L'uomo che ha "inventato" il movimento LGBTQ+ italiano. Intervista ad Angelo Pezzana - Lucy
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Giada Arena

L’uomo che ha “inventato” il movimento LGBTQ+ italiano. Intervista ad Angelo Pezzana

Attivista, agitatore culturale, libraio, fondatore del Salone del Libro di Torino, primo deputato dichiaratamente gay in Italia: quella di Angelo Pezzana è stata una vita straordinaria, ce l'ha raccontata.

Non riesco a ricordare in quale contesto io abbia sentito per la prima volta il nome di Angelo Pezzana, so solo che da allora è successo molte altre volte. Forse ero in una delle fumosissime stanze della storica sede radicale di via di Torre Argentina, oppure impegnata in una delle mie peregrinazioni notturne su Wikipedia. Magari c’entra la letteratura e la mia passione per Allen Ginsberg, o il feticismo che ho per gli anni Settanta. Non lo so.

Ma so che Angelo Pezzana ha avuto un ruolo fondamentale nel far prosperare alcune delle cose che mi appassionano di più, perché questo signore elegante che viene ad accogliermi alla porta della Fondazione FUORI! di Torino è stato libraio, scrittore, “inventore” del movimento LGBTQ+ italiano, divulgatore della letteratura beat nel nostro paese, fondatore del Salone del Libro di Torino e primo deputato dichiaratamente gay della storia d’Italia.

La nostra conversazione avviene in una stanza in cui un soffitto affrescato protegge cimeli di ogni tipo, da manifesti storici a spillette ironiche, da vecchie riviste in inglese a dipinti omoerotici – una capsula del tempo che restituisce un’idea precisa di ciò che è stata la lotta per la libertà sessuale in un’epoca in cui un outing poteva rovinare una vita.

La tua è stata una vita straordinaria, piena di cose, di incontri, di persone. Un bilancio?

Direi che, innanzitutto, sono stato un uomo fortunato: ho fatto un mestiere che mi ha permesso di vivere tra i libri. Ho letto tanto fin da piccolo, anzi, ti racconto una cosa che forse non ho mai detto a nessuno.

Quando facevo la seconda media, appena uscivo da scuola passavo in edicola e compravo «La Stampa», la «Gazzetta del Popolo» e, se erano già state distribuite, anche «Stampa Sera» e «Gazzetta Sera» — erano le edizioni pomeridiane di due quotidiani di Torino.

I miei genitori erano sorpresi, perché non seguivano le notizie con l’assiduità con cui lo facevo io: mi piaceva informarmi, confrontare i punti di vista. Credo che questo fosse un primo segnale della direzione che avrei dato alla mia vita.

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E poi? Ci sono stati altri segnali?

Mio padre era nato in una famiglia molto povera, ma aveva una mentalità adatta al commercio e con la sua azienda, con cui commerciava cereali, è arrivato a esportare all’estero.

Lui, però, non conosceva le lingue, così mi ha mandato in un collegio svizzero per studiarle e poter avere tutti quei rapporti a cui lui aveva dovuto rinunciare. Lì, leggendo un libro in inglese, ho scoperto che cosa ha fatto la Chiesa cattolica agli ebrei nel corso della sua storia.

Mi ha colpito così tanto che appena tornato in Italia ho scritto all’Arcivescovo di Vercelli: “Egregio, ho letto la storia della Chiesa cattolica e sono rimasto sconvolto da tutte le cose mostruose che avete commesso. Io sono stato battezzato, ma la prego di cancellarmi da tutti i documenti ufficiali, perché non voglio più avere nulla a che fare con una religione che è rimasta per duemila anni su posizioni terribili.”

Un altro momento importante è stato verso i quattordici, quindici anni. I miei compagni di scuola parlavano sempre di ragazze e io non ne avevo assolutamente voglia, anzi, preferivo stare con i maschi. Così ho cominciato a capire, e questo ha fatto sì che ripensassi spesso al mio passato.

Mi sono ricordato di quando la mia famiglia si è trasferita a Torino e ho frequentato la prima elementare in una scuola cattolica, con un insegnante che si chiamava Fratel Casimiro: sono finito al primo banco per caso e, guardandolo, mi sono innamorato. Me ne sono reso conto solo anni dopo, ma ancora oggi mi ricordo la sua faccia.

