Nove libri da riscoprire quest'estate - Lucy
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Redazione

Nove libri da riscoprire quest’estate

03 Agosto 2024

Alcuni consigli letterari a cura della Redazione, tra loro diversissimi, dedicati a chi non ha ancora finito di chiudere la valigia o ha sempre spazio per qualche altro libro.

Matteo Grilli: Il popolo dell’autunno (Mondadori) di Ray Bradbury

L’estate è una stagione di confine, soprattutto per chi la abita — con la mente, con il cuore — tutto l’anno. E pochi la abitano come i bambini, che dal momento in cui iniziano la scuola non aspettano altro che arrivi giugno per liberarsi dai vincoli delle istituzioni e indossare di nuovo gli occhi brillanti della scoperta, della meraviglia, della libertà.

Ray Bradbury è stato un bambino di pura luce: ha sempre vissuto guardando il mondo con gli occhi fanciulleschi dell’estate, mosso dal mistero e dall’incanto. Di suo, non esiste solo la fantascienza di Fahrenheit 451 ma anche antologie di racconti che attraversano i generi come Paese d’ottobre, una raccolta di novelle sorprendenti, ambientate proprio nei luoghi fisici e spirituali dell’infanzia.

Il mio consiglio è però di riscoprire Il popolo dell’autunno; il titolo in inglese Something Wicked This Way Comes lo descrive meglio: una citazione cupa dal Macbeth che parla dell’arrivo di qualcosa di terribile, di perverso. Questo romanzo racchiude lo spiccatissimo senso del macabro di Bradbury (il fantastico e spaventoso personaggio del signor Dark è lo stesso di un altro libro, L’uomo illustrato) e una dolce riflessione sui riti di passaggio — sulla scoperta della vita e della morte — che era già presente nel suo struggente romanzo di formazione L’estate incantata.

Un circo itinerante maledetto, una notte di Halloween infinita che inghiotte una piccola cittadina, due amici che si uniscono contro un male in apparenza invincibile: nonostante l’autunno che compare nel titolo italiano, è la lettura perfetta per combattere questa crudelissima estate. E anche per scoprire da chi sono stati ispirati due colossi dell’horror come Stephen King e Clive Barker per alcuni dei loro romanzi migliori.

Irene Graziosi: Le nonne (Feltrinelli) di Doris Lessing

Di tanto in tanto, diciamo una o due volte l’anno, capita che io mi trovi in una libreria dell’usato e il mio sguardo venga attratto da un libro di Doris Lessing. Non sono mai io a cercare lei, sono sempre i suoi libri che mi chiamano un po’ gualciti e impolverati in mezzo a una pila di altri volumi. Credo che questo incantesimo sia una eco della voce di Lessing, che è sempre stata liberissima, scanzonata, se n’è sempre infischiata di tutto e tutti, come quando all’inizio degli anni Sessanta pubblicò Il taccuino d’oro, romanzo enorme, strafottente, leggero e densissimo, che fece sfrigolare voci che davano per certa la sua vittoria al Nobel, e allora lei decise di scrivere fantascienza, screditandosi agli occhi dell’elite letteraria mondiale (lo vincerà poi il Nobel, ma circa cinquant’anni dopo). È questo suo carattere che non si dà per vinto a far bisbigliare anche oggi le parole che ha scritto tanti anni fa, e l’estate è il momento migliore per leggerla. Il caldo le dona, così come l’arancione, il giallo, e l’azzurro, l’erba verdissima e gli animali. 

Il mio consiglio per l’estate è la sensuale raccolta Le nonne, edita da Feltrinelli. Ci si potrebbe chiedere come le nonne e la sensualità estiva possano andare d’accordo, ma solo se non si è avvezzi a Lessing. Queste nonne infatti non sono come uno se le immagina, non sono le nonne che si fanno carico dei nipoti nelle case di città roventi dove si sente il ronzio del ventilatore e il vociare della tv. Queste nonne sono amiche da sempre, sono avventuriere della vita, assieme hanno fatto di tutto e sono da sempre inseparabili. Hanno un figlio a testa, bei ragazzi entrambi, e con loro cominciano a intessere un rapporto… privilegiato, diciamo, che si protrae a lungo, anche quando i ragazzi si ammogliano e portano le madri in vacanza con le loro famiglie. Impossibile per gli appassionati e le appassionate di Lessing non intravedere l’ironia canzonatoria, brusca e affettuosa che permea Il taccuino d’oro nelle due nonne, e per chi non l’avesse letto, Le nonne è un bel modo per avvicinarsi a quel capolavoro che Lessing si è sempre rifiutata di definire femminista, perché le femministe le parevano un po’ sceme.

