Elena Marinelli
Pochi hanno incarnato meglio di Rafa Nadal l’idea dell’atleta perfetto: muscoli, grinta, carisma, dedizione. Se nella prima fase della carriera sembrava imbattibile, negli ultimi anni è stato tormentato dagli infortuni. Il dolore lo ha reso ancora più grande.
Quale sia il punto di vista migliore per guardare una partita di tennis non è facile dirlo. La prospettiva delle prime file, stretta sulle gambe e i movimenti di piede degli atleti, porta consapevolezze di un certo tipo: quanto è veloce la pallina, per esempio, un vortice più o meno sospeso nell’aria, che schizza da una racchetta all’altra. Ma più di tutto, il punto di vista ravvicinato racconta attraverso i dettagli – il viso sudato, l’espressione di contrarietà dopo un errore o di esaltazione dopo un punto guadagnato – le intenzioni che altrimenti sarebbe complicato cogliere.
Dalle file più in alto, invece, l’esperienza può essere dispersiva: i rumori del campo si attenuano per lasciare spazio a quelli dello stadio, e la pallina diventa solo un oggetto tondo che rimbalza tra angoli e linee. Visto dall’alto, il tennis sembrerebbe più noioso, perché meno vicino all’azione di gioco; ma se sul campo ci fosse un tennista dotato tatticamente e in ottima forma fisica, si noterebbero delle sfumature del gioco precluse ad altre visuali. Ad esempio, una delle cose che verrebbe all’occhio è che per coprire il campo da un lato all’altro non basta l’atletismo, ma occorre un certo tempo sulla palla: non basta, infatti, al tennista di talento un corpo propulsivo per colpire la pallina al momento giusto.
L’impatto della racchetta con la pallina è l’attimo più importante dello scambio e da vicino appare solo come una conseguenza dell’esecuzione più o meno riuscita di dritto o di rovescio, come un tempo accelerato in cui il tennista chiede al corpo prontezza di riflessi e alla mente lucidità; da lontano, invece, il tempo della partita, più dilatato, diventa più accessibile. Ci si annoia anche forse, ma si intuisce la strategia dell’atleta, la sua relazione con il gioco.
Se vedessimo giocare Rafael Nadal da vicino avremmo la sensazione di non riuscire a comprenderne appieno le qualità: come ha fatto ad arrivare così in fretta in quel punto del campo? Come può colpire con tanta forza la palla? Se lo vedessimo giocare da lontano e dall’alto capiremmo che queste domande hanno a che fare con un certo grado di corporeità del suo gioco, fatto di scatti in tempi puntuali, di muscoli efficienti; e poi la mente, sgombra e perennemente concentrata sul braccio che impugna la racchetta e rilascia il colpo con tempismo e pulizia.
Movimenti potenti e tocchi leggeri, forza e talento, intelligenza e muscoli: questo è stato Nadal al suo meglio. “È stato” perché, pochi giorni fa, ha annunciato il suo ritiro dal tennis dopo la Coppa Davis che giocherà con la Spagna. Rafael Nadal Parera, detto Rafa, 38 anni compiuti quest’anno e in passato spesso festeggiati sulla terra rossa Roland Garros di Parigi (lo Slam che ha più amato, ricambiato) è stato un giocatore inafferrabile. Quando ha iniziato a vincere i tornei più importanti del circuito maggiore ATP – il primo Roland Garros è del 2005, a diciannove anni – lo ha fatto imponendosi in modo netto e implacabile.
Ammirare il suo talento, fondato su un gioco prorompente e assillante in cui l’intensità non lasciava scampo e soffocava il gioco degli avversari, è stato uno spettacolo esaltante, che coniugava potenza e tattica. Ora, a un passo dal ritiro, dopo 22 tornei del Grande Slam vinti e troppi infortuni, Nadal sembra già aver lasciato il campo. Pochi giorni fa annunciava: “Sono stati anni difficili, specialmente gli ultimi due. Penso di non essere riuscito mai a giocare senza ostacoli […]. In questa vita tutto ha un inizio e una fine e credo che sia il momento giusto per mettere un punto a quella che è stata una carriera lunga e con molti più successi di quelli che avrei mai immaginato”.
“Ammirare il suo talento è stato uno spettacolo esaltante, che coniugava potenza e tattica”.
