Perché la comunità internazionale non riesce a fermare Israele? - Lucy
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Matteo De Giuli

Perché la comunità internazionale non riesce a fermare Israele?

16 Ottobre 2024

A Gaza e in Libano, Israele ha fatto registrare una quantità di crimini di guerra senza precedenti, violando a più riprese il diritto internazionale. Ma una risposta forte delle istituzioni e degli Stati finora non c’è stata, nonostante le indicazioni delle corti internazionali. Un’intervista alla giurista Chantal Meloni.

La risposta militare israeliana agli attacchi di Hamas ha fatto registrare, in un anno, più di 43mila vittime palestinesi. Sono stime al ribasso. Il 90% della popolazione della Striscia di Gaza è sfollata. Oggi scarseggiano acqua, cibo e forniture mediche. 

Nove mesi fa, a gennaio, la Corte internazionale di giustizia, sollecitata dal Sudafrica, aveva giudicato plausibile che le azioni militari israeliane potessero configurare il crimine di genocidio. Quel giorno il bilancio dei morti contava 20mila cadaveri in meno.

In un tempo di guerra tanto feroce, è sufficiente una settimana come l’ultima per leggere di decine di nuovi attacchi, di civili bruciati vivi, di cui molti bambini, ospedali colpiti, case saccheggiate, altri palazzi in quartieri residenziali ridotti in maceria.

Nel frattempo i combattimenti sono arrivati anche in Libano. Qualche giorno fa Israele ha chiesto all’ONU di ritirare le proprie forze militari di interposizione dal sud del Paese per non disturbare le operazioni contro Hezbollah. 

Secondo alcune organizzazioni israeliane per i diritti umani, il governo di Netanyahu punta ora all’assedio totale del nord di Gaza. Ovvero a piegare alla fame la popolazione rimasta. Non c’è più nulla che non possa essere pensato.

Chantal Meloni è giurista, docente di diritto ed esperta di diritto penale internazionale. Ha appena pubblicato, con il Mulino, Giustizia universale? Tra gli Stati e la Corte penale internazionale: bilancio di una promessa. Nel libro – partendo da Gaza e dall’Ucraina ma ampliando poi molto il ragionamento – si interroga sulla possibilità di una giustizia universale, capace cioè “di porre fine all’impunità degli autori dei più gravi crimini internazionali, quali genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressioni”. Ci siamo rivolti a lei, per capire qualcosa di più di quello che ci può aspettare nei prossimi mesi.

Da più di un anno in Medio Oriente il diritto internazionale viene deliberatamente, ogni giorno, violato, senza che la comunità internazionale intervenga concretamente. Si può dire che il diritto internazionale ha fallito?

Quello che abbiamo di fronte ai nostri occhi da ormai un anno a questa parte è un quadro di una gravità estrema. E la situazione non solo non sta migliorando, ma nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, è ulteriormente peggiorata, anche a causa dell’allargamento del fronte di guerra. Purtroppo va anche detto che quello che è avvenuto nei passati dodici mesi non è una sorpresa, nel senso che le avvisaglie, le intenzioni del governo israeliano e poi dell’esercito, erano molto chiare, ed erano state espresse nitidamente da ministri e militari già nei primi giorni dopo gli attacchi del 7 ottobre nel sud di Israele. Chi avesse voluto porre un freno a questa risposta che si è rivelata totalmente sproporzionata per l’impatto sulla popolazione civile – prima palestinese e adesso anche libanese – avrebbe avuto i motivi per farlo già un anno fa.

Si potevano già allora prendere dei provvedimenti concreti che certamente avrebbero messo Israele in una posizione diversa. E invece, dopo gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre – attacchi che restano efferati, di una gravità senza precedenti, e che hanno colpito migliaia di civili israeliani – i governi occidentali hanno sostanzialmente deciso di dare supporto incondizionato, nelle dichiarazioni, ma anche nei fatti, a Israele. Esportando, per di più, una sempre maggiore quantità di armi verso il Paese. La curva degli export nei mesi di ottobre e novembre 2023 ha subito un’impennata decisa, impressionante. E sono chiaramente queste armi, in particolare quelle degli Stati Uniti, e in generale gli aiuti militari forniti, che hanno permesso, e stanno continuando a permettere, di combattere la guerra con le modalità che vediamo. 

