Gabriele Gimmelli
Il nomadismo, i segni del tempo, il cinema come luogo di incontro: una conversazione con Giorgio Diritti, a partire dal suo ultimo film, "Lubo".
Una conversazione con Giorgio Diritti somiglia a una passeggiata: si cammina e si chiacchiera senza preoccuparsi della destinazione, anche a costo di perdere la bussola delle domande preparate in precedenza; conta la suggestione del momento, un’espressione particolare, una frase, una parola.
Bolognese, classe 1959, un apprendistato sotto la guida di Ermanno Olmi, a partire dal 1990 Diritti realizza una manciata di corti e documentari, prima di esordire nel lungometraggio di finzione con Il vento fa il suo giro (2005): partito in sordina, il film diventa in breve tempo un caso, grazie al passaparola e alla tenacia di alcuni esercenti (a Milano, il cinema Mexico lo tiene in cartellone per un anno e mezzo). Il debutto rivela uno sguardo già ben definito, che nei lavori successivi verrà declinato verso l’affresco storico (L’uomo che verrà, 2009), il road movie psicologico (Un giorno devi andare, 2013), o il ritratto intimista (Volevo nascondermi, 2020). Film diversi e variamente riusciti, accomunati da una necessità di fondo: “Ho l’impressione che talvolta nel mio lavoro si senta l’esigenza di responsabilizzare, di dare uno stimolo”, dice oggi Diritti. “Non in modo compassionevole, o pedagogico, o moralistico; ma cercando sempre di far parlare i fatti”.
Il pretesto per la nostra conversazione è l’uscita di Lubo, il suo quinto lungometraggio narrativo, presentato lo scorso settembre all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Una vicenda liberamente tratta dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatore (del 2004, riproposto in questi giorni da Einaudi), ma basata su una vicenda reale: il dramma degli Jenisch, popolazione nomade assai diffusa in Svizzera, vittima del programma Kinder der Landstrasse (“figli della strada”). Una persecuzione su base etnica e a scopo eugenetico mascherata da azione filantropica: tra il 1926 e il 1974, sono centinaia i bambini Jenisch sottratti con la forza alle famiglie d’origine e dati in adozione a famiglie svizzere, oppure internati in orfanotrofi, manicomi, prigioni. A lungo tenuta nascosta all’opinione pubblica elvetica ed emersa in tutta la sua ampiezza soltanto a partire dagli anni Ottanta, la vicenda non è inedita sul grande schermo: già nel 2017 Valentina Pedicini, prematuramente scomparsa nel 2020, aveva realizzato Dove cadono le ombre, ispirato alla vita della poetessa e scrittrice Jenisch Mariella Mehr, che nelle sue opere narrò la propria esperienza di Kinder der Landstrasse.
Scritto dallo stesso Diritti in collaborazione con Fredo Valla, Lubo, che narra la vicenda di un artista itinerante di etnia Jenisch (Franz Rogowski) alla disperata ricerca dei figli rapiti, si pone in continuità con i precedenti film del regista. Al tempo stesso, per ambizione narrativa, dimensioni produttive e persino per durata (tre ore), sembra quasi volerli superare, presentandosi come una summa tematica del suo lavoro. Abbiamo deciso di partire da qui.
Nonostante la matrice letteraria, hai fatto di Lubo un film interamente tuo. L’attenzione nei confronti della marginalità, la figura del nomade, il plurilinguismo, sono costanti che attraversano tutta la tua filmografia.
Ho sempre cercato di fare qualcosa che mi corrispondesse profondamente. È evidente, ci sono dei temi, degli elementi narrativi che fanno parte del mio vissuto e che entrano nel mio lavoro anche in maniera inconscia. Le cose che mi stai dicendo tu le ho notate anch’io, cercando di vedere i miei film “da fuori”, per così dire. L’utilizzo delle lingue, per esempio. I miei genitori erano profughi istriani: il loro richiamarsi a una terra che non c’è, il sentire un dialetto diverso, sono tutti elementi che sono entrati nelle mie storie, come quella di Il vento fa il suo giro, di Volevo nascondermi o di quest’ultimo. Poi contano anche le esigenze narrative, naturalmente. In questo caso, per esempio, abbiamo uno Jenisch che parla la sua lingua, che però agisce a Zurigo, dove si parla lo svizzero tedesco, poi si sposta in Italia… Tra l’altro, questa volta ho battuto il record rispetto ai film precedenti, perché a un certo punto ci sono anche due battute in francese, quindi le lingue parlate sono addirittura quattro (jenisch, svizzero tedesco, italiano e francese).
