Lorenzo Gramatica
È morto ieri, a 67 anni, Michael Madsen, attore feticcio di Tarantino e uno degli ultimi eredi di una grande tradizione americana di caratteristi. Alcune sue interpretazioni sono destinate a essere ricordate.
Michael Madsen voleva essere un buono. Anche negli ultimi anni della sua lunga e prolifica carriera di attore si crucciava molto di aver avuto poche possibilità di interpretare ruoli da eroe. “Vogliono tutti che faccia il “cattivo”.
Con quel fisico imponente, da buttafuori o guardia del corpo debosciata non avvezza alle sessioni di allenamento in palestra, e con una faccia vagamente minacciosa che, senza sforzo, riusciva a comunicare un senso di inquietudine nello spettatore – attraverso minime espressioni, movimenti sopraccigliari impercettibili, rughe sulla fronte e occhi vivaci e penetranti perennemente dischiusi, come a proteggersi dal sole accecante in uno spaghetti western – si capisce perché Hollywood lo impiegasse soprattutto come caratterista.
Eppure, Michael Madsen da giovane era di una bellezza assieme rude e gentile, non priva di quel brusco romanticismo che ha permesso ad attori come Mickey Rourke – certo, più bello di Madsen, almeno nella prima fase della sua carriera – di diventare sex symbol e di interpretare ruoli invece a lui preclusi.
Una delle poche volte che Madsen è riuscito a interpretare un personaggio amabile, ha dovuto lottare con strenua determinazione per ottenere il ruolo. All’inizio degli anni Novanta, gli propongono di lavorare nel prossimo film di Ridley Scott, Thelma e Louise. Vogliono che interpreti lo stupratore a cui Louise spara in un parcheggio. Madsen vuole però la parte di Jimmy, il fidanzato di Louise (interpretata da Susan Sarandon), una persona decente, un family man: gli ridono in faccia. A furia di insistere però, lo sceneggiatore gli chiede di portare a cena Susan Sarandon. Madsen la passa a prendere nella sua casa di Santa Monica. Girano in macchina per i viali alberati, parlano molto, piacevolmente, e mai del film. Il giorno dopo la parte è sua.
Per il resto, la carriera di Michael Madsen, morto d’infarto a 67 anni il 3 luglio scorso, è stata legata in modo decisivo a quella di Quentin Tarantino, che ha saputo più di tutti valorizzarne la presenza fisica e le capacità, non banali, di attore. L’anno dopo Thelma e Louise, recita in Reservoir Dogs, l’esordio da regista di Tarantino. Madsen interpreta Vic Vega/Mr. Blonde, personaggio di memorabile sadismo e follia, e lo interpreta così bene che, per tutta la carriera, riceverà copioni per recitare la parte di assassini, violenti, generalmente psicopatici. Madsen con un rasoio in mano, camicia bianca e bretelle, che bascula e improvvisa un balletto sulle note di Stuck in a Middle With You prima di torturare un poliziotto, è una delle immagini che meglio raccontano il cinema di Tarantino (e degli anni Novanta), di certo destinata a sopravvivere al film anche negli anni a venire, come estratto decontestualizzato dal suo intero.
Né Madsen, ne gli altri attori del film – Tim Roth, Harvey Keitel, Chris Penn, Steve Buscemi, lo scrittore Edward Bunker: cast molto ben assortito – avevano, durante le riprese, la sensazione che il film sarebbe stato un successo, quanto quella di aver preso generosamente parte a un noir a basso budget di un regista parecchio appassionato.
Fuori dal set, clima di conviviale cameratismo: in un’intervista, Madsen racconta di aver passato buona parte del tempo a evitare che Lawrence Tierney – altro grande attore di genere dal temperamento burrascoso, riesumato da Tarantino (che di resurrezioni artistiche è maestro) per la parte di Joe Cabot – si ubriacasse, rischiando anche di farsi menare nel tentativo di tenerne a bada gli istinti autodistruttivi.
“Eppure, Michael Madsen da giovane era di una bellezza assieme rude e gentile, non priva di quel brusco romanticismo che ha permesso ad attori come Mickey Rourke – certo, più bello di Madsen, almeno nella prima fase della sua carriera – di diventare sex symbol e di interpretare ruoli invece a lui preclusi”.
Anche Madsen ha avuto un rapporto tormentoso con l’alcool; rehab, multe di migliaia di dollari per guida in stato di ebbrezza, carcere. Fino all’ultimo non si è risparmiato col bere, cosa che, assieme al fumo e ad altri vizi assortiti, ha sicuramente contribuito alla sua morte precoce – anzi, il fatto che fosse arrivato ancora vivo a quasi settant’anni avrà senz’altro sorpreso molti, abituati a vederlo sempre sullo schermo con la sigaretta penzolante dalle labbra e una bottiglia di scadente liquore accanto.
In questo, Madsen soddisfava appieno i pruriginosi desideri di quei fan che tendono a sovrapporre l’attore ai personaggi che interpreta, compiacendosi nel pensarli indistinguibili.
Ma una certa vena malinconica, da cowboy triste, Madsen la irradiava davvero, nella vita e sullo schermo.