Ma non è finita qui, perché Le nonne si compone di tre racconti, e il secondo è ancora un’altra cosa e dà prova della versatilità e dell’inventiva e della profondissima sensibilità di questa donna che scriveva in un tempo in cui si poteva scrivere di chiunque. In Victoria e gli Staveney, una ragazza nera e povera ha un figlio da un ragazzo ricco con cui intrattiene una brevissima relazione. Non confessa all’amante di avere un bambino finché non si ritrova ad aver bisogno di soldi, e lì viene accolta dalla famiglia di lui con dei toni così forzatamente corretti e “buoni” da risultare inquietanti.

Dell’ultimo racconto non dico niente, un po’ perché ho finito lo spazio, un po’ perché servirà pure un po’ di sorpresa nella vita. 

Giada Arena: Brat (Eris Edizioni) di Michael DeForge

Ho perso il conto degli articoli, dei podcast e dei post social usciti nelle ultime settimane per spiegare al grande pubblico cosa significhi essere brat. L’ultimo disco dell’artista britannica Charli XCX, complice la sua estetica acida, dichiaratamente memificabile e quindi riproducibile all’infinito, è riuscito infatti nel raro intento di evadere dalla nicchia all’interno della quale è stato generato per riempire trasversalmente i feed delle piattaforme su cui trascorriamo troppo tempo – e diventare, persino, una parentesi non trascurabile della campagna presidenziale di Kamala Harris. Questa, quindi, è ormai inevitabilmente un’estate brat.

Ma chi è la persona brat? Priva di una definizione in italiano, può essere tradotta approssimativamente come “monella”, “ragazzaccia”, “scostumata” e altri aggettivi che sembrano il titolo di un film di Tinto Brass. Ma nell’essere brat c’è una sfumatura dionisiaca, liberatoria, quasi fuorilegge: a restituirla perfettamente c’è un libro a fumetti intitolato proprio Brat, disegnato da Michael DeForge e pubblicato in Italia nel 2019 da Eris Edizioni.

La protagonista è Miss D, “star della delinquenza giovanile” nota per i suoi atti criminosi che si collocano a metà tra la performance artistica e la burla à la Amici Miei: ha mostrato i numeri di telefono dei figli del Presidente in diretta al Saturday Night Live, dato alle fiamme macchine della polizia, creato un fiore artificiale per spruzzare aceto negli occhi del Papa o defecato su innumerevoli pavimenti, in una sequenza di gesti deplorevoli che negli anni l’hanno resa, nonostante tutto, un’amatissima celebrità. Miss D ricorda molto la “filthiest person alive” interpretata da Divine in Pink Flamingos di John Waters, un film che (a proposito) considero estremamente brat.

Nel frattempo, però, la donna ha compiuto trentatré anni e inizia a essere stanca di assecondare le aspettative che il pubblico ha nei suoi confronti. “Sono stufa di superare me stessa”, dice, e così il libro diventa un’inaspettata e brillante riflessione sulla fama, i media e l’adultità, senza mai perdere il tratto fiabesco e psichedelico che negli anni ha caratterizzato la produzione dell’illustratore canadese, già disegnatore del cartone animato Adventure Time.

Brat è quindi una graphic novel surreale e iconoclasta, ma anche profonda e accurata nel descrivere i turbamenti di chi comincia a sospettare di sentirsi a disagio nella propria identità. Perfetta, insomma, per una brat summer consapevole.

Matteo De Giuli: La donna di sabbia (Guanda) di Kobo Abe

Un dorso verde pastello si è nascosto per anni tra i dorsi della libreria senza mai trattenere il mio sguardo. Mai una volta che mi fossi fermato a guardarlo o mi fossi chiesto e questo cos’è? Solo quando il trasloco mi ha costretto a tirare fuori quel libro per chiuderlo in una scatola con gli altri, ho letto la scritta in copertina: “ABE KOBO L’arca ciliegio”. Mai visto prima. Mai comprato, non io. Chi lo aveva infilato lì?