“Direi che, innanzitutto, sono stato un uomo fortunato: ho fatto un mestiere che mi ha permesso di vivere tra i libri”.


Non posso non chiederti di parlarmi della libreria Hellas, che aprì a Torino nel 1963 e che fu importantissima per la diffusione della cultura beat in Italia. Complice la tua amicizia con Fernanda Pivano, nel corso della sua esistenza la Hellas ha ospitato presentazioni e reading di giganti come Allen Ginsberg, James Baldwin o Susan Sontag. Com’è stato vivere in prima persona il fermento di quella fase?

Era una libreria piccola, ma ho subito iniziato a fare una cosa che all’epoca non faceva quasi nessuno, ossia far presentare direttamente dagli autori i libri internazionali appena usciti.

La libreria era frequentata anche da molti giornalisti perché c’erano libri e riviste che non avrebbero mai trovato altrove, avevo una clientela dalla grande curiosità intellettuale.

Per esempio c’era Primo Levi, siamo stati amici fino alla fine, veniva sempre sia alla Hellas che alla Luxemburg, che ho gestito dal 1974.

E poi Alberto Arbasino, quando ha pubblicato Fratelli d’Italia. Non era un “romanzo omosessuale”, ma sentivi l’omosessualità in tutte le cose che faceva: nei libri di Arbasino l’omosessualità era come un vento che faceva girare le pagine.

È possibile individuare il momento preciso in cui iniziano le tue battaglie: mi riferisco all’uscita dell’articolo L’infelice che ama la propria immagine. Un problema di scottante attualità, pubblicato su «La Stampa» nell’aprile 1971. Firmato da un medico, patologizzava l’omosessualità e dava attendibilità scientifica a quelle che oggi definiamo “terapie riparative” o “di conversione”, che negli anni sono state vietate in molti paesi—eccetto il nostro, dove purtroppo sono ancora molto diffuse. Perché proprio quell’articolo ha rappresentato la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso?

Tutto è iniziato quando «La Stampa» ha recensito Diario di un omosessuale, un libro scritto dallo psicoterapeuta Giacomo Dacquino che riportava le sue conversazioni con un paziente, portato lì dai genitori con l’obiettivo di “farlo tornare sano”, cioè eterosessuale.

Per combinazione, io conoscevo questo ragazzo: cliente della libreria, mi rivela che il protagonista del libro è lui e che il testo contiene moltissime balle. Comunque la recensione era piuttosto banale, ma il titolo davvero terribile.

Così io e alcuni amici di Torino ci siamo detti: “Basta, non si può andare avanti così.” Abbiamo preparato una lettera per il direttore del quotidiano, chiedendo di aprire un dibattito sul tema; dopo qualche giorno, il segretario di direzione ci risponde dicendo: “Di questo argomento si parla fin troppo. Cordiali saluti”. Questa lettera di risposta è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ci siamo ritrovati in quindici, venti nella mansarda in cui vivevo: “E adesso cosa facciamo? Non possiamo accettare una cosa del genere.”

Io ricevevo le riviste americane e francesi e sapevo che lì avevano appena fondato il movimento di liberazione omosessuale, così propongo di fare lo stesso. Nel corso della prima riunione decidiamo di darci un nome, così mi viene in mente il termine coming out, che significa ‘uscire fuori’, ‘uscire allo scoperto’.

Ci piaceva il nome F.U.O.R.I., ma dovevamo trovargli un significato. F è Fronte, U è Unitario (anche perché c’eravamo solo noi), O è Omosessuale, I è Italiano, ma non sapevamo quale parola potesse andar bene con la R—finché un nostro amico che veniva da Milano disse: “Rivoluzionario. In fondo facciamo una rivoluzione: non un colpo di stato con mitra e pistole, ma un cambiamento nella società su una questione che dobbiamo diffondere dappertutto.” E così è nato il F.U.O.R.I..

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Il mito fondativo del F.U.O.R.I. è costituito da un altro momento leggendario: si tratta della prima manifestazione LGBTQ+ italiana, ossia la vostra protesta al congresso sulle “devianze sessuali” del Centro Italiano di Sessuologia, il 5 aprile 1972 al casinò di Sanremo. Ti confesso di averla definita in più occasioni la “Stonewall italiana”, prima di imbattermi in una tua intervista in cui affermavi esattamente il contrario: dicevi che Stonewall è stato una rivolta, il F.U.O.R.I. un vero e proprio movimento, con un altro approccio di militanza.

