Lucia Tozzi
"L’Albania produce più architettura di tutto il resto d’Europa” dice con orgoglio il suo primo ministro Edi Rama. Ma mentre affida la costruzione di palazzi cool e grattacieli ad archistar dall’approccio colonialista, gli abitanti vengono sgomberati o lasciano il Paese. Accadrà anche a Milano?
Il Luigi XVI di Mel Brooks, impersonato dallo stesso regista nella cornice dei giardini di Versailles alle soglie della Rivoluzione Francese, viene raffigurato mentre alza le gonne delle dame di corte o bullizza i cortigiani barando alla partita di scacchi viventi, e a misfatto compiuto, guarda in camera con aria furbetta commentando “è bello essere il re”, tutto soddisfatto del senso di impunità che il potere assoluto gli conferisce.
È così che immagino Edi Rama, ex artista, sindaco di Tirana e oggi primo ministro del Paese e a capo del partito socialista, sempre al potere dalla fine degli anni Novanta. Uno che il 16 maggio si è inginocchiato pubblicamente al cospetto di Giorgia Meloni, a suggello del lucroso patto sui migranti nel CPR di Gjadër, e il 6 giugno ha accolto in piazza Skanderbeg, a Tirana, centocinquanta tra i più prestigiosi architetti di tutto il mondo al Festival di Architettura Bread & Heart, disposti ad articolare qualsiasi eresia pur di ottenere incarichi e progetti in Albania, e a celebrarlo come il più colto e democratico dei leader mondiali. In effetti, nei video che documentano i due show (anzi tre, perché il 10 luglio si è di nuovo inginocchiato al cospetto del nostro presidente del consiglio, questa volta a Roma), lui guarda in camera, ma non trova purtroppo il coraggio di esplicitare il proprio godimento.
Vista notturna dello skyline di Tirana (foto di Lucia Tozzi)
In fondo, più che un uomo di teatro Rama è un artista, e preferisce esprimere i sentimenti in modo plastico. Tirana (e l’Albania tutta) è la sua tela, ed è lì, nella sua violenta trasformazione, che è possibile leggere le sue manie di grandezza. “L’Albania produce più architettura di tutto il resto d’Europa” ha orgogliosamente dichiarato all’opening del suo Festival, al centro di una sala ricoperta di tappeti, circondato dalla sua schiera di architetti. In poco più di due decenni è riuscito a fare piazza pulita di una tale quantità di regole urbanistiche da mettere in cantiere almeno 139 torri alte in media 26 piani (alcuni fino a 100) nella sola Tirana – una città di 536mila abitanti, meno popolosa di Genova.
“È un genio, è riuscito a fare di Tirana una Dubai europea” mi dice entusiasta il mio padrone di casa, orgoglioso della vista sul nuovo skyline turrito di Tirana. Ma Edi Rama è consapevole che il consenso interno conquistato grazie ai lussuosi palazzi suona male, malissimo negli ambienti della coolness internazionale. Dubai non è democratica, e non è green, è impresentabile come modello di progresso per un paese che sta per entrare in Europa nel “gruppo dei buoni”. E allora ha convocato la sua “Arch Army” [sic] per dettare il nuovo linguaggio.
