I turchi alle porte. È giusto farli entrare? - Lucy sulla cultura
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Bruna Soravia

I turchi alle porte. È giusto farli entrare?

Dal 2018 i negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono in fase di stallo. Se la storia della Turchia moderna è peculiare e complessa, lo sono anche i rapporti che il Paese intrattiene con l’Europa (soprattutto negli ultimi anni).

Quando, nel 1963, la Turchia sottoscrisse il Trattato di Ankara, dando inizio al percorso di integrazione nella Comunità europea, l’allora presidente della Commissione, il tedesco Walter Hallstein, dichiarò: “La Turchia è parte dell’Europa”. Nel 1997, due anni prima della candidatura ufficiale all’entrata nell’Unione europea, i cristiano-democratici tedeschi affermarono che non c’era posto per la Turchia nel modello di società al quale l’Europa stava dando forma. La storia infinita dell’integrazione turca in Europa si è svolta fra questi due estremi, fino all’ultimo episodio di qualche settimana fa, quando il Parlamento Europeo ha confermato la sospensione del processo di integrazione, condannando l’arresto recente del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoğlu e la repressione delle manifestazioni a suo favore. La risoluzione menziona – come tutte quelle che l’hanno preceduta – il deterioramento continuo delle regole democratiche e la soppressione sistematica delle opposizioni in Turchia e richiama il governo al rispetto delle istituzioni democratiche, del diritto internazionale e all’allineamento alla politica estera europea, indicati come criteri non negoziabili dell’accesso all’Unione.

Ma la Turchia è mai stata davvero vicina all’ingresso in Europa? Detto altrimenti, quanto è europea la Turchia?

Alle origini del paradosso turco

Il fondatore della Turchia moderna, Mustafa (all’epoca non si usavano cognomi) detto poi Kemal, “il perfetto” e infine, al culmine della sua gloria mondana, Atatürk, il padre dei Turchi, pensava che l’influenza europea potesse aiutare il paese che aveva in mente a liberarsi dall’eredità tradizionale dell’impero ottomano – il “malato d’Europa” come era chiamato nei circoli politici e diplomatici –  eredità che aveva pesato come una zavorra in tutti i tentativi di riforma fatti nel corso del XIX secolo. Dal 1517, anno che si indica come quello della sua fondazione, l’impero era stato un contenitore di nazionalità, culture, religioni e lingue diverse, tenute insieme in maniera fluida da un potere sultanale interessato più al prelievo fiscale e alla sporadica affermazione della propria autorità che all’integrazione sociale e religiosa. L’autogoverno delle diverse comunità, soprattutto di quelle appartenenti alle cosiddette religioni del Libro  – cristiani di vari riti ed ebrei – aveva permesso per i primi due secoli dell’impero lo sviluppo di una particolare forma di multicomunitarismo, molto mitizzata ancora oggi da chi ne è disceso. Aveva però anche impedito l’evoluzione delle strutture statali e della cultura politica ottomana nel senso moderno che un po’ ovunque in Europa occidentale premiava gli stati con un’identità nazionale definita, etnoculturale o politica. 

Oggi Mustafa sarebbe europeo, essendo nato a Salonicco in una famiglia di condizione media con probabili ascendenze balcaniche (padre e figlio erano biondi con gli occhi chiari). Mustafa era ambizioso e brillante, “perfetto” come lo chiamavano i suoi professori, e destinato alla carriera militare. Nell’esercito capì bene la debolezza dell’impero, confrontato agli stati europei in Nordafrica e nei Balcani e poi nella Prima guerra mondiale, dove Mustafa Kemal fu protagonista delle poche battaglie vinte dagli ottomani ma dovette subire, nel 1918, l’armistizio umiliante che mise a disposizione dei vincitori quello che restava dell’impero. Di questa disintegrazione rapidissima approfittarono soprattutto Italia e Grecia, che avanzarono pretese sull’Anatolia, il centro dell’impero, perseguendo la prima un progetto coloniale imperiale, la seconda la “Grande idea” di ricostruire l’impero bizantino, con l’accordo dell’Inghilterra. Fu per difendere l’Anatolia che Mustafa Kemal si ribellò all’ingerenza europea, esautorando il califfo-sultano ottomano e mettendosi a capo di un governo provvisorio che respinse i termini dell’armistizio e poi quelli del successivo trattato che, nel 1920, accolse quasi tutte le richieste greche. 