Sì. Nel 1969 a Stonewall c’è stata la rivolta dei frequentatori di un bar gay di New York: erano ambienti molto difficili, perché i clienti venivano sia sfruttati dai malavitosi proprietari dei bar che maltrattati dalla polizia, che spesso faceva dei raid molto violenti.

La rivolta di Stonewall è stato un atto di ribellione contro queste persecuzioni, hanno lottato per tre notti e tre giorni. Noi a Sanremo abbiamo fatto il primo grande coming out in Italia perché volevamo avviare un dialogo con gli psichiatri, che con quel congresso avevano l’obiettivo di influenzare i legislatori affinché l’omosessualità venisse riconosciuta come una malattia.

La nostra leader, la poetessa francese François D’Eaubonne, è salita sul palco all’inizio del congresso per prendere il microfono e dire: “Voi siete qui per discutere di omosessualità, ma non avete capito che siamo noi omosessuali e lesbiche a voler parlare delle nostre cose. Siete voi a dover ascoltare noi.”

C’era anche l’autore del libro di cui parlavamo prima. Mi sono avvicinato per dirgli che conoscevo il suo paziente e sapevo non solo che aveva mentito, ma anche che aveva registrato senza il suo consenso due anni di sedute — un fatto gravissimo per uno psichiatra. Lui, forse spaventato dalla possibilità che potessi raccontare a tutti la verità lì, al congresso, è salito sulla sua Alfa Romeo Giulietta ed è tornato di corsa a Torino. E poi avevamo comprato delle fiale puzzolenti – hai presente quelle per fare gli scherzi di carnevale? – per metterle in tutta la sala senza farci notare: dopo l’intervento di François D’Eaubonne le abbiamo pestate, c’era un odore terribile, sono scappati tutti e il congresso è finito lì.

Comunque eravamo non più di una decina: noi piemontesi, tra cui il mio compagno dell’epoca, Alfredo Cohen, che faceva l’insegnante e cercava di non farsi vedere perché rischiava di perdere il posto, due dalla Francia, credo uno dal Belgio e uno dall’Inghilterra – che era Mario Mieli, venuto in rappresentanza del Gay Liberation Front.

Diventammo molto amici, lui era milanese ma aveva lasciato la famiglia e viveva da due anni a Londra. Lo definivano un travestito, ma non era un travestito: lui lottava contro i ruoli di genere e ha impostato tutta la sua esistenza politica intorno a questo.

L’uomo che ha “inventato” il movimento LGBTQ+ italiano. Intervista ad Angelo Pezzana -

Alcuni dei presenti a Sanremo apparivano di frequente tra gli autori dell’omonima rivista FUORI!, pubblicata tra il dicembre 1971 e l’aprile 1982, di cui sei stato coordinatore. I primi tredici numeri hanno recentemente rivisto la luce in un’ottima raccolta curata da Carlo Antonelli e Francesco Urbano Ragazzi per Nero Edizioni: sfogliandola, non solo si resta stupefatti davanti all’attualità di toni e temi, ma anche per l’altissimo livello dei contenuti. Era più di una fanzine, più di una rivista: nella raccolta viene definita “un’opera d’arte collettiva”.

È il risultato del mio amore per i giornali. Sai come abbiamo fatto a farci conoscere in tutta Italia? Abbiamo distribuito il primo numero nei parchi, nelle strade buie, nei gabinetti pubblici. Erano quelli i nostri luoghi di ritrovo, all’epoca non c’erano neanche i bar.

Allora abbiamo stampato mille copie e le abbiamo spedite ai nostri amici in tutto il paese, dal nord al sud, chiedendogli di distribuirle la sera nei posti in cui andavano a cercare qualcuno con cui scopare.

“Nei libri di Arbasino l’omosessualità era come un vento che faceva girare le pagine”.

Quali sono state le reazioni? Perché credo sia una strategia di distribuzione geniale, ma magari non tutti ai tempi apprezzarono l’effetto sorpresa.