Alejandro Aravena, noto per il suo sex appeal non meno che per i suoi progetti di housing sociale in Cile – e, non ultimo, per aver conquistato il Pritzker Price, il premio internazionale più ambito dagli architetti – tesse l’elogio della “street knowledge” albanese, la capacità di fare dal basso, di produrre città informale come in tutti i paesi non occidentali, “fuori dal centro dell’impero”. Mentre propone di ribaltare il paradigma formalista e regolatorio dell’urbanizzazione europea, Aravena è in procinto di tirare su il suo primo grattacielo in pieno centro, il Tirana Society Towers, una cosuccia modesta da 100 piani. Stefano Boeri, autore del piano Tirana 2030, una visione della città piena di alberi e “Foreste orbitali”, si spinge a dire che l’Albania deve imparare dagli errori dei “fratelli maggiori” europei e “dire no” alle pressioni del Real Estate, per salvare le coste ricche di biodiversità e la vegetazione urbana. Lui per ora si è limitato a costruire: un bosco verticale, un cubo d’oro dietro la villa del fu dittatore Enver Hoxha, un palazzo residenziale di lusso a pochi passi dal cubo, e, summa del greenwashing, il Tirana Riverside Project, un progetto che secondo Doriana Musai, urbanista e critica, “[…] sebbene sia stato presentato come esempio di “smart city” e iniziativa di recupero post-terremoto, è stato costruito in un’area non colpita dal terremoto ed imposto dall’alto, scollegato dalle esigenze del territorio. La comunità locale è stata sfollata con la forza tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 dalla polizia, con tanto di gas lacrimogeni. È un classico esempio di come la pianificazione delle emergenze e il design d’importazione possano essere usati per giustificare l’espulsione degli abitanti su larga scala e la trasformazione violenta dello spazio con il pretesto dell’innovazione”.
Il Bosco Vertical di Tirana (foto di Lucia Tozzi)
Tirana Society Towers
Dopo Boeri, i progettisti esibiscono uno dopo l’altro il proprio entusiasmo per la grande libertà di costruire senza piani e regole – ma con la raccomandazione di salvaguardare la qualità e il verde – come se la tutela potesse scaturire generosamente dalla bontà e dai sentimenti degli imprenditori. Questo imbarazzante show avviene nella cornice del Book Building, un palazzo di rara bruttezza a pianta pentagonale eretto a ridosso dell’antica moschea e della Torre dell’orologio di piazza Skanderbeg. La facciata è caratterizzata da un disegno talmente imbarazzante – delle specie di tendine in cemento – che persino i progettisti, i belgi 51N4E, evitano di mostrarla sul proprio sito, dove invece campeggiano la prima opera realizzata a Tirana, la TID Tower, e la riqualificazione di piazza Skanderbeg, una grande isola di calore.
Downtown One
Book Building
Il Book Building però non è niente in confronto alle prodezze edilizie di MVRDV, archistar olandesi: il Downtown One, una torre rettangolare con una serie di escrescenze cubiche in facciata che rappresentano la mappa pixelata dell’Albania e, soprattutto, lo Skanderbeg Building, una torre di 85 metri modellata in forma di busto dell’eroe nazionale da cui il palazzo prende il nome, dotata di balconi naso, balconi orecchie e balconi baffi. “Non deve piacere a tutti, io non progetto edifici per tutti i gusti”, ha detto Winy Maas di MVRDV nel corso di un dibattito. E nel testo di progetto c’è persino scritto che “Di questi tempi, le città del mondo si assomigliano sempre di più. Io le incoraggio a resistere a questa tendenza, a trovare il loro carattere individuale e a enfatizzarlo. Lo Skanderbeg Building è un’opportunità per farlo”.
Skanderbeg Building (foto di Lucia Tozzi)
È sempre bello incontrare persone così arroganti, rendono tutto più chiaro: dove altro si può leggere un’affermazione così impregnata di colonialismo? Il capo di un potentissimo studio ultraeuropeo – dutch fino al midollo: gli olandesi si sentono, anche per l’eredità di Rem Koolhaas, l’aristocrazia dell’architettura – invade un Paese con un ammasso di edifici giganteschi, variazioni di tre o quattro schemi megalomaniaci riconoscibilissimi, un po’ pop o un po’ brut, di cui ha disseminato il resto del mondo da Taiwan all’Ecuador, e pretende di fissare il carattere individuale dell’Albania in un’architettura iconica che fa impallidire la Cina dei primi anni duemila e i regimi autoritari di ogni epoca storica dagli Assiri in giù. In questo caso, un po’ come dire: voi albanesi siete una tribù di patetici nazionalisti, siatene fieri, ditevelo con orgoglio attraverso il mio internazionalissimo e autorevolissimo brand che trasforma ogni rospo in un principe cool, e prego, quella è la cassa. Da decenni gli architetti e designer olandesi pretendono di insegnare ai paesi del resto del mondo chi sono e come dovrebbero risolvere i loro problemi: da Singapore a Detroit, da Lagos a Tirana, con tanti carissimi progetti firmati da loro.