Nei due anni successivi, Kemal, a capo dell’esercito, respinse l’offensiva greca e recuperò il controllo su gran parte della penisola anatolica e su alcuni territori a ovest dei Dardanelli e al confine con l’attuale Siria, che gli furono poi confermati nel 1923.

La Repubblica turca fu proclamata il 29 ottobre 1923 a conclusione di un enorme scambio di popolazioni, il primo della storia del ventesimo secolo: un milione e mezzo circa di greci che abitavano da secoli in Anatolia furono espulsi, così come circa mezzo milione di turchi che vivevano in Grecia. Lo stato che Mustafa Kemal intendeva fondare sui resti dell’impero doveva segnare una netta rottura con la tradizione ottomana, iniziando proprio dall’aspetto multicomunitario che Kemal giudicava pericoloso da quando l’autodeterminazione nazionale, promossa dal presidente americano Wilson nel 1919, era diventata parola d’ordine per i popoli inclusi dentro i confini dell’ex-impero. Questo non significa però che tutti gli abitanti della Turchia dovessero essere etnicamente turchi, cosa comunque impossibile dopo oltre un millennio di coesistenza e mescolanza. Per Kemal, i turchi sarebbero stati, d’ora in poi, tutti quelli che si riconoscevano come tali dentro i confini del nuovo stato, come afferma il famoso slogan da lui coniato nel 1933: “Felice è chi dice: io sono turco”. 

In altre parole, l’identità turca, non diversamente dalla laicité francese, sarebbe prevalsa sulle differenze etniche presenti, assimilandole. Per rafforzare la nuova identità, Kemal, proclamato Atatürk nel 1934, impose la secolarizzazione dello stato, abolendo il ruolo privilegiato dell’islam e delle sue istituzioni, e una radicale riforma linguistica che sostitutiva all’osmanli – la lingua imperiale scritta in alfabeto arabo – il turco, scritto in alfabeto latino e depurato dei termini derivanti dal persiano e dall’arabo. Questa riforma, non isolata all’epoca (riforme analoghe conobbero l’albanese e l’ebraico), permise l’alfabetizzazione di massa della popolazione, separando definitivamente la Turchia moderna dalla sua secolare tradizione culturale scritta in osmanli. Inoltre, i simboli esteriori del passato – cappelli e velo musulmani – furono aboliti, alle donne furono dati, con grande anticipo sugli stati europei, pieni diritti politici e la capitale fu spostata ad Ankara, nell’interno del paese, lontano da Istanbul troppo legata al passato.

L’avvicinamento della Turchia al modello occidentale proseguì con il successore di Kemal, Ismet Inönü, nonostante le strettoie e gli ostacoli soprattutto economici sulla strada nel nuovo stato, e nonostante le ingerenze dell’Unione Sovietica, interessata a intervenire nella politica della Turchia fin dalla sua fondazione. Alla fine della Seconda guerra mondiale, rispetto alla quale aveva mantenuto una difficile neutralità, la Turchia si presentava come un regime ibrido, allo stesso tempo autoritario, rigorosamente laico e riformista, dove l’unico partito ammesso era quello del presidente e l’esercito garantiva l’osservanza del kemalismo, l’ideologia dello stato. Se questa descrizione sembra adattabile ad altri stati dell’epoca è perché il kemalismo divenne il modello di riferimento per la costruzione dei moderni stati nazionali mediorientali e nordafricani, come l’Egitto e alla Tunisia, che condividevano con la Turchia l’obiettivo di distanziarsi da una tradizione culturale e religiosa considerata come un ostacolo alla modernizzazione e al progresso.

Sulla frontiera di due mondi

Fra il 1948 e il 1952, l’accesso della Turchia al Piano Marshall, il più ambizioso e lungimirante dei programmi statunitensi di aiuto del secolo scorso, aprì la prima crepa nel regime kemalista. Sull’onda del boom economico che vi seguì nacquero due nuovi partiti e Adnan Menderes, capo del Partito democratico, tenne il potere per un decennio, prima allargando le libertà politiche e religiose, grazie anche a una situazione economica positiva, poi irrigidendosi e perseguitando gli avversari. Nel maggio 1960 avvenne la “rivoluzione”, come fu chiamato il primo di una decina di colpi di stato tentati o realizzati dall’esercito: il vecchissimo Inönü fu rimesso al potere, Menderes e i suoi principali ministri furono impiccati per alto tradimento e fu introdotta una nuova costituzione che riconfermava la forma kemalista dello stato.

