parte, una straniera in Spagna; è una sensazione strana e a volte difficile da gestire. Ora guardo i miei figli e mi chiedo dove andranno a vivere”.
Immagino i figli di Carlota crescere fra il Nord e il Sud dell’Europa, in due città profondamente diverse fra loro, e mi sembra possano decidere chi e cosa essere più liberamente rispetto ad altri loro coetanei figli di connazionali, come se avessero più risorse alle quali attingere e più strumenti per disegnare la propria identità. Gli Erasmus babies, come Marta, Inés e Bruno, sono uno dei grandi successi dell’Unione Europea: mentre gli stati uniti d’Europa scivolano verso l’utopia, in un’epoca di sempre più marcati nazionalismi, la cittadinanza comunitaria si aggrappa saldamente alla possibilità che migliaia di famiglie si collochino in mezzo—o forse al di sopra—dei confini nazionali.
Del resto, la stessa Commissione Europea, in uno studio del settembre del 2014, redatto su iniziativa dell’allora commissaria per l’istruzione, la cultura e la gioventù Androulla Vassiliou, aveva stimato che circa il 40% dei partecipanti al programma Erasmus trovi il proprio partner nel corso della mobilità all’estero. Inoltre, secondo il più recente Erasmus Annual Report, compilato dal Publications Office dell’UE nel 2024, e relativo al 2023, risulta che gli studenti che partono per l’Erasmus abbiano raggiunto il numero record di 1,3 milioni. Dal 1987 ad oggi, invece, si parlerebbe di addirittura 15 milioni di soggetti coinvolti in totale, una vera e propria generazione in movimento, per la quale l’UE investe all’incirca 4,5 milioni di euro l’anno.
C’è di più: i dati forniti da uno studio della Commissione Europea del 2019 rivelano che, a 5 anni dalla laurea, il tasso di disoccupazione degli studenti che hanno fatto un’esperienza di studio internazionale è del 23% più bassa della media. C’è da domandarsi se la mente dietro l’Erasmus, l’italiana Sofia Corradi, si sarebbe mai immaginata che la sua idea avrebbe raggiunto simili proporzioni, fino a trasformarsi in un fenomeno culturale capace di contenere un microcosmo di sensazioni condivise dai giovani di 33 Paesi nel mondo.
Corradi, che in molti chiamano Mamma Erasmus, nel 1959 è una studentessa di Giurisprudenza poco più che ventenne, ed è appena rientrata a Roma dalla Columbia University di New York. Gli esami che ha sostenuto negli Stati Uniti, dove ha frequentato un master in diritto comparato grazie alla prestigiosa borsa di studio Fulbright, non le vengono riconosciuti in Italia, così Sofia è costretta a ripeterli. È in questa situazione che inizia a pensare ad un sistema di accordi fra Università di decine di Paesi, che non solo permettano la convalida degli esami superati all’Estero, ma che addirittura incentivino gli studenti a internazionalizzare il proprio percorso di studi, aiutandoli anche economicamente.
Nessuno lo sa, neppure la stessa Sofia, ma ha appena inventato l’Erasmus.
Certo, prima che il programma veda la luce, in quella che sarebbe presto diventata la Comunità Europea, trascorrerà quasi un ventennio. Quando Sofia Corradi si laurea, del resto, il Trattato di Roma è stato firmato solo da qualche anno, gli Stati Membri sono appena sei e le frontiere si attraversano ancora con il passaporto in tutto il Vecchio Continente. Per fortuna, Corradi, oggi pedagogista rinomatissima e consulente scientifico dell’associazione dei Rettori delle università italiane, continua a proporre il suo progetto per anni. Dapprima tramite un memorandum promosso presso il Ministero italiano dell’istruzione e successivamente discutendone nel corso della conferenza dei rettori italo-francese del 1969.
” I dati forniti da uno studio della Commissione Europea del 2019 rivelano che, a 5 anni dalla laurea, il tasso di disoccupazione degli studenti che hanno fatto un’esperienza di studio internazionale è del 23% più bassa della media”.
