Giada Arena
09 Novembre 2023
Il successo, la malinconia, la solitudine e altre conseguenze della fama: il racconto sincero e dolente di una delle più grandi popstar italiane al mondo.
Tiziano Ferro, oltre a essere una delle popstar italiane più amate di sempre, sembra proprio una brava persona. Lo è nell’ampio sorriso con cui mi accoglie, nei modi gentili con cui risponde alle mie domande, nella sincerità con cui si addentra nei ricordi dolorosi. Parlando con lui, diventa chiara l’umanissima origine di quelle sue canzoni che, da più di vent’anni, sembrano riuscire a toccare nel profondo chiunque.
Ci incontriamo su Zoom in occasione dell’uscita di La felicità al principio, il suo primo romanzo edito da Mondadori, in cui, con altrettanta umanità, racconta la storia di Angelo Galassi, un noto cantante italiano che finge la propria morte per fuggire da una dimensione pubblica che complica ancora di più i suoi problemi con l’alcol, il cibo e le relazioni. Per dieci anni Galassi si nasconde tra i grattacieli di New York e tutto sembra andare secondo i piani – fino a quando non appare Sophia, che ha quattro anni, non parla e pare proprio essere sua figlia.
Non molto tempo fa, Ferro ha descritto il suo periodo più difficile così: “Alcolista, bulimico, gay, depresso, famoso. Pure questo, famoso, mi sembrava un difetto, forse il peggiore”. E allora si ha la sensazione che Angelo sia una sorta di ritratto di Dorian Gray, un alter ego a cui il suo autore fa esperire tutto ciò che avrebbe potuto distruggerlo.
Ti faccio una confessione: sei stato il primo artista che ho visto live nella mia vita. Avevo otto o nove anni, era il periodo di Rosso relativo e avevo costretto i miei nonni ad accompagnarmi ad assistere a una puntata di TRL [nota trasmissione di MTV, ndr] a Largo di Torre Argentina, a Roma.
È stato un periodo bellissimo. Rischiamo di sembrare due vecchi che ricordano i bei vecchi tempi, ma ricordo la gioia, il tripudio, la bellezza. Perché c’era tutto: c’era la musica, c’era MTV che era cool e poi c’era la gente vera. Oggi questa cosa un po’ manca.
Riesco ancora a ricordare i mattoni dei camerini, le entrate, il palco, le uscite piene di persone… Devi essere orgogliosa di esserci stata. E poi la musica fa bene ai bambini, penso che i tuoi nonni abbiano fatto una cosa bella.
Anche tu eri giovanissimo, avevi ventun’anni – e col tuo disco d’esordio hai venduto due milioni e mezzo di copie. Come hai vissuto l’esplosione di una fama così grande?
A quell’età ti uccide, perché non hai idea di chi sei. Io avevo preso un solo aereo in vita mia, per andare in gita scolastica a Praga, e tutto a un tratto mi sono ritrovato a prendere tre, quattro aerei al giorno.
In questo, il libro è abbastanza aderente alla realtà: Angelo, come me, è una persona che arriva alla fama dalla provincia più profonda, grazie a una passione per le canzoni che segue come una religione fin da ragazzino, quando sognava di cantare a La corrida di Corrado Mantoni o scriveva in cameretta… Il primo disco lo scrivi senza sapere, davvero, di aver scritto il primo disco.
La felicità al principio, in un certo senso, è sugli effetti collaterali di questa fama.
Sì, perché ci sono i fan ma anche gli hater, e quando hai vent’anni finisci per subire. Ricordo tutto il dolore provato quando, durante le interviste, mi chiedevano: “Sei gay? Sei gay? Sei gay?”. Io non avevo neanche mai sfiorato la capacità di guardarmi allo specchio, continuavano a martellarmi con questa domanda ed è stato orrendo.
La differenza tra me e Angelo è che lui fa vincere gli hater simulando la sua morte, come a dire: “Vabbè, mi avete ammazzato. Vaffanculo, muoio!” Io, invece, mi sono preso del tempo, sono andato in analisi, ho iniziato a guardarmi dentro. Sono sparito per tre anni tra Alla mia età e L’amore è una cosa semplice, per un giovane cantante sono un’eternità ma in quel momento ne sentivo un gran bisogno – e infatti nel 2010 ho fatto coming out, perché finalmente ero arrivato a una conclusione.