Lo sfondo di questo golpe, come degli altri interventi militari che seguirono, è la guerra fredda fra il blocco sovietico e quello a guida americana. Nel 1952, finiti gli aiuti americani, la Turchia era stata cooptata nella NATO con il ruolo di guardiano del confine con il blocco sovietico, separato dall’Europa dalla cerniera fisica degli Stretti (Dardanelli e Bosforo). L’Unione sovietica avrebbe esercitato una duratura attrazione su dissidenti e delusi del kemalismo e lo stesso Menderes aveva compromesso definitivamente il suo rapporto con il partito kemalista e con l’esercito per aver cercato aiuto in URSS dopo la cessazione dei finanziamenti americani. Nazım Hikmet, forse il più famoso poeta turco del Novecento, discendente di una famiglia illustre di funzionari e militari ottomani nella cui complicata genealogia s’incrociavano tutte le nazionalità europee dell’impero, aderì al comunismo in gioventù e fu per questo perseguitato e imprigionato più volte. Privato della cittadinanza, che Erdoğan gli avrebbe restituito, fuggì in Unione Sovietica dove morì nel 1963. 

“L’avvicinamento della Turchia al modello occidentale proseguì con il successore di Kemal, Ismet Inönü, nonostante le strettoie e gli ostacoli soprattutto economici sulla strada nel nuovo stato, e nonostante le ingerenze dell’Unione Sovietica, interessata a intervenire nella politica della Turchia fin dalla sua fondazione”.

Fu da questo momento, e fino all’ascesa di Erdogan nel 2003, che il paradosso originario del kemalismo ammise che la tenuta democratica del paese e la sua permanenza nel blocco occidentale si reggessero su una magistratura relativamente indipendente, un parlamento multipartitico ma ingessato e media sottoposti a censura, sotto il controllo dell’esercito in veste di garante ultimo delle istituzioni e della fedeltà atlantica. Per motivi e con sviluppi non troppo diversi da quelli dell’Italia, anch’essa Paese di confine fra i due blocchi, la Turchia conobbe per tutti gli anni Settanta una grave instabilità politica a causa della violenza terroristica di gruppi marxisti finanziati dall’URSS e combattuti dall’organizzazione armata ultranazionalista dei Lupi grigi. Il periodo fu aperto e chiuso da due interventi militari, il golpe solo minacciato del 1971 e quello in piena regola del 1980, che condusse a un triennio di giunta militare al potere. Come per l’operazione Gladio in Italia, l’opposizione politica attribuì l’insieme delle minacce dirette e indirette all’esercizio democratico al derin devlet, espressione equivalente ai nostri fantomatici “servizi deviati” e che nella sua traduzione inglese, deep state, è diventata un tormentone del trumpismo. 

Alle soglie dell’Europa

Confermando la natura paradossale del kemalismo, la giunta militare, mentre attuava una repressione vastissima e violenta dell’opposizione politica, aprì l’economia turca al capitalismo globale, promuovendo gli investimenti stranieri e lasciando fluttuare il tasso di scambio, ma rendendo anche obbligatoria l’educazione religiosa in tutte le scuole. Nel 1983, dopo un nuovo restyling costituzionale, la giunta permise nuovamente elezioni. Nel ventennio successivo, nuovi partiti tennero il potere in rapidissima successione, introducendo ulteriori elementi di liberismo economico e riconoscimenti più ampi del ruolo della religione nella vita pubblica. Il paese conobbe un boom demografico ed economico grazie alle migliori condizioni di vita e all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Nel 1987, il Partito della Madrepatria, oggi scomparso come gran parte di quelli dell’epoca, poté chiedere che la Turchia entrasse a pieno titolo nella CEE, il predecessore dell’Unione Europea, dando inizio al processo ancora formalmente in corso. La richiesta apparve come il compimento naturale di un processo di avvicinamento che aveva condotto la Turchia nel Consiglio d’Europa nel 1950 e poi nella CEE come membro associato, confermando a più riprese il suo ruolo di alleato militare strategico. Nel 1999, dopo alcune battute di arresto seguite da accelerazioni, la candidatura della Turchia fu riconosciuta ufficialmente dall’Unione Europea con l’assenso riluttante della Grecia, l’avversario di sempre, e nel 2005 iniziarono i negoziati per il suo ingresso. Quello che successe fra queste due date fu l’ascesa rapidissima al potere del sindaco di Istanbul Recep Erdoğan (si pronunzia “Èrdoan”), il più longevo autocrate al governo del paese, grazie anche a una serie di modifiche costituzionali che hanno alterato il sistema politico in senso populista indebolendo i due tradizionali contrappesi del potere del premier, la magistratura e l’esercito. 

