"M." di Wright dimostra che non sappiamo più rappresentare il potere - Lucy
articolo

Giuseppe Sansonna

“M.” di Wright dimostra che non sappiamo più rappresentare il potere

16 Gennaio 2025

La serie, in onda su Sky, mescola elementi pop e trovate cinematografiche abusate per raccontare Mussolini senza mai davvero liberarsi della retorica che lo ammanta, a differenza di altre opere che l'hanno preceduta.

In una società dello spettacolo globale, in cui il potere fa impallidire i più foschi presagi di Debord, resuscitare Mussolini in forma filmica innesca cortocircuiti interessanti. 

Il dittatore che vedeva nel cinema l’arma più forte è riapparso di recente sul piccolo schermo. M. Il figlio del secolo è la storia a puntate della sua ascesa al potere, per la regia da Joe Wright, tratta dal romanzo di Antonio Scurati. Forse, persino più indicative della serie, sono le dichiarazioni di poetica degli autori, gli strali dei detrattori, il visibilio degli entusiasti.

“Per fare questo lavoro onestamente ho dovuto sospendere il giudizio su Mussolini, per tutti i sette mesi delle riprese. Da antifascista convinto quale sono, è stato terrificante, una delle cose più dolorose della mia vita. Ogni sera, tornare a casa e ritrovarmi finalmente, per qualche ora, con le mie idee, era un sollievo”.

Parola di Luca Marinelli, forse l’attore italiano più brillante e poliedrico della sua generazione. Ha quarant’anni, ma quando parla, fuori dai set, ha la dolcezza smarrita di un liceale timido. Sembra in totale, sorprendente buona fede, nel dichiararsi candidamente condizionato da questa estremizzazione grottesca del wokismo: ogni volta che si infilava l’orbace, gli si sporcava un po’ l’anima. “Allora devolvi il compenso all’Anpi!” gli ha inveito contro un monumentale giornalista con pretese da storico, verosimilmente compiaciuto di tanta sagacia. 

In realtà, è un contenzioso privo di senso. Molto più banalmente, il problema dovrebbe forse essere il modo con cui ci si rapporta drammaturgicamente a un dittatore, e non l’opportunità di vestirne i panni.

Il Mussolini di Wright e Marinelli, di primo acchito, rievoca l’indimenticato Catenacci di Bracardi, diretto da un emulo minore del Quentin Tarantino di Inglourious Basterds.

Come tutto il cast, il protagonista piega tecnica e talento al macchiettismo.  Ossessivo nell’abusata tecnica di sfondamento della quarta parete, appare trafelato come un teleimbonitore, deciso a venderti il fascismo a dispense, allegando in omaggio la sua storia personale. Tutto è adrenalinizzato da manganellate, schizzi di sangue e bombe a mano, su colonna sonora techno di Tom Rowlands, dei Chemical Brothers. Quando poi appare angosciato, questo duce, è anche peggio, perché si rimane sempre in una superficie stucchevole, e la farsa non ha mai il tempo di diventare davvero tragica.

“In una società dello spettacolo globale, in cui il potere fa impallidire i più foschi presagi di Debord, resuscitare Mussolini in forma filmica innesca cortocircuiti interessanti”.

“Pop e futurista! Potente!” hanno esclamato gli entusiasti, in pavloviano brodo di giuggiole.  “E poi informa le generazioni che non leggono su cosa è stato il fascismo” hanno rincarato i fan più pensosi e responsabili. Vincono in idiozia i nostalgici, offesi dal vilipendio alla figura del caro estinto.

Ed ecco affiorare un altro equivoco contemporaneo: portare sullo schermo un dittatore dovrebbe coincidere col divulgarne la vicenda.

Ma l’arte, anche se forse il termine suona sempre un po’ eccessivo, non c’entra molto con la pedagogia, e neppure con le esattezze storiche. Per quello ci dovrebbe essere la scuola, o le compensazioni da autodidatta, per studiare voci autorevoli e contrastanti, e maturare una personale coscienza critica.

E magari riuscire a sedersi davanti ad un film senza aspettarsi istruzioni sulla vita, o riassunti ben ricostruiti, su ciò che siamo stati, con postille su cosa diventeremo.

