Se l’opera si occupa di cambiamento climatico - Lucy sulla cultura
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Valerio Corzani

Se l’opera si occupa di cambiamento climatico

10 Ottobre 2025

"89 Seconds to Midnight”, che debutterà il 17 ottobre in prima assoluta al Teatro Farnese, mette in scena in modo sorprendente la precarietà della nostra permanenza sulla Terra. E lo fa a cominciare dal titolo, che allude ai pochi rintocchi che ci separano dall'ultima notte.

Chi arriverà al Teatro Regio di Parma troverà dapprima un suono. Per esaltare l’esperienza immersiva dell’opera, gli spettatori verranno accolti nello spazio della scena, da un sistema di ottofonia che li avvolgerà. Come se “89 Seconds to Midnight” iniziasse già dal sedersi, già dal fluire in platea degli spettatori, che per questo, in qualche modo, entreranno anche loro in scena. Si faranno perni della bolla acustica. Inizieranno il viaggio insieme agli interpreti. L’appuntamento è per il 17 ottobre alle 21, in prima assoluta: “89 Seconds to Midnight” è un’opera contemporanea in cui musica strumentale ed elettronica, canto lirico, teatro e danza si intrecciano per interrogare e illuminare due temi di grande attualità: il cambiamento climatico e il trattamento che la società riserva al pianeta terra e ai suoi abitanti più deboli o vulnerabili. “Il festival Verdi 2025 mette a confronto Verdi e Shakespeare – ci spiega Luciano Messi, Sovrintendente della Fondazione Teatro Regio di Parma -. Sia Verdi che Shakespeare nelle loro opere sono riusciti a descrivere un’umanità molto autentica senza sconti, senza ammiccamenti superficiali. “89 seconds” toccando, da un lato il tema dell’ecologia, dall’altro descrivendo una società che deve fare i conti con i suoi membri più fragili è perfettamente in tema con questa traiettoria poetica: cioè quella della nostra responsabilità nei confronti del mondo e il sogno di un’umanità condivisa”.

Un team produttivo composito, come è quasi sempre nel caso delle produzioni di “Gradus. Passaggi per il nuovo”, un progetto che ha l’obiettivo di favorire e stimolare un passaggio/scambio di saperi e di percorsi che sia d’impulso alla consapevolezza creativa delle nuove leve dello spettacolo dal vivo. A far da ombrello il Reggio Parma Festival, le due città socie, Parma e Reggio Emilia, e le tre Istituzioni teatrali che lo compongono, Fondazione Teatro Due, Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia. A far da stampella e trampolino invece le lezioni di una serie di “maestri/e”, che hanno offerto il proprio punto di vista sui temi più diversi, in un dialogo e uno scambio con i partecipanti, il gruppo di 32 artisti (per 14 progetti, di cui 6 stranieri e 8 italiani) selezionati a maggio con una call to action ha potuto lavorare sui propri progetti di spettacolo con un nuovo bagaglio. Questi progetti, così rivisti, sono stati sottoposti all’esame delle direzioni artistiche dei teatri che, nel mese di novembre, hanno individuato i quattro spettacoli che sono stati messi in scena nell’autunno del 2025.

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Da questa selezione è nata anche l’esperienza di “89 seconds…” e come dicevamo, in gioco c’è un team produttivo composito. Anche per questo spettacolo… 

Dietro le quinte: 

Composizione musicale: Maria Vincenza Cabizza

Libretto e regia: Lisa Capaccioli

Scene, costumi e contributi video: Francesca Sgariboldi

Coreografia: Daisy Ransom Phillips

Luci: Andrea Borelli

RIMM e sound design: Davide Bardi

Sul palco invece:

Madre: Maria Eleonora Caminada (soprano)

Figlio: Danilo Pastore (controtenore)

Strega 1: Daisy Ransom Phillips (danzatrice)

Strega 2: Marina Boselli (euphonium)

Strega 3: Fanny Meteier (tuba)

Il titolo rimanda al Doomsday Clock, l’orologio simbolico che misura la vicinanza dell’umanità all’apocalisse. Questo particolare tipo di orologio è un modulo di ricerca ideato nel 1947 dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago. Una sorta di orologio metaforico che misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è sottoposta. Nel gennaio scorso è stato aggiornato e portato da 90 a 89 secondi. Mai così vicino alla dead line definitiva. Giustappunto… 

Anche per questo qualche settimana fa, siamo andati a seguire con molta curiosità, le prove di quest’opera nel Ridotto del Teatro Ariosto, sempre a Parma. Volevamo tastare il polso ai temi dell’attualità filtrati dai moduli del teatro d’opera contemporaneo e volevamo soprattutto fotografare il teatro nel suo farsi. Che poi tutto il teatro è nel suo farsi, anche il teatro d’opera, anche il teatro danza. Le prove e le messe in scena non sono che la trasposizione in fieri di una struttura instabile che dovrebbe rimanere instabile. La sua instabilità è la sua forza, l’inaspettato che accade, il caso che entra in scena. La struttura è fissata – un prologo, quattro scene e un epilogo – alcuni gangli della trama ancora no.