Quanto all’importanza del nomadismo, forse deriva dal fatto che fin da piccolo ho viaggiato molto. Il mio babbo lavorava come funzionario in una banca, per cui la nostra famiglia doveva cambiare spesso città, seguendolo nelle città delle varie sedi in cui veniva mandato. Insomma, è una cifra che evidentemente fa parte della mia “identità narrativa” (ride).
In ogni caso, la prima impressione che ho avuto vedendo Lubo a Venezia è quella di un film inseguito e pensato a lungo.
È un film che ha conosciuto senza dubbio una lunga elaborazione, anche dal punto di vista produttivo. Un tempo che però è stato molto utile per capire che cosa mi interessava davvero del romanzo di Cavatore. Rispetto al film ci sono alcune differenze – anzi, parecchie. Per dirne una, dei tre blocchi in cui è suddiviso il romanzo, la figura di Lubo è centrale soltanto nella prima: poi si passa a seguire i figli che lui “dissemina” in tutta la Svizzera – da cui il titolo, Il seminatore. A me invece interessava proprio la vicenda di quest’uomo che, di punto in bianco, rimane incastrato in qualcosa di più grande di lui. Una grande ingiustizia che lo priva di tutto: vita, identità, famiglia. E a tutto questo lui reagisce lottando, mentendo, uccidendo. Addirittura, accetta di vivere una vita che non è la sua, “rubando” a propria volta la vita di un altro. Certo, lo fa per scoprire che cosa ne è stato dei suoi figli, vittime del programma Kinder der Landstrasse; poi però il gioco gli prende la mano e la necessità di ritrovare se stesso ha il sopravvento.
“L’ipotesi di vivere la vita di un altro è una cosa che mi porto dietro fin dall’infanzia. Voglio dire che spesso da bambino mi domandavo: Ma se io fossi stato quello lì… ?”
Rispetto al romanzo, insomma, hai spostato l’attenzione sul problema dell’identità, di un io che a un certo punto, volontariamente o meno, si smarrisce. Un tema che ha comunque una lunga tradizione letteraria.
È vero, ma ti dirò che l’ipotesi di vivere la vita di un altro è una cosa che mi porto dietro fin dall’infanzia. Voglio dire che spesso da bambino mi domandavo: “Ma se io fossi stato quello lì…?”, oppure: “E se fossi nato altrove…?”. Fa parte delle fantasie personali di tanti, credo, non solo delle mie. Dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, poi, è un’ipotesi molto interessante, perché la maggior parte di noi ha un’identità alla quale è molto attaccato, ma al tempo stesso vorrebbe essere diverso.
Sottolineavo la componente letteraria solo perché ho trovato in Lubo una narrazione più classica, o semplicemente meno rapsodica rispetto a quella dei tuoi film precedenti…
Si trattava di fare i conti con una necessità puramente narrativa. Il film abbraccia un arco cronologico molto ampio, dallo scoppio della Seconda guerra mondiale agli anni Cinquanta. Raccontare venti, trent’anni di storia in un lungometraggio imponeva un codice più leggibile. È un problema che mi sono posto subito. Avevo pensato a un film che durasse sulle due ore e mezza: mi sono sbagliato di poco! (Ride). Devi anche pensare – e dirlo così sembra quasi fantascienza – che Lubo è stato girato nell’arco di nove settimane in un centinaio di location. Alcuni hanno trovato il film eccessivamente lungo, ma la maggior parte di chi l’ha visto mi ha detto di non aver avvertito più di tanto la durata.
In effetti, il ruolo del tempo è centrale nel film.
Se pensi a come tu, o io, siamo in questo momento, e poi ripensi a che cosa eravamo dieci anni fa, ti accorgi che eravamo un’altra cosa. E non parlo ovviamente soltanto dei cambiamenti fisici, ma anche della sensibilità, degli affetti, della fiducia negli altri… Ecco, a questo proposito mi sembra che la figura di Lubo, nel film, sia diversa rispetto a quella del romanzo. Lì è guidato soprattutto dal desiderio di vendetta: mi hanno tolto i figli e io mi vendico disseminando figli illegittimi nelle famiglie della buona borghesia svizzera. Nel film, invece, Lubo arriva davvero a credere che sia possibile vivere in armonia con gli altri, che si possa pensare e vivere una società migliore. E questo è più forte di ogni sentimento di odio o di vendetta. Tant’è che un certo punto dice: “Credo che la migliore educazione sia amare”.
Non a caso, hai aggiunto al personaggio un aspetto che non c’è nel romanzo: Lubo è un artista girovago, dunque un attore, qualcuno che, in un modo o nell’altro, sa come “sedurre” un pubblico, sa come farsi amare.