Il cinema, nella sua piena espressione, non è comunicazione diretta ma proiezione di sintomi ambigui, da mettere a fuoco in un gioco interiore, spesso paradossale e destabilizzante. Nasce come un dispositivo industriale, ontologicamente condizionato dal mercato e dal potere politico, eppure è sempre stato il cavallo di Troia degli autori più sottili, strumento imperfetto e vitale, per illuminare nevrosi intime, riflessi di paure e desideri di massa. 

“Ma l’arte, anche se forse il termine suona sempre un po’ eccessivo, non c’entra molto con la pedagogia, e neppure con le esattezze storiche. Per quello ci dovrebbe essere la scuola”.

In questo senso, il panorama attuale del cinema italiano, è da tempo desolante. Fatte salve le eccezioni, implacabili conferme della regola, si galleggia in uno stagno di piccole commedie e drammi pensosi, ma in fondo poco intelligenti. Plot scopiazzati male dal cinema francese, adattati al solito gregge dominante di attori mediocri, alle loro macchiette usurate, alle stantie trovate di sceneggiatura. Enfatizzati messaggini edificanti, spediti su scorciatoie retoriche, e qualche onirismo folklorico per raccontarci ancora un paese di visionari, chiudono il quadro di un cinema italiano tanto pubblicamente finanziato, quanto fondamentalmente innocuo. Quello che la rappresentazione non dovrebbe mai essere, soprattutto in un contesto in cui la realtà non smette di incanaglirsi, offrendo numerosi spunti, troppo spesso non raccolti.

Il potere, ad esempio, si conferma un tema inesauribile da raccontare.

Oggi è così compulsivo, spudorato nel mostrare il suo lato istrionico, tra le motoseghe argentine, i balletti americani, e i sobillati assalti a Capitol Hill. Posto che l’attentato a Trump fosse vero, l’aspetto più inquietante è la sua reattività scenica, da mattatore di razza: anche M lo chiama in causa, quell’incubo ricorrente del presidente americano. Però, mettere in scena un Duce che mostra il dito medio agli spettatori e dice «Make Italy great again!» è un rigurgito d’ovvietà. Rivendicato dagli sceneggiatori Bises e Serino: “Sì, è una nostra intuizione. Abbiamo discusso molto se fosse il caso. È una strizzata d’occhio fuori luogo, un ammiccamento troppo forte, o una figata post moderna? Abbiamo scelto quest’ultima strada”. Figata post moderna è una definizione illuminante. Rifuggendo le complessità poco smerciabili, non si vuole più incidere su nulla, ferire nessuno con il linguaggio: conta solo il ritmo, la seduzione formale di un’estetica chiassosa, buona per intrattenere, dinamizzando contenuti storici miratamente divisivi. Utili a cavalcare l’hype di un paese che non ha ancora rimeditato a fondo l’essenza sociale e antropologica del fascismo, ma è sempre pronto a polarizzarsi in tifoserie opposte, a cavillare sulle intersezioni, sulle minuzie, per illudersi di avere un’identità. Per raccontarsi di avere delle idee.

Se il fascismo, nel suo strato più visibile, è stato un apparato roboante, una messinscena tetra e accecante, sbirciare nei margini esistenziali del suo fondatore, è una feconda chiave narrativa. Quella che adottò Marco Bellocchio in Vincere, qualche tempo fa, riesumando la storia di Ida Dalser. Negli anni dieci era una donna colta e indipendente, finanziatrice innamorata del giovane Mussolini, ancora socialista anticlericale e antimonarchico.

Poi venne reclusa in manicomio e separata da suo figlio, ad opera di un Benito ormai troppo cambiato, spietato nel cancellare ogni traccia di un passato imbarazzante. 

Quando fa l’amore con Ida, all’inizio del film, il duce in pectore sembra che stia penetrando voluttuosamente sé stesso, e un paese intero. Guarda dritto, verso un oltre tutto suo, prefigurando l’orizzonte sconfinato del suo futuro da dittatore. A reggere magnificamente il peso allegorico della sequenza, gelando il sangue senza mai essere ridicolo, c’è un grandioso Filippo Timi.

Invasato, patetico e trasformista, vischiosamente seduttivo e brutale, l’attore umbro riesce a far coesistere diverse sfumature in un ritratto estremo, sopra le righe ma non grossolano. Catturando, con la sua espressività affilata, lo spazio invisibile tra la mimesi di una figura storica, e la sua ombra metafisica. Ciò che rende eterna un’interpretazione, e non datato un film: un procedimento quasi alchemico, incarnato più volte da Gian Maria Volontè. 