Ancora più rivelatore, anche se più ambiguo, è il progetto di riuso della Piramide (ispirata a quelle di Giza) un tempo destinata a celebrare Enver Hoxha, frutto tardivo del regime comunista e tipico simbolo della sua natura oppressiva: grigio MVRDV lo trasforma in un monumento al ludico e all’innovazione: lo rende attraversabile, scalabile, terrazzato (e fin qui tutto bene), e “cosparso” di parallelepipedi colorati che ospitano esercizi commerciali e le tipiche funzioni ibride manifesto dell’innovazione sociale e culturale all’europea: gallerie, incubatori, start-up, workshop, caffè. Certo, è più allegro di prima, ma di quell’allegria che non fa ridere, non fa godere, che ti fa sentire triste dentro perché non ti senti adeguato all’atmosfera gioiosa che ti circonda. E che, in fin dei conti, è falsa come tutte le allegrie imposte, come i cappellini a cono con l’elastico di capodanno, che ti inducono al pianto o ti spingono inesorabilmente verso la droga pesante.
I parallelepipedi colorati che ospitano attività commerciali e uffici attorno alla Piramide di Hoxha. Foto di: Lucia Tozzi
Piramide di Hoxha (foto di: Ossip van Duivenbode)
In questo caso la rozza ideologia è quella del soft power americano anni Ottanta contro il grigiume sovietico, quella famoso spot di Ridley Scott con cui Steve Jobs lanciò il Macintosh: una atleta colorata irrompe in un cinema popolato di automi sottomessi e in bianco e nero e lancia un martello contro lo schermo liberandoli prima che le forze dell’ordine la possano fermare. L’ultima immagine è il logo (qui arcobaleno) della famosa mela morsicata. Edi Rama, all’inizio della sua carriera di sindaco, conquistò le pagine di tutti i giornali internazionali dipingendo le facciate sovietiche “grigie” (in verità per lo più di mattoni) di mille colori. Ma se ai tempi funzionò con il lancio del Mac, e poi funzionò ancora vent’anni dopo con la Tirana pop, oggi le scatole colorate capitaliste hanno perso tutta la carica erotica emanata dalla lanciatrice di martello.
Il desiderio latita. Tirana, e l’Albania tutta, perdono abitanti: la popolazione totale ammonta oggi a poco più di due milioni e trecentomila abitanti (un terzo in meno del suo picco), e invecchia moltissimo perché i giovani continuano a fuggire all’estero in cerca di standard di vita migliori. Gli indicatori economici crescono, ma non abbastanza – o non abbastanza redistribuiti – da invertire i flussi. All’epoca dei palazzi colorati – ricordo personale del 2005, durante una Biennale d’Arte – le contraddizioni erano potenti, ma le strade del Blloku, il quartiere dove ora dominano sonnacchiosi caffè da brunch americano, ribollivano di ragazze così fiere da incutere timore. E persino in un film amatoriale del 1987, girato da Maria Pace Ottieri con suo fratello Alberto Ottieri, Jean Blanchaert e Rezzonica Castelbarco, quando la città era ancora lontana dalla sua fase arcobaleno, c’era più vita tra le case bassissime di quanto ce ne sia oggi coi turisti.