Dal punto di vista del diritto la situazione è disastrosa, sì. Il diritto internazionale umanitario, che è il corpo del diritto che regola i conflitti armati, e che quindi contiene le regole della guerra, per così dire, è stato violato in modo grave e ripetuto: sono stati registrati una quantità di crimini di guerra, in questi mesi, senza precedenti nei conflitti moderni. 

E stiamo parlando di crimini gravissimi, oltre che molto estesi. Prendiamo le cose che elencava lei prima: la quantità deliberatamente alta di civili morti e di feriti gravi, il fatto che il novanta percento della popolazione di Gaza, due milioni e quattrocentomila persone, sia stata sfollata e non abbia più un posto dove andare, non abbia accesso al cibo, il fatto che manchi tutto, dall’acqua alle cure mediche, e che tutti gli aiuti umanitari siano stati bloccati o comunque fortissimamente limitati… queste sono tutte tecniche di guerra. Tecniche medioevali, qualcosa che non avremmo più dovuto vedere, e che sono chiaramente vietate da tutti gli strumenti internazionali. Ma nonostante questo, la reazione delle istituzioni non è stata sufficientemente forte. 

Mi chiedo, non essendo un esperto, se sia solo mancanza di volontà – oltre che una questione di interessi politici ed economici – o se esista anche un problema di inadeguatezza delle norme esistenti, della struttura stessa dell’ordinamento internazionale.

Diciamo che le regole ci sono, e sono anche molto stringenti. Pensiamo alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio del 1948: è la convenzione che è stata invocata dal Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia qualche mese fa, contro Israele. E infatti la Corte internazionale di giustizia – la massima autorità giudiziaria dell’ONU che ha competenza a giudicare sulle responsabilità degli Stati – ha ritenuto che il caso presentato dal Sudafrica fosse plausibile e ha emesso alcuni ordini di misure cautelari urgenti.

Detto questo, molte regole sono state scritte in un contesto e in un mondo diverso. Come per esempio le quattro convenzioni di Ginevra che regolano il diritto armato, scritte dopo la Seconda guerra mondiale, in un periodo storico in cui i conflitti armati internazionali erano molto differenti da quelli che sono diventati oggi. La quarta Convenzione di Ginevra, per esempio, regola l’occupazione militare come una situazione di fatto, e che quindi di per sé non è né lecita né illecita. Ma mai gli estensori delle convenzioni, nel ‘49, avrebbero immaginato che un’occupazione militare di un territorio potesse protrarsi per oltre cinquant’anni, come è il caso, invece, dell’occupazione militare del territorio palestinese da parte di Israele che va avanti ininterrottamente dal 1967.

“Dal punto di vista del diritto la situazione è disastrosa, sì. Il diritto internazionale umanitario, che è il corpo del diritto che regola i conflitti armati, e che quindi contiene le regole della guerra, per così dire, è stato violato in modo grave e ripetuto”.

Le regole ci sono, quindi. 

Chiaramente hanno bisogno di un’interpretazione, e anche di un adeguamento. In questo senso una pietra miliare è stata posta il 19 luglio scorso quando – in un parere consultivo che non atteneva quindi al caso portato dal Sudafrica – la Corte internazionale di giustizia ha affermato che l’occupazione militare in sé, nonché le politiche e le pratiche adottate da Israele nei territori palestinesi occupati di Cisgiordania, Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza, violano il diritto internazionale e devono cessare il più rapidamente possibile. Testualmente: il più rapidamente possibile

Ora è chiaro che la Corte, e questo è un problema generale delle corti di diritto, non è dotata di una sua polizia. Le corti non hanno quindi possibilità di porre direttamente delle misure. Questo, nel caso della Corte internazionale di giustizia, deve avvenire attraverso risoluzioni dell’ONU, e quindi attraverso meccanismi che sarà compito dell’ONU, e dei singoli Stati che ne fanno parte, eseguire. E già a settembre c’è stata una prima risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU che obbliga gli Stati entro un anno a prendere delle misure perché questa occupazione illegale cessi. 