L’ho letto in un paio di sere, nel caos di mobili fuori posto e delle stanze spoglie che già non riconoscevo più. L’arca ciliegio è la storia di un eremita paranoico che vive nei cunicoli di un cantiere abbandonato. Corpacciuto, meticoloso, misantropo e smaliziato, l’uomo sente che l’esplosione di un olocausto nucleare è imminente. Ma non potrà salvarsi da solo, perché nella sua tana – che è un ingegnoso mondo sotterraneo fatto di tunnel, stanze e trappole mortali – cadono un venditore d’insetti e una coppia di adescatori.

A quel punto ho deciso di cercare altro di Abe, e da poco era stato ripubblicato Incontro segreto. Un altro incubo claustrofobico, ambientato questa volta nei dedali di un gigantesco ospedale. Una clinica poco ortodossa, dove i pazienti sono trattati come prigionieri che accettano il proprio destino abbandonandosi ad avventure sessuali spericolate. La cronologia degli eventi è instabile, gli intrecci non si lasciano sciogliere, i paradossi temporali straripano.

Nel frattempo a casa non trovavo più i vestiti che mi servivano né le cose per cucinare. Era finito tutto quanto in qualche scatolone già sigillato. Ho deciso di leggere un altro libro di Abe: La donna di sabbia, considerato il suo capolavoro. Purtroppo è fuori catalogo, ma si trovava e si trova facilmente in giro. È da questo libro che vi consiglio di partire. 

Racconta di un professore, un entomologo che, andando alla ricerca di alcuni insetti rari, scopre un villaggio nel deserto nascosto in una grande buca. Le case rischiano continuamente di sparire tra le dune. Gli abitanti non fanno altro che spalare sabbia tutto il giorno.

“Tutto era assurdo. L’avvenimento era troppo fuori dal normale. Un uomo iscritto regolarmente all’anagrafe, con un lavoro preciso, contribuente puntuale dell’erario, munito perfino della tessera della mutua per l’assistenza sanitaria: era permesso che un tale soggetto venisse preso in trappola come un topo o un insetto qualsiasi? Era incredibile. Probabilmente c’era stato qualche errore. Era chiaro che c’era stato un malinteso da qualche parte. Soltanto così si sarebbe spiegato tutto questo”.

Dal villaggio non si riesce a fuggire. La sabbia è rapida, si accumula troppo velocemente. Non c’è tempo di fare altro, solo spalare. Così anche l’uomo viene inghiottito dall’inerzia del luogo. Sostituisce il marito defunto della donna che lo ospita. Si rassegna a spalare sabbia  – e io, che leggevo, mi rassegnavo ad assemblare scatoloni. I pensieri dell’uomo sono sempre più angusti.

“Come una macchia d’inchiostro di china sulla superficie dell’acqua, la stanchezza stagnata era un cerchio che poi si trasformò in una medusa, poi in una palla fiorita, poi in un diagramma di un nucleo atomico, che dilagava sempre di più. Un uccello notturno che aveva trovato un topo dei campi chiamava i compagni con uno strillo sinistro. Un cane inquieto che abbaiava rovesciando il proprio stomaco. Il vento stridulo che fischiettava nel cielo alto di notte, attraversandolo sempre a velocità diversa. Sulla terra, il coltello del vento spelacchiava uno dopo l’altro gli strati di sabbia, spingendoli qua e là”.

Dal labirinto del trasloco sono poi riuscito a evadere. Dal labirinto della mente di Abe, mai più.

Lorenzo Gramatica: Frank Sinatra ha il raffreddore. Ritratti e incontri  (BUR) di Gay Talese

Il “New Journalism”, nei suoi esempi più riusciti, rivaleggia senza troppi sforzi con la letteratura, ma ha anche generato emulazioni goffe, ridicole e fastidiose, ed epigoni che, al taccuino e alla penna, sembrano preferire uno specchio pieghevole, tanto è spudorata la voglia di dire “Io!” e di sentirsi dire “Bravo!”

Se oggi abbondano pezzi infarciti di esperienze vissute in prima persona, note autobiografiche, ricordi nostalgici, storie da tinello e camera da letto, la colpa non è certo di Tom Wolfe, Joan Didion, Truman Capote, Hunter S. Thompson, ma insomma: quelli bravi, con la loro personalità e la loro scrittura, fanno sembrare tutto facile e replicabile.