La vera svolta, tuttavia, arriva nel 1987, quando l’associazione Egee (nota anche come Forum degli Studenti Europei), rappresentata dallo studente francese di Scienze Politiche Frank Biancheri, convince François Mitterand ad appoggiare a Bruxelles la creazione dello EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Students. Il suo acronimo leggermente forzato, Erasmus, è un omaggio all’umanista e grande viaggiatore Erasmo da Rotterdam, che non a caso frequentò l’università in Francia, Olanda, Belgio e Italia.
Che cosa volesse dire, poi, partire nell’epoca pre-internet me lo ha spiegato molto bene Daniela, che nell’ottobre 1997 è stata una delle primissime studentesse della facoltà di Economia dell’Università di Napoli a partecipare all’Erasmus. Per raccontarmi della sua esperienza a Murcia, ci ha tenuto fosse presente anche suo marito Riccardo, all’epoca studente all’Università di Campobasso e che ha conosciuto proprio durante quei nove mesi in Spagna.
“Se non fossi andata in Erasmus non sarei la persona che sono oggi” dice Daniela, “in un certo senso, in quel periodo sono nata, come studentessa, come donna e come persona pensante”.
“L’Erasmus è stata la cosa che ci ha permesso di acquisire una dimensione globale” aggiunge Riccardo, che parla di quell’esperienza con una luce negli occhi. “Bisognava affidarsi alle persone del posto, bisognava fidarsi degli stranieri”.
Durante la nostra lunga chiacchierata, li vedo sorridere ricordandosi delle difficoltà linguistiche e logistiche di un’Unione Europea di cui si sapeva ancora poco e dell’eredità della loro esperienza all’Estero.
“Ritrovarti in un Paese sconosciuto a vent’anni ti imprime un’empatia particolare per gli immigrati. Quando vediamo un ragazzo straniero, così, per strada, non siamo capaci di ignorarlo.”
“In effetti, in casa nostra c’è sempre qualche straniero di passaggio” ridono, forse pensandoci davvero solo mentre lo dicono. Mi raccontano, infine, dell’impatto che la loro esperienza internazionale ha avuto sull’educazione del figlio, Alessandro.
“Nostro figlio ha 16 anni e l’anno prossimo partirà per frequentare la scuola in Inghilterra. E’ un viaggiatore instancabile perché lo abbiamo abituato così, fin da subito.
Ma, del resto, chi ha fatto l’Erasmus poi non smette mai di viaggiare, diventa un vagabondo”.
Del loro entusiasmo, c’è una cosa che mi ha colpita più di tutte. Ero convinta che avrei parlato di figli Erasmus, invece mi si è rivelata una realtà fatta di fratelli e sorelle e cugine e zii Erasmus. Riccardo mi ha detto che chiama hermanos i suoi amici spagnoli, Daniela che dà il buongiorno alle sue amiche di Murcia tutte le mattine, che i loro figli stanno crescendo insieme, che la Spagna e l’Italia sono casa in egual modo. In altre parole, mi hanno raccontato di una vera e propria famiglia putativa, di legami scelti e conservati fra due Paesi e di una commistione di culture che viene alimentata da quasi trent’anni.
Così ho ripensato al film L’appartamento spagnolo, che più di ogni altro ha saputo immortalare la generazione Erasmus, in cui il francese Xavier parte dalla sua università parigina per trascorrere un anno a Barcellona. È il 2002 e il regista Cedric Klapisch fa attraversare al suo protagonista, un giovanissimo Romain Duris, tutte le tappe di chi vive o ha vissuto quel tipo di esperienza, tanto che lo vediamo trascorrere giornate intere a fare su e giù in qualche ufficio di facoltà, compilare pile di documenti e affrontare le angoscianti preoccupazioni di sua madre su cosa potrebbe accadere a migliaia di chilometri da casa.
E in effetti, qualcosa succede. Quando Xavier torna a casa, in Francia, cambia radicalmente l’architettura della propria vita, gettando all’aria i piani studiati dagli altri per il suo futuro. Così come forse hanno fatto Carlota, Hubert, Daniela, Riccardo. Così come ho fatto anch’io.