“Dove va a morire?”, si chiede ad esempio la regista Lisa Capaccioli nelle prove. “Dobbiamo soprattutto decidere quello”. Una domanda che pareva già risolta. Perché i due protagonisti che “viaggiano” sul palco, in realtà stanno portando a termine un rituale, una tradizione della loro comunità: la madre, ormai troppo vecchia per essere un membro produttivo della società, verrà abbandonata sulla montagna più alta affinché muoia da sola. Dunque il dove è la vetta? Non lo sappiamo ancora, non lo sa ancora neppure la regista e autrice del libretto. Potrebbe anche essere un giaciglio nascosto. O un burrone. 

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Entrambi conoscono il vero scopo del loro viaggio, ma non ne parlano. L’ultima notte, poco prima di raggiungere la vetta, i due si fermano a riposare accanto a un albero secco. 

“Ora basta, voglio dormire” è l’esclamazione del figlio che chiude la seconda scena. Mentre il figlio dorme, la madre viene sorpresa da tre figure femminili dalle sembianze animalesche. Il loro linguaggio è enigmatico, eppure sanno esattamente dove la madre sta andando. Nel plot la quota dinamica è rappresentata proprio dalle streghe (le chiameremo streghe anche se in realtà scopriremo essere altro): due danzatrici musiciste, Marina Boselli (euphonium) e Fanny Meteier (tuba), più una danzatrice coreografa. Si muovono sulla scena “un po’ selvagge, con movimenti schizzati, inconcludenti”, rileva ancora la regista. “Ogni tanto si chiudono a guscio”, ma generalmente infastidiscono e ostacolano il deambulare di chi incontrano. Si intromettono. “Non si possono mica guardare negli occhi” rivela la madre al figlio, al suo risveglio. Le prove delle streghe, sono scandite da comandi in inglese perché Daisy Ransom Phillips, la coreografa, che è anche la terza strega in scena, è di Oakland, California e ha studiato a Berkeley, San Francisco, Londra. Porta in dote un corredo di collaborazioni prestigiose sia nelle vesti di danzatrice che di coreografa: col Ballet du Grand Théâtre de Genève, con l’Opera di Göteborg Danskompani in Svezia, con il Balletto Nazionale Norvegese, con la regista di teatro e opera Cecilia Ligorio…

È danza fluente e coordinata, ma sempre anticonvenzionale. Si aggrappa alla musica, al suono, al rumore. Ne cadenza le dinamiche, le svolte, perfino le incertezze…La colonna sonora è tutta “organica”, parafrasa l’albero che domina la scena. L’ha ideata Maria Vincenza Cabizza, compositrice sassarese, la cui musica è stata eseguita da formazioni prestigiose come l’Intercontemporain, il Divertimento e l’MDI Ensemble e commissionata da istituzioni prestigiose come il Teatro Litta di Milano, la Qingdao University Concert Hall in Cina, il Pontino Music Festival, ManiFeste Académie-IRCAM di Parigi, la Biennale Musica di Venezia…C’è molta elettronica in questo progetto, ma è tutta elettronica processata da suoni, rumori, matrici analogiche. Di questo, su indicazione della Cabizza si è occupato il sound designer Davide Bardi. Voci, rumori, onomatopee, canti, grida, borbottii del basso tuba, lunghe sequenze di un euphonium che diventa un temporale rombante, un vulcano in eruzione: tutto elaborato da avanzati software, tutto “strecciato” modulando in digitale il suono reale “scippato” in studio ai protagonisti dello spettacolo. Campionato per carpire la linfa timbrica. “L’idea era proprio quella di vampirizzare le timbriche dei due strumenti, soprattutto dei due ottoni, e di affidarle poi al make up delle macchine” – ci conferma la Cabizza – “d’altra parte – aggiunge – anche quello che si sentirà di elettronico nella colonna sonora dello spettacolo è completamente scritto. Non c’è margine per l’alea nel soundtrack di questo spartito”.

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Le streghe in scena suonano. Le loro voci, simili a gocce d’acqua, si intrecciano in un dialogo intimo e ossessivo. Accanto a loro, due ombre sono onnipresenti: l’euphonium e la tuba, che amplificano questa furia crescente dal basso, fino a dominare quasi completamente il paesaggio sonoro. Euphonium e basso tuba, di nuovo, con il loro profilo a vulcano, molto scenografico, una bocca aperta verso l’alto, un grido allucinato e minaccioso, ma anche un tonfo terrigno. Marina Boselli e Fanny Meteier. “La difficoltà maggiore per noi – ci dicono praticamente all’unisono – è stata senz’altro quella di memorizzare i movimenti, che sono tanti e raccontano questo deambulare con lo strumento in mano”. “Chiamarle streghe è però una semplificazione – aggiunge la regista e librettista Lisa Capaccioli – in realtà sono donne che vivono fuori dalla società, delle outsiders che a un certo punto si riveleranno semplicemente madri che si erano sottratte in precedenza alla fine cruenta che madre e figlio stanno per celebrare. Non si sa neppure bene se questi tre personaggi sono reali o proiezioni degli incubi della madre”. E poi ci sono le voci – quella del figlio, il contro tenore Danilo Pastore, e quella della madre, il soprano Maria Eleonora Caminada – che in fondo raccontano la storia e abitano il viaggio.