Gay Talese, che del New Journalism, a detta dello stesso Tom Wolfe, è stato padre, è abbastanza inimitabile, se non altro per la capacità di indossare con tanta elegante naturalezza un Borsalino e un completo sartoriale (se questo fosse un tentativo di New Journalism dovrei forse aggiungere che di completo io ne possiede solo uno, in lino, comprato da Muji e che un altro è andato invece smarrito su un Frecciarossa ma appunto, di quello che indosso, di quello che faccio, chissenefrega?!).

Più che vedersi riconoscere la paternità del genere, a Talese interessava la condizione di figlio: “Io volevo solo scrivere come Fitzgerald”, a dimostrazione delle sue velleità letterarie e della sua ambizione. 

Che Talese sia stato irripetibile (ne parlo al passato ma è vivo, ha 92 anni e scrive ancora libri, che gli causano però più guai che elogi: nel 2016, il suo The Voyeur’s Motel è stato violentemente attaccato, e nello stesso anno Talese è stato accusato di misoginia per aver negato le influenze di scrittrici donne nel suo lavoro. La sua risposta, qualche giorno dopo, per sedare le polemiche molto accese: “Sono vecchio, non avevo capito la domanda”, giustificazione da riutilizzare, con minime variazioni, anche in età meno avanzata), è vero anche perché la società e il periodo storico in cui operava erano molto differenti: era differente il valore accordato alla stampa, erano differenti le retribuzioni, le disponibilità degli investitori e la pazienza dei direttori, se è vero che per scrivere un solo pezzo era concesso all’autore di passare mesi a bighellonare a spese della rivista.

Cinque sono stati i mesi necessari a Talese per scrivere il pezzo, famoso e giustamente celebrato, che dà il titolo alla raccolta che vorrei consigliarvi: Frank Sinatra ha il raffreddore. Ritratti e incontri (BUR, 2010). Il pezzo, uscito per la prima volta nel 1966 per «Esquire», è un lento pedinamento da film noir, un reportage divagante ma preciso, come quei sentieri di montagna immersi nei boschi, che, contro ogni aspettativa, ti portano dove volevi arrivare facendoti però dimenticare, durante il tragitto, la meta.

Tra i molti pezzi di bravura compresi nella raccolta e scritti in oltre cinquant’anni di carriera (In cerca di Hemingway, Peter O’Toole nella vecchia Irlanda, Vogueland e il commovente Ali all’Havana, per citarne alcuni) uno su tutti vale la pena di essere letto e riletto, Il signor coccodrillo, ritratto affettuoso dello scrittore di necrologi del «New York Times» con incipit magnifico: “‘È stato Winston Churchill a procurarti l’infarto’ disse la moglie dello scrittore di necrologi, ma lui, un uomo basso e piuttosto timido con gli occhiali dalla montatura di corno e la pipa, scosse la testa e rispose dolcemente: ‘No, non è stato Winston Churchill’”.

E poi continua, tra affettuose schermaglie coniugali: sarà forse stato T.S. Eliot? 

Di quel mondo, scomparso o in dissolvimento, lo scrittore di necrologi e Talese sono due rappresentanti diversi e speculari, l’oggetto e il soggetto che si confondono fino a rendersi pressoché indistinguibili. 

Emiliano Ceresi: Cose viste. 1938-1939 (Sellerio) di Irene Brin

C’è stato un tempo in cui su «Omnibus», il settimanale diretto da Leo Longanesi, incorniciati tra la pagina teatrale di Alberto Savinio e la colonna sull’arte di Bruno Barilli, si potevano trovare gli articoli di costume di Irene Brin. 

Ritratti impietosi della borghesia italica tra le due guerre: redatti in una prosa spigliata priva di “fatica apparente” (uno stile dry era quello richiestole dal Direttore); i pezzi sono stati poi raccolti da Sellerio in Cose viste 1938-1939: un titolo sobrio che ben si attaglia alla sprezzatura d’antan di chi li ha firmati.

Come ricordava Alberto Arbasino, ammiratore profondo di Brin, sullo sfondo di questi articoli stava “una minuscola Italia magnifica e provinciale e attanagliata da intensi tabù inverosimili, da dileggiare con una ironia molto insolita”.