La maggior parte delle persone diceva: “Ma non vedi che sto cercando di combinare qualcosa con questo qui che mi piace? Non rompermi le scatole”. Ma in mezzo a queste frasi, quasi sempre le stesse, c’era anche chi diceva: “Ah, interessante, puoi darmene una copia?”.

Così si sono formati quaranta gruppi F.U.O.R.I. nel giro di un anno.

In effetti, sfogliando la raccolta di Nero, un’altra cosa che colpisce è l’ultima pagina dei numeri della rivista, in cui venivano segnalati i contatti dei vari gruppi di attivisti a cui ci si poteva unire: ogni mese li vediamo moltiplicarsi, e segnalare nomi, cognomi e indirizzi di persone queer nell’Italia dell’epoca è un gesto di grande coraggio. C’è addirittura l’indirizzo newyorkese di Marsha P. Johnson [leggendaria drag queen presente alla rivolta di Stonewall, ndr] come referente dello STAR – Street Transvestite Action Revolutionaries. Il vostro approccio era esplicitamente transnazionale e questo è evidente anche nella scelta degli autori coinvolti: per esempio, nel primo numero troviamo contributi di Fernanda Pivano, Allen Ginsberg e Wolinski, leggendario illustratore ucciso nell’attentato a Charlie Hebdo. Tra tutte queste collaborazioni, ce n’è una in particolare che vorresti ricordare?

Due artisti che ci hanno dato un grande aiuto sono Ugo Nespolo ed Enrico Colombotto Rosso, venuto a mancare alcuni anni fa: per finanziarci facevamo delle aste, mettendo in vendita le opere dei nostri amici che facevano gli artisti ed erano particolarmente sensibili all’argomento.

Per noi non era semplice trovare finanziamenti, ma con le aste abbiamo raccolto donazioni notevoli. Una volta è venuto anche Mario Mieli a fare il banditore.

E poi la persona più importante per noi è stata Fernanda Pivano. Quando mi chiedono chi è che ha guidato la mia vita, io rispondo che sono state due persone. La prima è Fernanda, perché mi ha aperto gli orizzonti con l’edizione da lei curata di Jukebox all’idrogeno, una raccolta di poesie di Allen Ginsberg: erano gli anni Sessanta e con la sua prefazione mi ha fatto capire cosa significasse vivere in una cultura completamente diversa da quella che c’era prima.

L’altra persona è Marco Pannella, che mi ha insegnato che cos’è la politica. Quando sono stato candidato con il Partito Radicale la prima volta che si è presentato alle elezioni, nel 1976, Pannella aveva messo donne e omosessuali in cima alle liste. Ho avuto un bellissimo rapporto con lui, era una persona molto sincera. Mi ha fatto capire che le cose si potevano cambiare politicamente—anche se i partiti erano quelli che sono adesso.

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Alla fine del 1974, la tua strada si separa da quella di Mario Mieli perché lui non condivide la scelta di federare il F.U.O.R.I. al Partito Radicale. A quasi cinquant’anni da questa scissione, come la ricordi? Se potessi tornare indietro, prenderesti delle decisioni diverse?

Grazie a questa decisione ci sono state messe a disposizione tutte le sedi radicali sul territorio italiano per incontrarci – e per noi non era scontato avere un posto dove farlo, non potevamo mica incontrarci in famiglia.

Le lotte per il divorzio e l’aborto, poi, le hanno fatte i radicali, gli altri partiti erano contrari. All’epoca “riformista” era quasi un insulto.

Mario Mieli era un rivoluzionario, aveva le sue teorie: voleva una rivoluzione dei modi di vivere e credeva nello spettacolo come strumento di lotta. Per dire, andava davanti alle fabbriche con abiti femminili cercando di convincere gli operai a non entrare. Non voleva far parte di un partito.

In un’intervista hai raccontato: “Per la destra noi eravamo degli sporcaccioni, per il centro clericale eravamo dei peccatori, a sinistra ci dicevano che la dittatura proletaria avrebbe risolto ogni problema”. Nell’osservare la tua lotta nel corso degli anni, mi affascina il tuo sfuggire, spesso con gioia, dal dogmatismo politico dell’epoca – e la scelta di federarti a un partito libertario come quello radicale mi sembra coerente con questo approccio. Per esempio, in un articolo ho citato l’assurdo scontro che avete avuto con Lotta Continua nel 1978, dopo aver preso in gestione una discoteca a Torino, il Disco Dance: ritenevano che la musica disco fosse un aberrante prodotto del sistema capitalistico e che quindi il vostro non fosse un atto politicamente rilevante.