Il video con cui ha reso nota la sua decisione è stato pubblicato sui suoi profili social. Inizia con un sospiro e un ciak, che ci porta subito alla notizia. Rafa Nadal è ripreso in primo piano, stretto su un’espressione pacificata, tranquilla, tipica del suo modo di conversare con i giornalisti nelle conferenze stampa e molto differente, invece, da quello a cui ci ha abituati sul campo. Il corpo di Nadal non si vede e la sua verità va presa per come ce l’ha raccontata: un limite che non riesce più a superare, nemmeno per ciò che più ama fare al mondo. Nasconde le braccia, le gambe, quello che gli ha permesso di essere l’atleta che abbiamo ammirato, ma mostra solo il suo viso rassegnato, lasciando agli spezzoni delle sue vecchie partite montate tra una frase e l’altra il senso del suo tennis.
La fragilità di Rafa Nadal è stata da sempre una condizione imprescindibile del suo corpo, ma per anni, nelle stagioni in cui ha giocato molto e vinto, è riuscito a farcela dimenticare, a celare i problemi che invece oggi sono insuperabili. Mentre portava a casa successi, uno dopo l’altro, quando trovava dei difetti a Roger Federer prima e a Novak Djokovic poi, il corpo rispondeva, e quella fragilità era lasciata fuori dalle partite, quasi come un rumore molesto o una credenza infondata.
Un’èra del tennis si sta compiendo, in ordine cronologico – due anni fa Federer, ora Nadal e chissà quando Djokovic – , e Nadal appare rassegnato, incapace di alzare ancora di più l’asticella della volontà sul suo fisico stremato. Il tennis come al solito sapeva, ma ha bisogno ancora di tempo. Di sedersi in alto e continuare a guardare.
La prima pagina de «L’Équipe» di venerdì 11 ottobre recita “Et la terre s’arreta” (E la terra si fermò); avremmo voluto immaginare il suo ultimo atto consumarsi sulla terra rossa di Parigi , davanti a un pubblico triste e trepidante che tante volte, in passato, ha assistito alle sue vittorie. Invece, adesso bisogna immaginare lo stadio parigino muto, in attesa di un evento che poco ha a che vedere con risultati e tornei ma tanto di più con la caducità del corpo, quella condizione che sul campo scompariva e da oggi non può più.
Non può esserci altra causa se non il fisico sgretolato a separare Rafa Nadal dal tennis, perché è ciò che gli impedisce di giocare. Anche Novak Djokovic, dopo l’oro olimpico, non ha più l’intenzione di dannarsi per ogni torneo e ogni punto né tantomeno per la classifica: anche a lui, il tennista dei record, basta solo giocare bene. Qui, forse, sta il senso ultimo del ritiro di una figura tanto rappresentativa del suo sport: se non è più in grado di giocare ai suoi livelli, tanto vale andare via.
Il match point conquistato durante la finale del primo Slam della sua carriera nel 2005, contro l’argentino Mariano Puerta, mancino anche lui, arrivò con a una risposta di dritto incrociato che ha portato l’avversario all’errore: una palla lunga e larga spedita in corridoio. Sdraiato sulla terra, oltre la linea di fondo, Nadal lasciava andare la racchetta e apriva le braccia e le gambe, sollevato dalla fine di una partita tesa. Dopo quasi tre ore e mezza di gioco si prende ancora un po’ di tempo, con gli occhi chiusi e la bocca serrata, per poi tirarsi finalmente su e andare a ricevere i complimenti di tutti, a sancire il momento: da quel giorno, niente a Parigi sarebbe stato più lo stesso.
Nei minuti che intercorrono tra il match point e la realizzazione della vittoria, prevale la fierezza e un atteggiamento accogliente nei confronti del pubblico, del team, del box, ma soprattutto del gioco; dopo, invece, gli occhi sono inondati di lacrime, in un pianto solitario e soffocato, nascosto dietro l’asciugamano del torneo. Senza più la tensione del match, il corpo gli ha restituito il calore della vittoria, quella sensazione piacevole che rincorrerà altre volte, lo terrà in piedi e lo farà tornare a lottare, ancora e ancora, fino allo sfinimento. Quel match point ha segnato per Rafa Nadal l’inizio del dominio sulla terra rossa, una promessa di invincibilità che farà fatica a scrollarsi di dosso e che lo accompagnerà fino all’ultimo Slam vinto, nel 2022, di nuovo a Parigi contro Casper Ruud: la partita è terminata in soli tre set di cui l’ultimo vinto 6-0, ma questa volta il colpo fatale è un rovescio sulla linea, uscito da un movimento unitario del busto e delle gambe, quasi da fermo, quasi nel punto più scomodo, con lo swing stretto e la precisione millimetrica.