Non pare un caso, quindi, che ogni pagina della giornalista fosse debitamente gremita di diminutivi: un espediente affilato (quanto pervasivo) tramite il quale Brin riusciva a rimpicciolire tutto ciò di cui era testimone: “tabarini”; “cappellucci”; “giletto”; “sottanino”; “tenorino” ; “camerierina”; “poncini”, “birichini”; “tappetino”; moltissimi “stanzini” e poi i “bridgettini intimi” alternati ai “pokerini amichevoli”. Anche gli accrescitivi sembrano mirati a ridimensionare certi soggetti (“gli elegantoni”), oppure a ritagliarne delle figurine: è così per “la distintona” fedele al suo compagno, come per “una biondona in pelliccia di petit-gris”; mentre le clienti in sala d’attesa, almeno tra loro, appaiono “amicone” complici.

Lo stesso vale per i goffi tentativi da parte degli italiani di emulare i miti internazionali, un segnale di provincialismo che Brin, spietata, si compiace volentieri di ricondurre alla matrice. In un locale la giornalista incontra una “bionda opulenta genere Mae West” in compagnia di “una rossa con il naso di Myrna Loy”. A prendere un tè da Camilloni, a Roma, nota invece ai tavoli una coppia madre-figlia con la bocca “tinta in largo, alla Crawford”.

Per addolcire certe critiche, andrà sottolineato come la scrittrice si sottoponesse, lei per prima, a una strategica diminutio, dovuta perlopiù a complessi provinciali: “noi abbiamo letto un solo libro di D’Annunzio ed uno di Pitigrilli, ma ci pare, press’a poco, che le donne veramente eleganti e superiori debbano avere quell’aspetto lì”.

Oltre l’autoironia, a rendere briosi i periodi concorrono le apocopi (“Fumavan tutti”) e i francesismi esibiti (“lamé”, baint-de-soleil”, “I adore le Càmel”) che Brin sparge come un talco sulla pagina.

Insieme col fiuto per imitazioni fallite, Brin possedeva poi una capacità unica nel restituire l’atmosfera di certi ambienti. Così, per esempio, descrive l’effluvio corrotto che avverte in estate all’ingresso di un salone di bellezza “Nell’aria un odore complicato, di sporco e pulito, vogliamo dire di gente sporca che si pulisce: fumo, sapone per barba, vestiti sporchi, sudore, saponette galleggianti, ferri da stiro, brillantina invecchiata sui capelli e brillantina ancora nuova nei tubetti”.

A quel talento si annodava, inoltre, una curiosità da sociolinguista per i gerghi e i tic di ogni luogo frequentato: sale da tè, stabilimenti balneari, café chantant, locali notturni, grandi magazzini. Nell’atto di farsi un shampooing, le giungono all’orecchio le ultime novità sulla moda in “quella specie di dialetto delle signore romane, per metà fatto di parole romanesche e per metà di parole forestiere”. Dei ricchissimi la incuriosisce più di tutto la dizione affettata tramite “le consonanti raddoppiate, triplicate, per maggior lusso, e le vocali ben larghe a piedistallo”: utili a scandire esclamazioni come “Spet-ta-co-lo-so!”, per esempio. Alla spiaggia la infastidiscono i ragazzi che ostentano modi di dire tolti dalle riviste, come “racchio, racchissimo”, oppure “mi fa un baffo”.

Eccoli. Bersagli prediletti di Brin, i maschi italiani, spesso colpevoli, di prendersi troppo sul serio, oltre che di riuscire poco eleganti. Perfetta l’istantanea di un bagnante che in comitiva “si mostra scortese con le ragazze, ma in fondo è innamorato di almeno tre o quattro […] e cerca di comporsi una maschera virile aggrottando le sopracciglia, fumando la pipa e parlando poco”. A tratti feroce il pomeriggio al salone per signore terminante con il garzone che, ferito nell’orgoglio (“gli uomini sono tutti scemi”), si ritira penitente a fumare dalle narici e espiare così, solo all’angolo, una nuvola di fumo “malvagio”.

E davvero ogni articolo di Brin, come per rito, si conclude su una chiosa amara o una considerazione malinconica. A scaturirla, il più delle volte, è l’esito deludente di qualche incontro  –  beninteso, nulla che non possa essere scacciato da un “vermuttino”.