Sì, è vero: noi eravamo o ignorati, mal visti. Ma a Torino c’era anche un leader di Lotta Continua di cui ero molto amico, che un giorno invito a partecipare a una nostra tavola rotonda sul movimento omosessuale.

Quando pubblichiamo il testo della discussione su FUORI!, i suoi compagni iniziano a prenderlo in giro: “Potevi dirlo che eri cupio!” Significa frocio in piemontese, e quando passava facevano il gesto dell’orecchio. Lo hanno preso in giro per parecchio tempo, solo perché aveva detto che, se uno voleva cambiare davvero le cose, la liberazione sessuale non poteva mancare.

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Credo che un ulteriore elemento distintivo del F.U.O.R.I. rispetto agli altri movimenti politici dell’epoca fossero i toni, molto più ironici e giocosi. L’aneddoto delle fialette puzzolenti a Sanremo ne è un esempio, ma non solo: ho trovato divertentissimi anche molti articoli della rivista, manifesti e slogan (credo che il mio preferito sia “W IL CULO RIVOLUZIONARIO IN CINERAMA”). Di recente, poi, ho letto Where do you draw the line between art and politics?, un’interessante raccolta che indaga il rapporto tra arte e politica, e sono stata altrettanto divertita dai pupazzi da manifestazione realizzati negli anni ’70 da Pietro Perotti, operaio FIAT autoproclamatosi responsabile della comunicazione operaia, che ritraevano i potenti con fattezze carnevalesche.In alcune forme di attivismo contemporaneo, soprattutto quelle digitali, i toni tendono a essere più vittimistici e spesso sento mancare la vitalità, la dissacrazione che invece trovo in queste testimonianze di cinquant’anni fa. Cosa ne pensi? Dovremmo ritrovare l’irriverenza, l’ironia e, soprattutto, l’autoironia?

Credo che fossero altri tempi. Io avevo un rapporto molto stretto con le femministe, da cui avevo imparato l’autocoscienza, la pratica di raccontarsi in gruppo.

Noi del F.U.O.R.I. facevamo riunioni di trenta, quaranta persone per condividere il nostro vissuto, era catartico. A volte ci prendevamo molto sul serio, qualcuno citava i filosofi francesi, finché un giorno non sono arrivati due operai che ci hanno raccontato una bella storia. Stavano insieme da anni, ma uno di loro temeva il coming out: non abbracciava il compagno in pubblico, non gli teneva la mano, aveva paura.

Mentre passeggiavano sotto agli affollatissimi portici davanti alla stazione di Porta Nuova (affollatissimi anche perché lì si andava a battere, dato che c’erano dei gabinetti aperti), l’altro—più orgoglioso, perché di orgoglio si tratta, Pride—lo lascia andare avanti di qualche metro per poi chiamarlo urlando: “Luigi! Cupio!” Dopo un attimo di imbarazzo, Luigi gli si avvicina e lo abbraccia dicendogli: “Lo sai cosa hai fatto? Adesso non ho più paura di niente”. Per noi è stato illuminante, più dei filosofi che citavamo.

L’uomo che ha “inventato” il movimento LGBTQ+ italiano. Intervista ad Angelo Pezzana -

A proposito di, ehm, definizioni, è grazie a te che è stato scritto per la prima volta il termine “omosessuale” su un quotidiano italiano.

Sì, è successo a Sanremo. Un inviato de «La Stampa», Luciano Curino, vedendomi nell’aula del congresso con l’abito blu e la cravatta, mi ha chiesto: “Dottor Pezzana, lei è uno psichiatra?” E io gli ho risposto: “No, sono un omosessuale”.

Prima di lui, nessun giornalista aveva mai pubblicato questa parola, usavano “pederasta” e altri termini orribili. Il giorno dopo trovo mia madre con il giornale, che legge l’articolo con la mia foto: scopre tutto su Sanremo, piange e non la smette più.

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Lei non sapeva nulla?