All’epoca, la maggiore novità introdotta da Erdoğan sembrò essere l’ostentazione di una devozione religiosa che i suoi predecessori avevano evitato di mostrare e che fu la causa del suo arresto, nel 1997, per aver recitato in un raduno politico un poema in cui i simboli della religione musulmana erano invocati a difesa della nazione. In realtà, la religione stava riprendendo il suo posto nella scena pubblica da decenni, pur senza alterare il fondamento secolare dello stato, né poteva essere diversamente dato il suo peso nella vita dei turchi, quasi totalmente musulmani, in stragrande maggioranza sunniti e in gran parte, come lo stesso Erdoğan, aderenti a confraternite sufi.

La diffidenza verso il nuovo premier fu evidente fin dall’inizio del percorso che avrebbe dovuto condurre all’ingresso della Turchia in Europa, al completamento del percorso di attuazione di obblighi e obiettivi comunitari non negoziabili. Francia e Austria minacciarono di sottoporre a referendum il loro consenso, mentre la questione di Cipro si frappose al processo. Apro qui una breve parentesi: l’isola di Cipro, abitata in maggioranza da Greci ortodossi, era rimasta sotto il dominio britannico fino al 1960, quando divenne repubblica indipendente. Nel 1974, Cipro subì due colpi di stato consecutivi; il primo da parte della giunta militare – al potere in Grecia dal 1965 –, allo scopo di riunire l’isola alla Grecia, impresa il cui fallimento trascinò la caduta della “dittatura dei colonnelli”. Il secondo da parte della Turchia, all’epoca nel pieno della crisi politica descritta sopra, che riuscì a ritagliare nella parte settentrionale dell’isola un territorio abitato dalla minoranza turca e vi istituì una repubblica turca indipendente mai riconosciuta internazionalmente. Nel 2004, il referendum promosso dall’ONU sull’eventuale unificazione dei due stati respinse la proposta; nello stesso anno la Repubblica greca di Cipro fu ammessa nell’Unione europea ma senza la parte turca.

La questione di Cipro fu l’ostacolo più concreto alle ambizioni europee della Turchia ma più importante fu la sfiducia dell’Europa nelle credenziali democratiche del paese, ripagata da quella di Erdoğan e dei suoi ministri verso richieste percepite come pregiudizievoli e ingiuste. L’argomento dell’estraneità della tradizione culturale e religiosa turca all’identità europea, sebbene mai articolato chiaramente nelle posizioni ufficiali, precedette l’inizio dei negoziati, aleggiando sulla redazione di una bozza di costituzione –  a Roma, nel 2004 – che scatenò un dibattito acceso sulla identità europea: essa è la sintesi di tutte le identità che hanno abitato o anche solo avuto contatti con  il territorio europeo nella storia, e dunque contiene anche elementi della civiltà arabo-musulmana? Oppure esprime un’idea di civiltà occidentale fondata sulla tradizione culturale greco-romana e su quella religiosa giudeo-cristiana, che ha preso forma nel confronto, ossia nello scontro, con il mondo musulmano?

Divergenze parallele

Dal lato turco, la questione identitaria si era posta nello stesso tempo in modo speculare e la risposta era stata l’abbandono del modello sociopolitico occidentale inseguito nei primi ottant’anni dello stato (di Erdogan è l’immagine della democrazia come di un tram dal quale, una volta arrivati a destinazione, si scende) e il ritorno di ideologie imperiali che hanno spostato a est l’asse della politica turca. All’inizio del secondo decennio del secolo, mentre l’Europa attraversava le conseguenze della crisi economica del 2008, il processo d’integrazione si è fermato e la Turchia è scesa dal tram democratico. La trasformazione strategica del paese in un senso che è stato definito “neo-ottomanista” è stata accompagnata da un intenso programma di privatizzazioni e liberalizzazioni e dall’abbandono del capitalismo centralista delle fasi precedenti. Da questo è derivata una crescita economica vivacissima (4.8% di crescita del PIL annuo dal 2002 al 2010) e il rafforzamento della presenza commerciale e finanziaria turca nell’area di influenza mediorientale, insieme alla rapidissima integrazione del paese nel mercato globale.