Il romanzo sembra un po’ un grande what if della tua stessa storia, un cosa sarebbe successo se avessi lasciato vincere i tuoi demoni. Ti senti un sopravvissuto?
È vero, la storia raccontata nel libro è una sliding door della mia vita, ma non mi sento un sopravvissuto. Col cavolo, io ho preso il bazooka, ho iniziato a sparare e ancora oggi pago le conseguenze della mia onestà. Avrei potuto mentire, dire di non essere gay e mettermi accanto una finta compagna, come fa l’ex fidanzato di Angelo e come succede spesso – perché non si dice, si fa ma non si dice. Ho capito che, se ti esponi, è normale essere odiato; io preferisco che venga odiata una versione reale, non posticcia, di me stesso.
In effetti, nel libro racconti con onestà i problemi di Angelo con l’alcol, il cibo e il proprio orientamento sessuale ed è facile cogliere un parallelismo con difficoltà che tu stesso hai superato – e di cui non hai mai fatto segreto. Durante la stesura, ti sei tutelato in qualche modo dal rivivere esperienze traumatiche?
Eh, come si fa a tutelarsi? Purtroppo la scrittura è un processo di scorticamento dell’anima, come fai a proteggerti? È una cosa che non credo di aver mai fatto, non so come si faccia e, in fondo, non vorrei scoprirlo.
Penso che questo approccio sia evidente anche nelle tue canzoni, forse è ciò che le rende così trasversali. Mi spiace che per te sia così doloroso, ma una parte di me spera che continui a scorticarti l’anima.
Nell’arte ti devi dare. Nella vita siamo obbligati a schermarci molto spesso, ma l’arte è quel campo libero nel quale puoi buttare delle secchiate di colori su una tavola bianca, puoi prendere a sassate delle cose senza far male a nessuno.
Ho l’impressione che dalle tue parole trapeli il lavoro che hai fatto su te stesso, il lungo percorso terapeutico che hai affrontato. È nei termini che scegli per raccontare le tue emozioni, nel modo in cui sembri accettare le tue fragilità. C’è qualcosa in cui ti senti ancora irrisolto?
Oddio, ce le hai sette ore?! Tesoro mio, pure tu ti ci metti… [ridiamo]
Con la storia di Angelo ho provato a dare un messaggio molto preciso, ossia: dato che la perfezione non esiste, cerca almeno il miglioramento. Se cerchi il miglioramento stai già migliorando, perché ti metti a disposizione.
Sono nel mezzo di un divorzio, quindi, per esempio, sto facendo fatica a gestire la paura, la sconfitta, la sensazione di aver fallito. Ma è normale, me lo dicono tutti – me lo dicono gli amici, me lo dice la mia psicologa. La verità è che ci devi passare attraverso, è come un lutto: non sono ancora nella fase dell’accettazione, ma ho fiducia. Ammetto di essere ancora un po’ nel panico, ma so che andrà bene.
“Nell’arte ti devi dare. Nella vita siamo obbligati a schermarci molto spesso, ma l’arte è quel campo libero nel quale puoi buttare delle secchiate di colori su una tavola bianca”.
Dicevi che l’amore è una cosa semplice: per te è ancora così?
L’amore è una cosa semplice, siamo noi a complicarlo. Ovviamente oggi non sono granché felice, ma non ho smesso di credere all’amore, anzi, l’amore mi ha dimostrato di essere un qualcosa che segue delle dinamiche molto semplici: inizia, esiste, si trasforma e puntualmente finisce. Siamo noi a non voler vedere che è finito, restando in una situazione tossica che crea repressione, rabbia, risentimento. Ecco, questo è il nostro modo di rendere l’amore non semplice.
Stai affrontando il tuo divorzio negli Stati Uniti, il paese dove, come Angelo, da molti anni ti sei – in un certo senso – rifugiato e dove stai crescendo i tuoi figli. Cosa ha aggiunto la tua esperienza da expat nell’esilio del protagonista?