Anche lui interpretò un signor M preso dalla realtà. In un 1976 in cui Aldo Moro è solo, per la quinta volta, il capo di un governo DC, e non ancora il Banquo eterno della storia italiana, Elio Petri porta sul grande schermo Todo modo.

Il plot rivisita l’omonimo romanzo di Sciascia: mentre nel paese esplode una pandemia, il Presidente M convoca gli esponenti del suo partito di governo in un albergo claustrofobico. Gli esercizi spirituali a cui si dedicano sono un pretesto per losche trattative, spartizioni di potere e mortali rese dei conti. Petri, senza dichiararlo esplicitamente, affida a Volontè la parte di Aldo Moro. Nella farsa nerissima che ne viene fuori il ritratto del politico democristiano è così esatto da essere disturbante, nella sua contrizione melliflua e quaresimale. Eppure non c’è puzza di Bagaglino a venire, né di virtuosismo fine a se stesso: sullo schermo appare l’ombra tetra, immaginaria ma verosimile, espressionista e non caricaturale, di un politico di cui allora si conosceva solo l’immagine pubblica. Esangue, sorriso amaro e sguardo malato, il signor M è lacerato schizofrenicamente tra la vocazione spirituale e il cinismo ingordo del suo partito. Paralizzato dall’immobilismo, ha un’aria da vittima sacrificale, destinata ad essere uccisa dal suo stesso mondo.

“Il cinema potrebbe, e forse dovrebbe, rinunciare all’automatismo facile della riproduzione satirica di figure già molto ridicole, e prenderle in controtempo, insinuarsi nei loro pochi spazi di vita non messi in scena”.

La distribuzione del film viene boicottata: con le elezioni in ballo, il film disturba davvero il potere, in un’Italia in cui democristiani e comunisti stanno flirtando, all’insegna del compromesso storico.

Quando un paio d’anni dopo il vero Moro viene ucciso, Todo modo assume definitivamente il suo status di film profetico, e maledetto, conquistando una lunga rimozione.

Rivisto oggi, il film di un grande regista, che non temeva la sgradevolezza e coltivava l’utopia di un attivo ruolo sociale del cinema, mostra dinamiche di potere ancora attuali. Reperti storici molto vivi, che illuminano il presente.

Una trentina d’anni dopo Todo modo,  Sorrentino accende i riflettori su un personaggio laterale ma già inquietante del film di Petri: Giulio Andreotti.

Servillo si destreggia bene, sotto un trucco pesantissimo, fornendo al suo Divo iperbolico una voce che suona più congrua di quella reale. Se il vero Giulio sembrava disdire il suo aspetto da Nosferatu, con un timbro rassicurante, da nonnetto bonario, qui acquisisce una nasalità proterva, da Riccardo Terzo. Da mostro seduttivo. “Una mascalzonata!” sarà la confortante recensione andreottiana, di un film in cui la dose di pop ha ancora un senso efficacemente paradossale, nel restituire la quotidianità statica di un uomo ubiquo, rintracciato in quasi tutte le penombre dell’autobiografia di una nazione. Quando però il duo Sorrentino Servillo si cimenta con Berlusconi e il suo universo, perde in incisività, costretto a una lotta impari con il regista e mattatore di un’ipertrofica autorappresentazione. Anche questa, come il fascismo, non ancora metabolizzata, nel suo essere sintomo e causa di una lunghissima stagione italiana.

Oggi i figli, figliastri e avversari politici di Silvio appaiono spesso impegnati in un selfie permanente, ispirato al brutto cabaret, mirato a distrarre l’uditorio dalla realtà. Il cinema potrebbe, e forse dovrebbe, rinunciare all’automatismo facile della riproduzione satirica di figure già molto ridicole, e prenderle in controtempo, insinuarsi nei loro pochi spazi di vita non messi in scena. Lavorare d’inventiva e sottrazione, per scovare residui autentici, con la disperata vitalità di chi non ha più nulla da perdere.

Giuseppe Sansonna

Giuseppe Sansonna è autore e regista di Rai Cultura e ha firmato diversi libri e documentari. Dal 2019 scrive recensioni cinematografiche e saggi per la rivista «Linus». Il suo ultimo libro è Hollywood sul Tevere. Storie scellerate (Minimum Fax, 2016).

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