No, no! L’unico ad aver capito era stato mio padre, lei mai. Inizia a chiedermi: “Cosa ho sbagliato? Potrai mai perdonarmi?” E io le dico: “Mamma, forse dovresti aggiornarti. Conosci già il mio compagno, stiamo insieme da anni, è quel ragazzo che a volte viene qui da me”.

Lui era Alfredo Cohen e da allora sono diventati amicissimi, scriveva poesie e ne ha dedicate di bellissime a mia madre.

Un altro momento importante della tua incredibile biografia è datato 1977, quando finisci in Russia per una manifestazione individuale in supporto del regista Sergej Paradžanov, imprigionato perché omosessuale. Se ne parlerà molto e, al tuo ritorno in Italia, Ugo Tognazzi ti coinvolgerà come consulente per il film “Il vizietto”. Cosa pensi della rappresentazione della comunità LGBTQ+ in film e serie contemporanei? Ci sono opere che consideri particolarmente virtuose?

Noi dobbiamo ringraziare il cinema. Ci sono stati film che hanno educato il pubblico – perché i libri sono importanti, ma il cinema può arrivare davvero a tutti: è stato grazie al lavoro di alcuni registi e attori se molti di noi hanno iniziato a essere percepiti come persone.

Un esempio abbastanza recente è “Come non detto” di Ivan Silvestrini, perché è un film semplice, immediato, ma portatore di un messaggio importante.

“Dottor Pezzana, lei è uno psichiatra?” E io gli ho risposto: “No, sono un omosessuale”.

Qualche settimana fa, il Parlamento europeo ha condannato il governo italiano (insieme a quello polacco e ungherese) per la diffusione di una retorica omofoba secondo cui – cito – “le persone LGBTQ+ sono un’ideologia anziché esseri umani”. Allo stesso tempo, è innegabile che siano stati fatti progressi sul tema dei diritti delle persone queer. La società in cui viviamo quanto assomiglia a quella che avevi sognato nel 1971?

Credo di essere, come dicevo all’inizio della nostra conversazione, un uomo fortunato, perché ho potuto assistere alla realizzazione di moltissime cose per le quali ho lottato. Ci sono stati dei cambiamenti importanti, altri invece sono ancora in corso; sicuramente vengono rallentati dall’influenza del Vaticano e dalla mentalità ancora ristretta dei grandi partiti. Penso che, in questo momento, la società sia molto più avanzata dei suoi rappresentanti.

Ma bisogna anche essere realisti su ciò che si può ottenere, cercare di andare per tappe e non chiedere troppo. Per esempio, sento sempre più spesso parlare di transizione di genere nei bambini: lo trovo mostruoso, perché anche l’identità di genere ha bisogno di svilupparsi.

Credo che i tempi siano maturi per il riconoscimento delle famiglie arcobaleno, che esistono e conducono delle vite normalissime; in una società in cui i mariti ammazzano le mogli, non può esserci tutta questa preoccupazione nei confronti di una coppia omogenitoriale che vuole solo dei bambini da amare.

Vorrei chiudere ricordando Maria Silvia Spolato, la prima donna a fare un coming out pubblico in Italia, autrice sia di articoli su FUORI! che di “I movimenti omosessuali di liberazione” del 1972, pionieristica raccolta di testi di attivisti LGBTQ+ provenienti da ogni angolo del mondo. Tra questi, mi ha colpito uno scritto di Martha Shelley del Gay Liberation Front: “Il lato peggiore dell’essere omosessuali sta nel doverlo tenere segreto. Non i delitti occasionali da parte della polizia o i pestaggi dei queer da parte dei teenager, né la perdita degli impieghi o l’espulsione dalle scuole, o i congedi disonorevoli, bensì il rendersi conto quotidianamente che quello che si è è così brutto da non potersi esprimere”.

Qual è stato per te il lato peggiore dell’essere omosessuale e, soprattutto, il migliore?

Mi sono ritrovato all’interno di una struttura sociale che non mi andava bene, ma che, allo stesso tempo, mi ha dato la forza, la possibilità e gli strumenti per poterla cambiare.

Rifaresti tutto?

Tutto.

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Si ringrazia la Fondazione FUORI! di Torino per le immagini estratte dal loro archivio e Maurizio Gelatti per la preziosa collaborazione.

Giada Arena

Giada Arena è creative strategist e autrice di Lucy. Il suo podcast si chiama nuda e cruda.

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