Per questo, nei panni di Budd in Kill Bill 1 e 2, ha fornito forse la sua prova più indimenticabile: ogni volta che è in scena, e il suo volto rugoso e avvizzito è ripreso in primo o primissimo piano – in una recitazione che procede per accumulo di gesti, sottili increspature del volto, sopracciglia inarcate con studiata lentezza, sorrisetti, linguacce – il film cambia ritmo, e procede con il passo sofferto di un bluesman capitato come per caso in una sessione jazz. Madsen indossa un cappello Stetson già fuori moda, che connota con precisione psicanalitica il personaggio.
Budd è un ex killer dotatissimo incapace di adattarsi a una vita ordinaria, costretto a uno squallido lavoro da buttafuori in un locale di spogliarelli, dove è sottoposto alle angherie di un capo volgare e mediocre; alcolizzato, vive in un camper nel mezzo del deserto texano. Ha contezza del dolore che ha inflitto agli altri (alla sposa, interpretata da Uma Thurman, in particolare) e si trascina stancamente nell’attesa di una resa dei conti e di una punizione che sa di meritare, pur tenendosi attaccato a una vita miserabile con l’indifferente ostinazione di un animale. Il suo cappello Stetson – continuamente titillato, calcato e tolto con fastidio – è come l’impermeabile di Humprey Bogart: veste il personaggio raccontandone l’indole con l’efficacia della buona scrittura drammaturgica. Tarantino detestava quel cappello, non voleva che Madsen lo indossasse – e qui rimettono in scena, attraverso l’umiliante confronto tra Budd e il suo capo, le schermaglie avute sul set.
Divergenze sul cappello a parte, Tarantino amava molto Madsen, al punto da imporsi per averlo nei suoi film, nonostante l’avversione che Harvey Weinstein nutriva nei suoi confronti. Cinque film assieme: i già citati Reservoir Dogs e Kill Bill 1 e 2, e poi The Hateful Eight e Once Upon a Time… in Hollywood. Uno invece mai realizzato, con sincera tristezza di Madsen: The Vega Brothers, che sarebbe dovuto essere una sorta di prequel di Reservoir Dogs e Pulp Fiction, con protagonisti Vic Vega e Vincent Vega (John Travolta).
Nella carriera di un caratterista come Madsen, inevitabili i film alimentari; d’altronde, ha recitato in più di 300 pellicole. Madsen era consapevole dei brutti film a cui ha preso parte. Ad esempio, di Bloodrayne di Uwe Boll (regista di culto, soprattutto – si può dire serenamente – di brutti o bruttissimi film) ha detto “è orribile, a guardarlo non si capisce nemmeno se sia una commedia o altro”. Una vera fetecchia è, per quanto mi riguarda, My Boss’s Daughter, con Ashton Kutcher e Tara Reid, che vidi appunto solo in virtù della partecipazione di Madsen (il quale, in una scena particolarmente infelice, piscia sui pantaloni di Kutcher). Anche tante piccole parti significative: l’agente Falco della NSA in 007- Die Another Day (parte avuta anche grazie all’amicizia con Pierce Brosnan, di cui era vicino di casa); Dominick Black in Donnie Brasco; Bob nel Sin City di Robert Rodriguez.
Negli ultimi anni, Madsen si sentiva abbandonato dal cinema o comunque male impiegato. In una intervista al «Guardian» di qualche anno fa si chiedeva se non fosse nato nell’epoca sbagliata. Probabile: quella faccia, quel fisico, quel modo di delineare con pochi tratti un personaggio, sono tutti attributi che nell’età d’oro del cinema di genere hollywoodiano lo avrebbero probabilmente premiato – e d’altronde il bianco e nero molto contrastato di Sin City gli donava. Madsen stimava molto Robert Mitchum, Kirk Douglas, Lee Marvin, Burt Lancaster e, oltre la reverenza dovuta a questi grandi attori, è difficile non intravedere il desiderio di esserne erede.
Se il cinema è l’arte dei volti – come scriveva David Thomson, ricordando l’importanza di Garbo o Dietrich nella storia del cinema, non inferiore a quella dei grandi registi – , quello hollywoodiano oggi sembra esprimere meno questa tensione, o quantomeno sembra meno capace di valorizzare, anche in film commerciali e con un budget consistente, interpreti con un certo tipo di mimica e physique. Sono molte le facce carucce, belline, meno invece quelle interessanti. Anche i ruoli per cui Madsen veniva (spesso suo malgrado) scritturato non abbondano. Senza nostalgie, ma a conferma del fatto che oggi Madsen, se fosse nel pieno della sua carriera, avrebbe probabilmente faticato.
Tra le altre cose, Madsen era poeta, un po’ alla Bukowski (o alla Victor Cavallo, per citare un altro caratterista-poeta). A breve uscirà, postuma, una sua nuova raccolta.
In questo video in bianco e nero ne recita una – e guida moto e auto sportive, altre sue grandi passioni, assieme ai cappelli Stetson. Vale la pena ascoltarne la voce, profonda e sciupata come quella di Budd in Kill Bill (a ripensarci, difficile, in fondo, con uno come Madsen, scindere l’attore dall’uomo).
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