Sia io che Angelo non abbiamo scelto gli Stati Uniti, ci siamo ritrovati qui e siamo rimasti perché non potevamo andare altrove, quindi condividiamo una sensazione di inappartenenza.
Lui si ritrova morto sulla carta a New York, perché viene emesso per errore un certificato di morte mentre è lì per cantare alla Festa di San Gennaro, a Little Italy; io venivo spesso in California a registrare i miei dischi e non avevo intenzione di trasferirmi, ma poi è arrivato l’amore e ho deciso di darmi una possibilità. Non avevo una relazione da anni e volevo prendermi cura della mia anima, mi sembrava la cosa giusta da fare. Oggi vivo a Los Angeles come se vivessi a, boh, Reggio Emilia: trascorro molto tempo a casa, i bambini sono sempre con me ed è una fatica incommensurabile… Sto qui, ma non sto qui.
E poi, in questo momento storico, i miei figli esistono negli Stati Uniti e non in Italia. La Costituzione dice che abbiamo tutti gli stessi diritti, ma i miei figli non ce li hanno. Victor [l’ex marito Victor Allen, ndr] ha tutto il diritto di venire riconosciuto come loro genitore e tutore, di andare a prenderli a scuola o accompagnarli in ospedale se necessario, ma in Italia questo non è permesso.
Mi dispiace molto quando mi dicono: “Facile fare il gay a Los Angeles!”. Non è facile, è tristissimo. Io non vorrei vivere da esiliato qui, lo faccio perché ho paura che i miei figli vengano maltrattati nel mio paese: ho questa opportunità e la utilizzo come farebbe qualunque padre – ma non è per niente facile.
“L’amore è una cosa semplice, siamo noi a complicarlo. Ovviamente oggi non sono granché felice, ma non ho smesso di credere all’amore”.
Come vivi le differenze culturali? Da europea mi turba, per esempio, osservare il rapporto che hanno col denaro o l’ossessione per il lavoro.
Ti dico la verità: non mi sento americano, sono sicuramente molto europeo. Ma non mi dispiace il rapporto degli statunitensi con il denaro, riescono ad abbattere tabù inutili. Hanno un bel modo di dire che è “put your money where your mouth is” [potremmo tradurre con il nostro ‘fatti, non parole’, ndr].
È vero che a volte i soldi vengono utilizzati come filtro sociale e i guadagni sono spesso ostentati per creare una gerarchia, ma credo sia anche positivo che se ne parli con tanta trasparenza. Per esempio, non c’è imbarazzo nel chiedere supporto economico agli amici in un momento di merda: da noi non succede.
Ti riporto in Italia con un aneddoto un po’ buffo. Ho saputo che ti avrei intervistato mentre ascoltavo una puntata del podcast Tintoria con ospite Martufello, che è un tuo conterraneo. Questo ha ispirato la domanda che sto per farti, ossia: qual è il tuo rapporto col nazionalpopolare, col trash da provincia italiana, con tutto ciò che oggi, in apparenza, sembra così lontano da te?
Me lo porto dietro come un bagaglio. Se mi chiedi qual è il film più bello che abbia mai visto, io ti rispondo American Beauty, ma ti dico anche che è un crimine non aver mai visto tutta la filmografia di Renato Pozzetto.
Questo è anche in una scena del libro, quando Angelo cerca di provocare delle reazioni nella bimba con delle canzoni e le fa ascoltare di tutto, da Stevie Wonder alla sigla di Kiss Me Licia.
Tu vuò fà l’americano? Ma anche no.
A proposito di canzoni, mi piacerebbe parlare un po’ anche della tua musica. In questi giorni, ho riascoltato il tuo primo disco e mi sono resa conto di quanto fosse all’avanguardia dal punto di vista musicale per la scena italiana dell’epoca: oggi riesco a riconoscere un mix di R&B e pop che ricorda le produzioni di Timbaland o i successi di mostri sacri come Lauryn Hill e D’Angelo, sonorità che – per intenderci – Justin Timberlake avrebbe adottato per il suo esordio da solista solo l’anno successivo. Forse è stato questo a renderlo così dirompente?