Anche questa è un’aggiunta nata da motivazioni puramente funzionali, perché dovevamo rendere plausibile la trasformazione di questo personaggio da reietto, braccato da tutti, a esponente di un mondo altoborghese. Però non volevo neanche dare troppe spiegazioni, perché preferisco che un’eventuale chiave di lettura passi soprattutto dalla sensibilità dello spettatore. Tant’è che anche in questo caso, nelle varie interviste che mi hanno fatto dopo la proiezione di Venezia, mi sono reso conto che ognuno interpretava le azioni di Lubo in maniera diversa, talvolta anche opposta, magari sulla base delle proprie esperienze. E tutte le interpretazioni mi sembravano valide: nel gioco del cinema mi piace che tutto sia chiaro ma al tempo stesso abbastanza sfumato, e che ogni spettatore ci metta un po’ del suo.
“Lubo arriva davvero a credere che sia possibile vivere in armonia con gli altri, che si possa pensare e vivere una società migliore. E questo è più forte di ogni sentimento di odio o di vendetta”.
A proposito di interpretazioni, mi piacerebbe spendere qualche parola sul tuo modo di lavorare con gli attori, soprattutto perché il tuo è da sempre un cinema di presenza corporee, anche eccessive, in un certo senso: lo era Elio Germano in Volevo nascondermi, lo è Franz Rogowski in questo film. Come sei arrivato a Rogowski, uno dei migliori attori europei in circolazione? Lo avevi in mente fin dall’inizio?
No, tutt’altro. La ricerca del protagonista di questo film è stata delicata (pausa). Molto delicata. All’inizio avevo anche provato con qualche attore italiano: poi uno era impegnato, un altro si è tirato indietro perché trovava la storia troppo “forte”… Finché, durante la pandemia, mi è capitato di fare una telefonata via Skype con Franz. Avevo già visto delle cose sue, ovviamente, ma in quell’occasione ho potuto vederlo in una dimensione di dialogo, che per me è fondamentale. In seguito, nelle chiacchiere che facevamo fra di noi preparando il film, Franz riusciva a trasmettermi ora uno sguardo molto inquieto, ora molto dolce, forse anche per via della barriera linguistica. Questi elementi mi sembravano importanti per definire la doppia identità del protagonista.
Il fatto che Franz avesse praticato a lungo giocoleria e danza acrobatica ci ha permesso inoltre di lavorare di più sulla sua dimensione di artista di strada, che, come tu stesso hai ricordato, è assente nel romanzo. Al resto ha pensato Franz, che è straordinario di suo. Si è dedicato al film con grandissima determinazione e sacrificio, e sono molto contento del risultato. Pensa alle prime scene a Zurigo, quando Lubo si è appena calato nei panni “borghesi”: guarda come Franz si approccia alla città, come si guarda intorno; e più avanti, al vernissage, il modo un po’ goffo con cui tenta di darsi un contegno togliendosi i guanti. È uno degli snodi fondamentali del film, e lui lo ha gestito benissimo.
Il film poggia molto sulle sue spalle, indubbiamente.
Sì, ma vorrei dire, se posso, che tutti gli interpreti sono stati straordinari, anche nei ruoli più piccoli. E soprattutto le attrici, da Noémi Besedes a Cecilia Steiner, a Valentina Bellé. Mi dispiace che molti colleghi – non tutti, per fortuna! – tendano un po’ a sorvolare sulla fase del casting, e che si fermino magari ai primi nomi del cinema italiano, o europeo. Col risultato che ci ritroviamo sempre con le stesse facce, e magari ci perdiamo la possibilità di scoprire dei gran talenti. Io sono maniacale nel lavoro di casting. Vedo tanti volti, tante persone, le incontro di persona, ci parlo, faccio lunghe prove con loro. In questo caso, poi, è stato importante anche chi è andato a cercare gli Jenisch, ha parlato con loro, li ha convinti a venire dalla Svizzera in Alto Adige, dove dovevamo svolgere delle riprese. C’è stato davvero un gran lavoro di gruppo.
Anche per questo film sei accreditato come co-montatore. Da dove viene questa necessità? Una maggiore adesione al materiale, oppure, al contrario, il bisogno di mantenere una distanza “critica”?
È una cosa istintiva. Prima ancora di mettermi a fare film, durante il periodo trascorso a Bassano del Grappa in quella fucina che è stata Ipotesi cinema, la “non-scuola” fondata da Ermanno Olmi, ho avuto l’opportunità di avvicinarmi al montaggio, che all’epoca stava conoscendo importanti trasformazioni tecnologiche con l’introduzione del sistema Avid. Lì ho capito veramente quanto la riscrittura del film attraverso il montaggio fosse un gioco divertentissimo e utile, perché ti permette di ribaltare le cose, di gestirle in modo diverso. Per me, il montaggio è uno dei momenti più belli della lavorazione di un film, forse perché mi piace l’idea di poter impastare nuovamente le cose per valorizzarle, per restituire loro quella fluidità che magari sembra esserci in fase di scrittura e che poi magari nel materiale girato non c’è più.