“È una madre che si porta dietro tutte le problematiche dell’essere madre – rivela il soprano – anche per questo credo che Maria Vincenza abbia deciso di sollecitare molto la mia versatilità timbrica. Mettendomi alla prova in un range di strati emozionali e canori diversificati: dal tono epico a quello selvaggio, dal canto lirico a quello di una vecchia nonna che intona una filastrocca o una frottola”.

La quota immobile, l’unico elemento concreto della scena è un albero, simbolo della vita, e della tradizione che resta attaccata al suolo, attraverso radici forti e solide, un albero  secco, piegato dal vento e dal passare del tempo che è comunque anche altro. “Per la scenografia abbiamo costruito un albero dai connotati simbolici, fatto di varie componenti – ci rivela Francesca Sgariboldi – all’inizio era un tronco che si avvolgeva su sé stesso. In realtà in qualche modo nella versione definitiva si allunga verso l’alto, non è bloccato nelle sue radici, ha un suo dinamismo, interrotto però anche da uno sfregio, da un taglio. Vita e morte insieme, percorso e frattura”. La scenografia vuole raccontare scenicamente lo spazio della desolazione in cui i personaggi si muovono. È uno spazio senza tempo, sospeso, che si riflette in una superficie che galleggia nel vuoto infinito. In questo scenario infatti la madre e suo figlio sono quasi giunti alla fine di un lungo viaggio. Il giovane porta sulle spalle l’anziana donna. Il figlio si muove con un abito-catafalco, fatto di stracci che occludono e coprono la vista della madre e i loro corpi sembrano uno solo: un animale bizzarro a due teste con quattro gambe. La coppia si trascina faticosamente, come in una specie di calvario su un golgota metafisico e apocalittico. Ogni tanto la madre spunta dal catafalco, come un ramo da un albero. L’unione sanguinea, familiare, atavica, rituale, viene così definitivamente celebrata, espletata anche coreograficamente. Si sa che la madre muore. Dunque un plot drammatico? Non proprio, non solo. Perché la morte vera, quando è annunciata, diventa la rappresentazione, diventa, appunto, rituale, dunque perde parte del suo spleen funereo, per acquisire teatralità, meta-significato, porzioni di poesia. 

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La madre urla, geme, si agita, ora recalcitra, ora resta esangue. “Avevo ragione su tutto!”, “Mi lasci andare adesso?”, “Io vado, tu resta!”, “Avrei preso quell’erba per morire prima!”… è uno strano commiato, insieme recalcitrante e desiderato, disperato e rassegnato. Del resto non è sempre così, quando si muore da vecchi? Il figlio ride, isterico, si agita anche lui, flette il tono e l’umore, si spende, si dispera. Non cede di un centimetro, anche se sembra di sì. Sa qual è il suo compito e lo ottempera…“In effetti il mio è un personaggio che segue le regole – conferma il controtenore Danilo Pastore – Per certi aspetti molto preciso, quasi maniacale, sotto altri aspetti potrei dire cieco, di una cecità speranzosa e ingenua. Questa dicotomia esplode nella quarta scena, dove le tensioni anche vocali deflagrano”. Sì perché nella trama c’è un colpo di scena: muore prima il figlio della madre…e questo stravolgimento, fortuito se vogliamo, scombussola tutti i connotati della storia, li travolge e ce li consegna destrutturati. Come se i suoni, le voci, le scenografie, le coreografie e le luci si ritrovassero a fare i conti col colpo di scena. “Questa scena ha un grande impatto drammatico – segnala ancora la regista – e anche scenografico a dire il vero. La morte del figlio avviene a metà della quarta scena, e quindi il corpo esanime rimarrà in scena per un bel pò, dopodiché c’è la morte della madre e infine c’è l’epilogo. Una composizione di corpi senza vita, che continua a raccontare una storia, anche se non può più parlare e non può più cantare”. Nel frattempo però quest’opera a diversi strati nel finale rivela il suo intento preciso, ovvero mette il tempo al centro della scansione di un tema nevralgico e ossessivo: l’eterna contrapposizione dinamica tra quel che si vuole e quel che si deve. È questo il frangiflutti dialettico che verrà appoggiato nello scenario imponente del Teatro Farnese di Parma, dove questo frammento di deserto di Atacama che è la scenografia apocalittica dello spettacolo, proverà a conquistare lo spazio di una meravigliosa arena barocca. Giocando ancora una volta con l’aura del contrasto e di un misterico gap. 

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Foto di Andrea Mazzoni.

Valerio Corzani

Valerio Corzani è presentatore, autore radiofonico e critico musicale. Voce di Radio 3, collabora con «Il Manifesto» e Bloogfoolk. 

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