Qui mi sembra che siamo di fronte a uno degli stalli più lampanti: cioè il problema della mancanza di potere coercitivo, esecutivo o punitivo. L’impressione è che i lavori delle istituzioni internazionali, ispirate da principi nobilissimi, portino a sentenze e risoluzioni che, per quanto nette, rischiano di essere inefficaci, impalpabili, puramente teoriche. E che per gli stati sotto accusa  – Israele oggi come altri nel passato – diventi spesso troppo facile voltare le spalle alla comunità internazionale.

Diciamo che, oltre al piano della Corte internazionale di giustizia di cui abbiamo parlato fin qui, e che giudica sugli Stati, e che quindi ha poi bisogno effettivamente di un meccanismo di esecuzione a livello politico e a livello internazionale, c’è anche un altro piano. Ed è quello della Corte penale internazionale, che è un organismo giudiziario con sede all’Aia, ma che è da tenere nettamente distinta dalla Corte internazionale di giustizia.

In primo luogo perché non è un organo dell’ONU: è una corte indipendente che è stata istituita mediante un trattato internazionale, lo Statuto di Roma, del ‘98, e che quindi ha validità rispetto agli Stati che hanno ratificato questo trattato. Sono centoventiquattro in questo momento. Il trattato prevede anche una possibilità di estensione della sua giurisdizione nei confronti di crimini commessi da cittadini di Stati che non sono parte dello Statuto. E questo è il caso di alcune indagini che si sono aperte nel 2021 e che riguardano la situazione in Palestina, per possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi da gruppi armati palestinesi e dall’esercito e dal governo isrealiano. Ecco, effettivamente per ora non abbiamo visto dei passi avanti concreti, in queste indagini.

C’è stata la richiesta dei mandati di arresto avanzata dal procuratore Khan il 20 maggio 2024 nei confronti di tre leader politici militari di Hamas e del Primo ministro israeliano e del ministro della Difesa israeliano. Ma i giudici della Camera preliminare non si sono ancora espressi, quindi questi mandati di arresto non sono stati ancora emessi. 

Se e quando saranno emessi, resterebbe comunque il problema dell’esecuzione di questi mandati. 

Il primo passo fondamentale, però, è che la Corte decida e che lo faccia auspicabilmente in tempi rapidi, perché siamo già a quasi cinque mesi dalla richiesta del procuratore. Dopodiché ci preoccuperemo della loro esecuzione, e qua possiamo immaginare chiaramente tutti gli ostacoli. È già partito il dibattito, peraltro molto sbilanciato e politicizzato a livello internazionale: è possibile o non è possibile arrestare Netanyahu dal punto di vista del diritto? Certo che è possibile. Un capo di Stato in carica, in base alle regole contenute nello statuto della Corte penale internazionale, può essere arrestato, anzi deve essere arrestato da tutti gli Stati che fanno parte dello della Corte – ripeto, sono centoventiquattro, fra cui tutti i Paesi europei.

Chiaro, poi non siamo ingenui e abbiamo già visto come sono andate le cose in passato, nel caso per esempio di Omar al-Bashir, l’ex presidente sudanese che, nonostante fosse oggetto di ben due mandati d’arresto emessi anche per genocidio, non è mai stato consegnato alla Corte internazionale. E più di recente nei confronti di Vladimir Putin, su cui pende anche lì un mandato d’arresto emesso nel 2023 per crimini di guerra, e che sarà molto difficile da eseguire. Di recente Putin si è recato in Mongolia, che probabilmente è il più piccolo stato membro della Corte penale internazionale, e lo ha fatto come un test di forza per mostrare che poteva recarsi lì senza problemi, a dispetto del mandato d’arresto emesso dalla Corte. Ma ha scelto un paese molto piccolo, e totalmente dipendente dalla Russia. Il discorso sarebbe molto diverso se Putin si recasse in un Paese europeo. Da un punto di vista giuridico è molto chiaro l’obbligo di arrestare un presidente, anche se in carica, in caso sia oggetto di un mandato d’arresto vincolante.