Irene Moro: L’ultima estate in città (Bompiani) di Gianfranco Calligarich

 “Cosa gli dirai quando l’angelo dei trent’anni ti comparirà davanti con la spada fiammeggiante a chiederti per l’ultima volta cosa intendi fare della tua vita?” 

L’estate è, forse, l’unico momento in cui è concessa la sospensione di questa domanda. Il destino delle nostre vite è rimandato a settembre, ci penseremo poi, non ora. Leo Gazzarra, in L’ultima estate in città, risolve la questione vivendo un’estate infinita. 

Esordio di Gianfranco Calligarich, L’ultima estate in città è un racconto di 170 pagine, per molto tempo dimenticato. Inizialmente rifiutato da tutte le case editrici, esce per Garzanti nel 1973 grazie allo sguardo lungimirante di Natalia Ginzburg e Cesare Garboli. Vende 17mila copie in una sola estate, poi scompare. Ma non sarà la sua ultima estate: riappare dopo qualche decennio, complici alcune tesi universitarie e qualche club di lettori. Arango lo ripubblica nel 2010, poi tocca a Bompiani nel 2016 e nella sua ultima edizione del 2021.

Nel 1973 Calligarich ha 28 anni e, come il suo personaggio, si trova a dover dare una risposta all’angelo dalla spada fiammeggiante. Prova a farlo con un protagonista che gli somiglia e che dei suoi trent’anni non sa che farsene: Leo Gazzarra, un “esteta della disperazione”, lascia Milano per la capitale, sognando un futuro che abbia a che fare con i libri. Ma questo romanzo non è una storia di rivalsa, è piuttosto il vagabondaggio di un fuori sede in una Roma che più che accogliere imprigiona e seduce senza far fuggire le proprie prede. Roma non è, o non per tutti, un’estate che non finisce mai, soprattutto a trent’anni. Leo raccoglie molte delusioni, tanta solitudine, insieme all’amore affannato per Arianna, una ragazza attraente e scostante come la città che abitano. Leo cerca di sopravvivere racimolando denaro da lavori provvisori, infilandosi come può in un’esistenza borghese e decadente che non gli appartiene e che finisce per consumarlo. Arianna lo accompagna, sfuggente e civettuola, ma curiosa e ancora capace di speranza. Leo, però, non sa cosa farsene e si logora in amicizie alcoliche, sbatte la testa contro una realtà che non è disposta a chiedere perdono, vaga in una Roma ruffiana e permalosa. 

Il motto dei personaggi, “alzare le vele”, è tanto ribadito quanto aereo. Finisce per sottolineare un’inettitudine che combacia con giornate troppo veloci per permettere ai personaggi di ragionare sulle prossime mosse. Il residuo di giovinezza di Leo risiede nell’incertezza di giorni che non riesce a modellare, nel turbinio di fatti che non può dirottare.

L’Ultima estate in città mi è stato regalato da un’amica quando ormai a Roma non vivevo più. Ero meno vicina ai trent’anni di quanto lo sia ora, ma mi ritrovai facilmente nelle battaglie che annoiano in fretta Leo. Trovai quella città oziosa, di salotti e feste, diversa da come si era presentata a me, ma ne percepivo, e lo sento tuttora, il richiamo. Una Roma mai davvero vuota, nemmeno d’estate. 

Esistono molti modi per passare l’estate, luoghi in cui scappare, tornare, fermarsi. Quello che è certo è che nessuno vorrebbe restare in città. Vale la pena, tanto più, leggere un romanzo il cui pregio, citando Natalia Ginzburg, sta “nell’avere illuminato con disperata chiarezza il rapporto fra un uomo e una città, cioè tra la folla e la solitudine”.

Elena Sbordoni: Bambino bruciato (Iperborea) di Stig Dagerman

L’estate sembra fatta per partire, allontanarsi dalla propria routine, illudersi, e tornare per continuare a odiarla per il resto dell’anno. Ma non tutti partono e chi resta si trova a passare l’estate in città asfissianti, svuotate e silenziose. È così per Bengt, protagonista di Bambino bruciato:

“Scrivi anche che il tuo più grande desiderio sarebbe di tornare immediatamente. Mia cara Berit, non interrompere le tue vacanze per colpa mia! Qui in città non c’è granché da fare, ma capisci anche tu che non posso più accettare soldi da te, come mi proponi, per pagarmi il viaggio, soprattutto adesso che ne hai parlato ai tuoi genitori. Sarebbe troppo umiliante. Me ne resto quindi qui al caldo. Ma con il pensiero sono sempre con te.”