Il ritorno della Turchia in Medioriente come potenza economica e militare (quello turco è ancora il secondo più grande esercito della Nato) è coinciso con la rottura del sistema geopolitico dell’area, relativamente stabile fino all’inizio del secolo. La catena degli eventi è nota: dall’invasione dell’Iraq (2003) alla guerra israelo-libanese e alla vittoria elettorale di Hamas (2006) alle cosiddette primavere arabe (2011), seguite dall’inizio della guerra civile siriana e, nel 2014, dall’affermazione dell’ISIS, per citare solo quelli che hanno riguardato la Turchia da vicino. Dentro il paese, il sentimento anti-governativo che aveva ispirato le primavere arabe – ma anche gli indignados in Spagna e Occupy Wall Street negli Usa – si espresse nel 2013 con l’occupazione simbolica di Gezi Park, un’area verde all’interno della centrale piazza Taksim minacciata da progetti di edilizia commerciale, e nelle proteste che si estesero per mesi a tutto il paese. Nonostante gli arresti numerosi e le vittime, è stato questo l’ultimo episodio di protesta nel quale il regime fu costretto a una misura di mediazione nei confronti della società civile – Gezi Park esiste tuttora, sebbene sia oggi strettamente sorvegliato. Nel luglio 2016, un colpo di stato tentato dall’esercito o, come è probabile, inscenato dallo stesso Erdoğan, fu seguito dall’eliminazione dei quadri militari ostili al regime e dalla persecuzione del movimento di Fethullah Gülen, forse l’interprete più complesso del paradosso turco. Allo stesso tempo ulema e imam sunnita, ideologo neo-ottomanista e sostenitore della necessità della democrazia, Gülen è stato il fondatore di una confraternita (i gülenisti) diventata una organizzazione multinazionale attiva in numerosi settori economici e ben integrata nel sistema capitalista mondiale. I suoi rapporti con Erdoğan, che aveva inizialmente appoggiato, precipitarono fra il 2013 e il 2016, quando l’organizzazione fu bandita con l’accusa di aver organizzato il colpo di stato e di aver infiltrato le istituzioni e soprattutto l’esercito. Un mese dopo, sull’onda della repressione, la Turchia invadeva la Siria settentrionale, entrando direttamente in uno dei conflitti più sanguinosi e intricati del secolo. L’anno successivo, un referendum costituzionale trasformava il paese in una repubblica presidenziale, riconoscendo vastissimi poteri al presidente in carica – sempre Erdoğan, giunto al suo terzo mandato consecutivo dopo la vittoria elettorale del 2023.

I turchi alle porte. È giusto farli entrare? -

Dopo il referendum, che ha aperto la crisi più grave nei rapporti con l’Unione, ogni nuova violazione delle regole democratiche ha confermato la sospensione del processo di adesione della Turchia, che peraltro non è più menzionata fra gli obiettivi del regime. In questi ultimi anni Erdoğan ha soprattutto cercato di trarre beneficio dalla crisi del sistema delle relazioni internazionali, che ha finora frustrato le sue ambizioni imperiali ma gli ha permesso di sfruttare al massimo la posizione strategica del paese, per esempio come filtro della crisi migratoria successiva alla guerra civile siriana. Rovesciando i termini del rapporto, Erdoğan ha dichiarato qualche mese fa, prima dell’arresto del sindaco Imamoğlu e della censura europea, che la Turchia è pronta a lanciare un’ancora di salvezza all’Europa in crisi, e ha rincarato  definendo la sicurezza europea “impensabile senza la Turchia”. Erdoğan si è detto pronto ad entrare qualora i criteri fossero dettati dall’interesse reciproco e non, sottinteso, da un’astratta deontologia politica.

Quest’ultima provocazione interpella direttamente la questione identitaria alla quale la bozza di costituzione europea, vanificata poi dalle crisi di crescita dell’Unione e dall’onda lunga del nazionalismo populista, non aveva dato una risposta definitiva. Allo stesso tempo, essa riconosce che, se l’Europa ha forse oggi bisogno della Turchia, la Turchia ha altrettanto interesse a stare in Europa e in questo senso si può forse interpretare la pacificazione fra stato turco e insorgenza curda, una delle condizioni per l’entrata nell’Unione, avvenuta significativamente negli stessi giorni in cui Erdoğan reprimeva le manifestazioni a favore di Imamoğlu. La storia lunga del rapporto fra Europa e Turchia non è dunque ancora finita e spetterà a noi europei stabilire quali saranno gli adattamenti inevitabili e quali i valori irrinunciabili per l’integrazione nell’Unione.

Bruna Soravia

Bruna Soravia è storica dell’Islam. Specialista di Islam medievale, si è interessata, in ambito contemporaneo, di storia dell’orientalismo europeo e del conflitto arabo-israeliano. Ha insegnato in Francia, negli Stati Uniti e presso l’Univesità Luiss  Guido Carli di Roma.

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