Quando ero piccola, mio nonno mi parlava spesso delle febbri di crescita che, secondo lui, vengono ai bambini che diventano un po’ più adulti all’improvviso. In questi casi, il corpo si deve abituare e non è facile, forse all’inizio provi un forte disagio, ma poi, inevitabilmente, ti adatti alla tua nuova forma, guadagni qualche centimetro di altezza e ti senti anche più in salute di prima.
Dopo essere tornata dal mio Erasmus in Francia, ho ripensato tanto a quei sei mesi, a mio nonno e a come si diventi grandi, e ho avuto l’impressione lucidissima di aver avuto una lunga febbre di crescita. Il mondo si era allargato tutto d’un colpo, centrifugando e confondendo, amplificando e disperdendo i vari pezzetti della mia vita. Tornare a casa mi aveva costretta a parlare con me stessa come ad un’estranea, che mi raccontava tutto il giorno dei suoi gusti e desideri, delle sue più recenti idee e scoperte, di un sacco di luoghi e persone completamente nuovi. Soprattutto, era partita un’italiana ed era tornata un’europea.
“Sì, mi sento MOLTO europea. Lo ero già da piccola, è per questo che ho partecipato al programma Erasmus. Ma poi mi sono innamorata di una persona che viene da un altro Paese, ho deciso di trasferirmi all’Estero…”. Carlota mi ha scritto queste osservazioni per messaggio e mi fa sorridere che la parola “molto” l’abbia digitata proprio così, in stampatello. “E credo che anche i miei figli si sentano molto europei. Al contempo, è difficile stabilire quale delle nostre culture – la mia e quella di mio marito – li abbia influenzati di più. Dipende dal bambino. Anche il Paese in cui vivono o la scuola che frequentano hanno molta influenza. Nel mio caso sono cresciuti in Belgio, ma in realtà anche in Spagna per alcuni anni, poi hanno frequentato una scuola europea a Bruxelles, in un clima molto ‘expat’ e questo ha avuto un certo peso. Però avere genitori di due culture diverse sicuramente ti apre molto, a partire dalla lingua, dai viaggi da un Paese all’altro, dalle diverse tradizioni che convivono in casa”.
“Del loro entusiasmo, c’è una cosa che mi ha colpita più di tutte. Ero convinta che avrei parlato di figli Erasmus, invece mi si è rivelata una realtà fatta di fratelli e sorelle e cugine e zii Erasmus”.
Nel corso di queste interviste, quella con Daniela e Riccardo e quella con Carlota, ho pensato lungamente ad Altiero Spinelli. A Ventotene, nel suo Manifesto, scriveva “l’Europa non nascerà d’un colpo, sarà il risultato di uno sforzo continuo e ostinato”. Spinelli aveva immaginato l’Europa Unita addirittura negli anni Quaranta. Prigioniero su un’isola in mezzo al Mediterraneo, già allora raccontava di pluralità culturale, di unione e di scambio, affidando la realizzazione di un futuro così ottimista agli europei che sarebbero nati di lì a qualche decennio, da lui definiti spiriti liberi e moderni.
Negli anni Novanta, Jaques Delors, il più duraturo fra i presidenti della Commissione Europea, esprimerà un concetto simile. A pochi giorni dalla firma dello storico trattato di Maastricht, mostrandosi preoccupato che l’UE rimanga un mero progetto economico, dirà “l’Europa ha bisogno di un’anima”, alludendo ad un’identità condivisa che si sta costruendo tutt’oggi.Una spagnola che diventa un po’ belga, due italiani che diventano un po’ spagnoli e dei bambini che crescono sentendosi metà e metà: non sono forse loro, o quelli come loro, l’anima dell’Europa?
Un continente aperto, di popoli misti, con radici affondate in millenni di Storia e cultura, ma anche piedi per muoversi e viaggiare. Un continente ancora imperfetto e contraddittorio, certo, ma collegato e percorribile, in cui miliardi di persone sono in qualche modo parte della stessa grande rete. Questo continente non ha già un’anima forte e unica?
Probabilmente gli abitanti di uno spazio così grande non si sono ancora uniformati, ma si sono avvicinati. Non si capiscono sempre, ma si innamorano spesso. Non parlano la stessa lingua, ma rimangono fedeli alla promessa di compiere quello sforzo ostinato e continuo, e non smettono di dialogare.
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