In generale il lavoro con Ipotesi cinema è stato fondamentale, e non solo per gli incontri professionali – lì ho conosciuto il montatore Paolo Cottignola, per esempio, col quale ho realizzato anche questo film. L’idea che Ermanno aveva avuto, e che io ho trovato sempre preziosa, era quella di voler creare un punto d’incontro, un luogo in cui le persone potessero parlare, confrontarsi sull’attualità, capire le urgenze, e poi, magari, far nascere delle storie. Lo sguardo di ognuno nasceva proprio da questo scambio non mediato, sotto il quale sentivi pulsare una verità.
Ecco, io non so se oggi questa ricchezza esista ancora. Che poi, se ci pensi, era una ricchezza che nasceva anche nei bar, nelle parrocchie, nelle Case del Popolo, nella scuola… era la ricchezza della socialità. Bisognerebbe ritrovare certe occasioni di ascolto, perché se un esordiente pensa di fare questo lavoro semplicemente scimmiottando gli altri, o seguendo il filone che va per la maggiore in quel momento, diventerà magari un bravo regista, ma sicuramente perde qualcosa, per lo meno in termini di soddisfazione personale.
Soprattutto, mi sembra che venga meno una certa attitudine pratica, artigianale del mestiere di regista, che per alcuni registi, come Olmi appunto, era molto importante.
Artigiano è una splendida parola, te la compro subito! (Ride) Potrei farti questo esempio: fino a quindici-venti anni fa c’era un rapporto con il cibo basato soprattutto sulla sensazione concreta della qualità e della bontà del cibo; mentre mi sembra che in questo momento spesso conti di più l’impiattamento, la confezione.
“Lo sguardo di ognuno nasceva proprio da questo scambio non mediato, sotto il quale sentivi pulsare una verità”.
Lo stesso vale per il cinema: un prodotto diventa vendibile in virtù di uno stile vagamente “nazionalpopolare”, di un certo tipo di storie, di certi attori di richiamo… Forse è un fenomeno fisiologico, determinato da un’esplosione dell’offerta audiovisiva attraverso lo streaming e le piattaforme; però mi sembra che a molti film contemporanei manchi una profondità di sguardo, un’identità forte, che invece in passato era più frequente. E non mi riferisco soltanto ai cosiddetti “autori”, ai Rossellini, ai Fellini; ma anche a un Sergio Leone: se penso alle sue storie, al suo senso dell’epica… chapeau! Il cinema – ma anche la società – dovrebbe valorizzare maggiormente la diversità, il coraggio.
Tu lo sai bene, perché con lo straordinario e inaspettato successo di Il vento fa il suo giro hai corso il rischio di rimanere prigioniero di un ruolo. Come hai fatto a smarcarti, a mantenere il più possibile salda la tua identità di cineasta?
Ogni storia, ogni film ha il suo percorso, e bisogna capire qual è il modo migliore per tutelare quel che si vuole raccontare e la sua qualità, anche se magari le condizioni cambiano. Il fatto di contribuire al budget con la mia società alla produzione [Aranciafilm, NdR] mi ha permesso un maggior controllo sui miei lavori.
A proposito del Vento, posso soltanto dirti che quel progetto è nato con grande spontaneità, seguendo però lo stesso approccio professionale che ho adottato in quest’ultimo film. La sola differenza, semmai, sta nel fatto che all’epoca il gruppo di lavoro era composto di giovani di buona volontà. Ma la condivisione, anche umana, rimane la stessa. Ho sempre pensato che il film debba essere un dialogo con lo spettatore, che vada a parlare alla sua sensibilità, alla sua mente. La grande scommessa del cinema contemporaneo dovrebbe essere quella di considerare il film come un’opportunità di incontro.
Questo contenuto è stato realizzato in collaborazione con 01 Distribution in occasione dell’uscita di “Lubo” di Giorgio Diritti. Presentato in concorso nell’ultima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il film racconta la storia di un artista di strada jenisch a cui vengono strappati via figli sullo sfondo della Seconda guerra mondiale. Il film è nelle sale dal 9 novembre.
Gabriele Gimmelli
Gabriele Gimmelli è ricercatore presso L’Università di Bergamo e redattore della rivista «Doppiozero». Il suo ultimo libro è Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema (Quodlibet, 2021)
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