Visto che sono passati più di vent’anni, posso dirlo: Rosso Relativo fu dirompente non soltanto per la scena italiana, ma anche per quella europea – ma è stato anche il motivo per cui non sono riuscito a firmare con una casa discografica per un paio d’anni. Andavo in giro con quelle canzoni dal 1999, proprio quelle eh, e mi dicevano: “Bello l’R&B, ho tutti i dischi, figurati… Ma in Italia non funziona.”
A me piaceva quella musica, quindi scrivevo così, d’istinto.
All’epoca ero in un coro gospel e la direttrice era Joy Malcolm, una delle cantanti degli Incognito che viveva a Latina perché si era innamorata del nostro tastierista. Lei mi aveva preso sotto la sua ala: andavo a casa sua, facevamo lezione di canto e poi mi faceva ascoltare gli artisti che le piacevano, così finivo per spendere tutti i miei soldi in dischi di Babyface, D’Angelo, delle Destiny’s Child…
E che impatto ha avuto sul tuo stile l’esperienza da corista con i Sottotono?
I Sottotono mi hanno dato una bella spinta verso l’alto: mi hanno preso come corista proprio perché avevo quello stile e ascoltavo quella musica. Ricordo quando iniziai a parlare con Big Fish, mi chiese “che musica ti piace?” e iniziai a sparagli Maxwell, Timbaland, tutti quegli artisti lì. Lui rimase scioccato, perché ero un ragazzo di diciotto anni di Latina, non di Zurigo.
Vedi, anche quando non avevo gli strumenti, avevo un senso di insolenza nei confronti della musica che nessuno mi poteva toccare.
È chiaro che tu sia un grandissimo amante della musica tout court, è una cosa che si nota, per esempio, nelle tue collaborazioni. La varietà di artisti con cui hai collaborato nella tua carriera è impressionante: da Battiato a Thasup, da Ed Sheeran a Mary J. Blige, da Marracash ai Linea 77…
Sì, una follia. Una lista incoerente, che non ha davvero senso – ed è la cosa più bella. Nello stesso anno ho collaborato con Fiorella Mannoia e Kelly Rowland, perché questo sono io, a me le etichette fanno schifo.
Capisco che si debbano creare delle categorie per facilitare la ricerca di un artista, ma se fossi uscito in Francia sarei stato un artista R&B, in Italia sono pop, negli Stati Uniti latin pop. Ma che vuol dire? Questa cosa un po’ mi fa sorridere e un po’ mi irrita.
“Rosso Relativo fu dirompente non soltanto per la scena italiana, ma anche per quella europea – ma è stato anche il motivo per cui non sono riuscito a firmare con una casa discografica per un paio d’anni”.
C’è stata una collaborazione da cui ti sei sentito particolarmente arricchito, che ti ha fatto crescere in qualche modo?
Hai menzionato Franco Battiato e non posso che citare lui, perché è stato un artista generosissimo, che si è messo completamente a disposizione.
Avevamo scritto insieme la canzone, che si intitola Il tempo stesso, e gli ho chiesto di registrare una parte, in quel momento però era a Londra per frequentare un corso d’inglese e mi ha detto: “Se vuoi te la faccio dal telefono della camera dell’hotel”. Quando ascolti il pezzo, all’inizio c’è Franco che legge una frase: è lui al telefono da Londra. Sembra un filtro applicato in studio e invece no, era l’unico modo per registrare Battiato. Questo ti fa capire la generosità, la genialità… Tra l’altro, paradossalmente, in quella canzone io ho scritto il testo e lui la linea melodica, sembra il contrario.
Ecco, questo è il bello dei featuring, non sai mai cosa aspettarti. E lo stesso vale per la letteratura. Ora che ho scritto un romanzo, i miei amici mi chiedono: “Ma quindi ti ha aiutato qualcuno? Hai il ghost writer?” Ma che palle! Amo la libertà che mi dà il foglio bianco.
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Giada Arena è creative strategist e autrice di Lucy. Il suo podcast si chiama nuda e cruda.
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