È la sintesi della sua storia: il corpo che risponde senza esitazioni , le esecuzioni perfette, il tempismo studiato, la pressione giusta. Tutto è durato un attimo. La sua reazione alla vittoria, però, è stata completamente diversa da quella del 2005: non c’è più bisogno di impossessarsi, fisicamente, della terra rossa, ormai quella terra è sua. Ci sono solo gratitudine e commozione.
La rivalità più grande che Rafa Nadal si è trovato davanti nella sua carriera è stata quella con Roger Federer; la partita di doppio che hanno giocato insieme alla Laver Cup a Londra nel 2022, l’ultimo torneo di Federer prima del ritiro, è stata una delle più complicate per Nadal. Lo sapeva ancora prima di scendere in campo e lo ha ammesso dopo: aveva il terrore di sbagliare, di fare brutta figura, di perdere. Come un tennista qualunque. In quel caso l’avversario di una vita gli aveva chiesto un sacrificio – Nadal non era in condizione di giocare – e lui non si era sottratto. Assieme, hanno dimostrato che un grande avversario è tale soprattutto come proiezione e specchio di se stessi. L’immagine dei due, seduti dopo la partita, singhiozzanti e mano nella mano, è indimenticabile. La rivalità tra Nadal e Federer si è conclusa in mondovisione due anni fa e in quel momento è iniziato anche quel limbo in cui Rafa Nadal si è trovato senza l’altra metà del suo cielo, in un anno, il 2022, fatto di momenti altissimi e sofferenze estreme, da cui non è più riuscito a riprendersi. Per Roger Federer ha provato ammirazione affezione profonda; la nemesi senza la quale non avrebbe disputato i suoi match più memorabili – su tutti, la finale di Wimbledon del 2008 (quando lo spagnolo, vincendo, ha tolto allo svizzero ogni certezza proprio sul terreno a lui più congeniale) è stata definita “la più bella partita di tutti i tempi”. Ma si potrebbero citare anche le due finali dell’Australian Open del 2009 e del 2017.
Il ritiro di Rafa Nadal ha il sapore di una verità che sapevamo a memoria da anni ma che non siamo ancora una volta disposti ad accettare: riproponiamo quel rito di celebrazione e ovazione e per la seconda volta – dopo Roger Federer e prima di Novak Djokovic chissà quando – proviamo a rivivere.
“Assieme, Nadal e Federer hanno dimostrato che un grande avversario è tale soprattutto come proiezione e specchio di se stessi”.
Rafa Nadal lascia il tennis professionistico e con lui se ne va un atleta geniale e dal talento purissimo. Nonché un’epoca, la più spettacolare conosciuta fino a oggi e, forse, irripetibile. Il tennis non ha mai fretta di passare oltre perché giocatori come lui non hanno mai fretta di andarsene. Ritardano la fine cercando un nuovo senso a una vita che per decenni è stata solo campi, fisioterapia, allenamenti e colpi ripetuti. Poi la accettano, la dichiarano al mondo intero, fuori dal campo, provando a convincere il pubblico che quello che sta accadendo – la fine – è normale. E lo è, certo.
L’ultima partita che Rafa Nadal ha giocato ad alti livelli è stata la sessantesima sfida contro Novak Djokovic, il secondo turno dei Giochi Olimpici di Parigi, sullo stesso campo del Roland Garros. Solo con queste premesse, l’incontro è stato l’ennesimo evento, con il mondo a guardare. Lo spagnolo non era in condizione piena di giocare e lo ha fatto ugualmente, creando qualche timore, instillando dubbi in chi lo avrebbe commentato. Di fronte c’era uno degli avversari di sempre, era Parigi e per essere ai Giochi ha impegnato l’ultimo osso integro rimasto: ecco perché Nadal era lì, nonostante tutto.
A chi ha seguito la partita, è bastato un set per vedere malinconicamente dissolversi l’idea illusoria che avevamo di lui:un atleta deciso a essere invincibile.
Elena Marinelli
Scrittrice, collabora con «Il libraio» e «Ultimo Uomo». Il suo ultimo libro è Fondamentali (66thand2nd, 2024).
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