Il romanzo che vi consiglio di riscoprire quest’estate, forse poco estivo, ma sicuramente molto bello, è Bambino bruciato di Stig Dagerman, scritto a 25 anni e pubblicato nel 1948. Dagerman ci presenta Bengt, un giovane di vent’anni il cui mondo è stato sconvolto dalla morte della madre. Dopo un lutto, la vita di ogni famiglia cambia e assume nuove forme. Bengt, proiezione autobiografica dello stesso Stig, si trova a doversi confrontare con un padre distaccato, e una nuova donna, in un momento in cui, disilluso dagli ideali utopici dell’epoca, è alla ricerca della propria identità.

Il tema della morte e della solitudine sono onnipresenti nelle pagine del romanzo, ma Bambino bruciato è più di un racconto sul lutto, è un’indagine introspettiva sull’inevitabilità della sofferenza. Il contesto familiare disgregato è un pretesto per esplorare le dinamiche di potere e affetto. Bengt si è bruciato e vive nel terrore che questo possa accadere di nuovo, ha paura del fuoco, ma anche di ciò che assomiglia al fuoco, si dibatte tra il bisogno di amore e il terrore di essere nuovamente ferito.

Nella postfazione al volume pubblicato da Iperborea Goffredo Fofi scrive: 

“Ma se ancora ci sono adolescenti come Bengt in cerca di purezza e che sanno come Stig smascherare e sfuggire le mistificazioni di adulti sornioni e manipolatori, accigliati imbonitori di «certezze» insensate e intolleranze mortali, o paternalisti, benevoli insegnanti di mediazione e accettazione e cinismo allora non ogni speranza è perduta”.

In un’atmosfera di tensione emotiva martellante, Dagerman si immerge nelle profondità dell’animo umano con una precisione quasi chirurgica, esplorando l’essenza del dolore e della solitudine. 

Nicola H. Cosentino: Il dono della malinconia (Einaudi) di Susan Cain

È un personal essay su quella che l’autrice chiama “dolceamarezza”, ovvero il filo che connette malinconia ed estasi. Ho convinto diversa gente a leggerlo semplicemente sottoponendone un estratto che poi è anche un test, questo: 

“Per scoprire quanta dolceamarezza c’è in voi in questo momento particolare, ponetevi le seguenti domande e indicate il vostro livello di adesione su una scala da 0 (per niente) a 10 (completamente).

– Gli spot televisivi vi commuovono facilmente?

– Vi capita di piangere guardando vecchie fotografie?

– Reagite in modo intenso alla musica, all’arte, alla natura?

– Vi hanno mai descritto come «nati vecchi»?

– La pioggia vi dà un senso di conforto o vi inspira in qualche modo?

– Capite cosa vuole dire C. S. Lewis quando paragona la gioia a «una violenta, sublime fitta di desiderio»?

– Agli sport preferite la poesia (o magari trovate la poesia nello sport)?

– Vi viene la pelle d’oca più volte al giorno?

– Vedete anche voi, come Virgilio nell’Eneide, le «lacrime delle cose»?

– La musica triste vi eleva l’anima?

– Vi capita di vedere felicità e tristezza insieme, nelle stesse cose?

– Cercate la bellezza nella vita di tutti i giorni?

– La parola «struggimento» tocca delle corde particolari in voi?

– Quando parlate coi vostri amici intimi, tendete a parlare spesso dei loro problemi passati e presenti?

– E infine: avete la sensazione che l’estasi sia a portata di mano?”

Se avete totalizzato un punteggio alto, diciamo più di cento, Il dono della malinconia parla di voi e di una serie di emozioni a cui finora non avevate dato un nome, quindi dovreste leggerlo. Se invece avete totalizzato meno di cento, il discorso è diverso: dovete leggerlo, per  apprendere una lingua sconosciuta che possa creare sintonia fra voi e il resto mondo. L’ideale è farlo d’estate, quando la dolceamarezza è un frutto di stagione. 

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