Nel caso di Israele e Palestina, mi sembra che si aggiungano altre contraddizioni e complessità inevitabili. Per esempio: anche se le dichiarazioni dei ministri israeliani sono sempre più scellerate e senza vergogna, il governo continua a parlare di “legittima difesa”, mutuando così proprio un termine del diritto internazionale. Dall’altra parte, invece, c’è Hamas che non è uno Stato, è un’organizzazione armata che ha compiuto atti terroristici. Uno sbilanciamento irrisolvibile, se l’obiettivo della comunità internazionale deve essere quello di regolare il comportamento tra Stati. Alcuni aggiungono anche: al di là di Hamas, tutto lo Stato palestinese è un’istituzione esile, frammentata, inaffidabile, che praticamente non esiste.

Questa è una cosa che in effetti viene ripetuta spesso, ma che dal punto di vista giuridico non è corretta, nel senso che lo Stato di Palestina è uno stato che è riconosciuto da altri centoquaranta Stati, circa: oltre due terzi degli Stati al mondo, cioè, riconoscono lo Stato di Palestina. Lo Stato di Palestina è sottoscrittore di tutti i trattati internazionali più importanti, comprese le convenzioni di Ginevra, compresi i trattati sui diritti umani, compreso lo statuto della Corte penale internazionale. Lo Stato di Palestina fa parte della Corte penale internazionale dal 2015. Quindi dire che lo Stato di Palestina non esiste è sbagliato. Ci sono dei governi, come il governo italiano, che non lo riconoscono, e che quindi non hanno relazioni bilaterali con esso. Ma persino di fronte all’ONU, all’assemblea generale dell’ONU, la Palestina è uno Stato: è uno Stato osservatore, quindi non membro, ma è uno Stato. Dal 2012, non è più solamente il movimento di liberazione palestinese, l’OLP, a sedere all’Onu ma lo Stato di Palestina.

La questione del riconoscimento è molto complessa, comunque, è una delle più complesse nel diritto internazionale pubblico. È evidente che trovandosi il territorio palestinese dal 1967 sotto un’occupazione militare da parte di una potenza occupante, che è Israele, quel territorio ha una sovranità limitata così come è limitata la possibilità di esercitare i diritti fondamentali che sono inerenti al popolo palestinese. In primo luogo il diritto all’autodeterminazione. Ma questo non può tradursi in una situazione kafkiana per cui, dato che c’è un’occupazione militare illegale, allora vengono disconosciuti i diritti del popolo occupato. Questo andrebbe a contraddire l’architrave del diritto internazionale.

Detto questo, è chiaro che la situazione interna in Palestina presenta più di un problema, dal punto di vista politico prima ancora che giuridico. È un problema la divisione tra Cisgiordania e Gerusalemme est, e l’enorme disconnessione rispetto all’altra parte del territorio palestinese occupato che è la Striscia di Gaza, che è stata di fatto creata, attorno alla antica cittá di Gaza, nel ’48 dai rifugiati palestinesi espulsi dalle loro abitazioni nei villaggi divenuti il nuovo Stato di Israele. Dal 1967, pur essendo entrambe occupate militarmente, la Cisgiordania e Gaza hanno progressivamente subito un destino diverso, da una parte le colonie e il controllo militare diretto di Israele e dall’altra un controllo effettivo con modalità pervasive anche se dal 2007 imposte solo dall’esterno. Chiaramente che Hamas, a Gaza, abbia preso il potere in modo violento, a seguito del disconoscimento della sua vittoria alle elezioni del 2006, è anche questa una situazione estremamente problematica. Da allora abbiamo un governo “de facto”, Hamas, a Gaza, ed uno riconosciuto dalla comunità internazionale come legittimo, con Abbas e Fatah, in Cisgiordania. Ma i problemi politici interni, derivanti chiaramente in gran parte dalla situazione di occupazione e soggiogamento dei palestinesi da parte di Israele, non valgono a cancellare il fatto che esista qualcosa chiamato “Stato di Palestina”. In molti altri Paesi succede che ci siano dei territori che sono sotto il controllo di una fazione, o di un gruppo armato, che ci siano delle divisioni interne o anche dei governi paralleli. 

Osservando come si è mossa la comunità internazionale in questi ultimi due anni, credo ci siano due crepe evidenti a tutti. La prima è la differenza di approccio, radicale, che molti Paesi occidentali hanno mostrato nel caso di Gaza e nel caso dell’Ucraina. Contro la Russia ci si è immediatamente mossi (embarghi, sanzioni, cancellazione di accordi), contro Israele si è arrivati tiepidamente, e solo dopo mesi devastanti, a condannare la “reazione spropositata” – senza comunque, quasi mai, adottare misure concrete. L’altra faglia che mi pare ormai aperta è invece quella tra il cosiddetto Nord e il cosiddetto Sud del mondo, perché davanti al torpore occidentale sono stati i paesi post-coloniali come il Sudafrica e il Nicaragua a provare a difendere i diritti universali abbandonati dalle potenze che storicamente dicevano di incarnarli.

È così. A livello di comunità internazionale nel suo complesso e a livello di singoli Stati, la differente reazione che si è avuta davanti all’aggressione russa dell’Ucraina nel 2022 e davanti alla risposta israeliana agli attacchi del 7 ottobre, è netta. E questa differenza è già andata a minare le basi stesse del nostro ordinamento internazionale. Ha mostrato l’esistenza di doppi standard molto forti. Senza volermi addentrare sul perché di questa frattura, possiamo però prenderne atto. E possiamo dire allora che in virtù di questo sbilanciamento, oggi l’Occidente, il Nord del mondo, ne esce molto male. Ne esce malissimo poi l’Europa, che è storicamente un continente costruito sull’importanza della regola del diritto e sui principi inalienabili dei diritti umani. Ma l’Europa ha fatto mancare la sua voce di fronte a una situazione grave come quella in Palestina – dopo che invece tutti i paesi europei, in modo assolutamente compatto, avevano immediatamente, già alla fine di febbraio 2022, adottato delle misure concrete contro la Russia dopo l’aggressione all’Ucraina. I Paesi europei si erano rivolti, in quell’occasione, proprio alla Corte penale internazionale. Tutto questo è mancato con la guerra a Gaza. 

“È un problema la divisione tra Cisgiordania e Gerusalemme est, e l’enorme disconnessione rispetto all’altra parte del territorio palestinese occupato che è la Striscia di Gaza, che è stata di fatto creata, attorno alla antica cittá di Gaza, nel ’48”.

Non solo: ci sono state persino delle interferenze politiche dirette, negli ultimi anni. Cioè tentativi, da parte di Stati anche europei, di impedire che la Palestina accedesse alla Corte penale internazionale. E, come ben analizzato da altri giuristi, è stato proprio questo circolo vizioso di impunità concessa ad Israele che ha contribuito alla situazione in cui siamo oggi, che è una situazione catastrofica e, probabilmente, senza senza ritorno e senza via d’uscita.

Come lei ricordava, davanti alla Corte internazionale di giustizia abbiamo visto poi che l’iniziativa per fare valere quei principi che dovrebbero essere universali – come reprimere il crimine di genocidio, anche a livello preventivo –  è stata presa dal Sudafrica. E un’altra iniziativa è stata presa dal Nicaragua che ha chiesto che la Germania blocchi gli aiuti, soprattutto quelli militari, verso Tel Aviv, e che revochi la sospensione dei finanziamenti all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per per i rifugiati palestinesi, che come abbiamo visto, specie nell’ultimo anno, sono stati sotto violento attacco, anche fisico, da parte di Israele.

Sembra ormai esserci questa decisa spaccatura, insomma, fra l’Occidente e i cosiddetti Paesi del Sud del mondo, che si sono mostrati in questi anni più attenti ai diritti umani fondamentali e universali. Su questo terreno i Paesi europei stanno perdendo molto, in termini di legittimità. E questo è un peso enorme per l’affermazione del diritto internazionale.

Matteo De Giuli

Matteo De Giuli è caporedattore di Lucy. Scrittore e autore, ha lavorato per Rai3, Radio3, Il Tascabile Treccani. Ha scritto “Buoni a nulla” (Quanti, Einaudi, 2022) e, con Nicolò Porcelluzzi, “MEDUSA” (Not, NERO editions, 2021).

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