L’intellettuale Edi Rama, l’amico di Bifo, non può non percepire il lato deprimente della sua messinscena. E però, piuttosto che cambiare le sue politiche, continua postando video dei suoi abbracci coi potenti della Terra e gettando milioni di metri cubi di cemento, sempre più cari, sui giardini di cui la Tirana d’antan era ricca. Il parco intorno al lago a sud della città è assediato da cantieri presenti e futuri, perché i waterfront e la vista sul parco fanno salire, com’è noto, i valori immobiliari: e allora ecco ergersi palazzoni come Lake View, Grand Park View, Lake Diamond Tower, Tirana Rocks (questi ultimi ancora degli scatoloni gettati come pezzi di lego su un lembo di terra dai soliti MVRDV). E poi centri commerciali, hotel, un grattacielo di OODA fatto di casette ruotate in tutte le posizioni e sovrapposte (la Hora verticale), il grattacielo-montagna, case di lusso a 7000 euro al metro destinate a restare vuote, e naturalmente la metamorfosi degli stadi. Non era sufficiente avere trasformato il Qemal Stafa in un albergo e centro commerciale con torre, senza segni che rendano riconoscibile la funzione sportiva dall’esterno (l’Arena Kombetare di studio Archea): ora anche il Selman Stërmasi, in pieno centro come l’altro, sarà oggetto di una “rigenerazione” firmata da OMA che partorirà altri cinque mega edifici nelle vicinanze.
Arena Kombëtare (foto di Lucia Tozzi)
Lake View Residences
Nonostante le tenaci proteste di artisti e attivisti nei due anni che hanno preceduto il Covid, neppure lo storico Teatro Kombetar è stato risparmiato dalle ruspe, perché l’agenda immobiliare prevede al suo posto un altro giocattolone, il teatro ideato da Bjarke Ingels. Il caso è tra quelli che hanno avuto una maggiore risonanza internazionale, ma l’immensa capacità di cooptare intellettuali e professionisti del mondo culturale e di reprimere il dissenso mediatico ha salvato provvisoriamente Edi Rama dal discredito. A distanza di qualche anno, però, il sindaco di Tirana Veliaj, suo fedelissimo alleato, è stato arrestato in seguito a indagini per corruzione e riciclaggio di denaro attraverso un intricatissimo sistema di fondazioni, gallerie e altre associazioni no profit, come racconta su The Albanian Mechanism Vincent W.J. van Gerven OEI.
La trasformazione di Tirana è un processo turbolento che vale la pena osservare da vicino, perché potrebbe dirci moltissimo del nostro futuro, e l’attuale gigantesca vicenda delle inchieste urbanistiche milanesi ne è una dimostrazione plateale. La combinazione di autocrazia e progressismo colto incarnata dal narcisista Edi Rama fa gola ai nostri governanti, che sognano a occhi aperti di potersi muovere con la sua stessa libertà e autorità. La disinvoltura con cui può piegare le norme per favorire gli interessi dei gruppi immobiliari e imprenditoriali che lo supportano è un benchmark ai loro occhi, almeno fino a che sarà in grado di controllare la sua immagine nazionale e internazionale, corroborata dagli artisti e architetti che accorrono alla sua corte.
L’esito materiale di questa sua libertà di governare è l’asservimento delle persone e degli spazi: la città si verticalizza e cresce veloce, ma senza abitanti. Si svuota e si polarizza, perdendo ogni memoria di sé e la stessa capacità di suscitare desiderio. Assomiglia a un deserto, ma a colori.
“È l’incubo peggiore di chi lotta. Che ogni protesta e rivolta si traduca in un rafforzamento del regime al potere. Che ogni piccola vittoria contro la città del lusso finisca per ingigantire le dimensioni dei suoi grattacieli”.
Il film Annulloje Ligjn di Fabrizio Bellomo, del 2023, che indaga il rapporto tra arte pubblica, trasformazione urbana e rivolte, si conclude con un discorso di Edi Rama che racconta che nel corso di una manifestazione contro il suo governo, gli attivisti avevano travolto un grande fungo-scultura (coloratissimo) di Carsten Holler, distruggendolo. Nel comunicare a Holler che l’opera sarebbe stata ricostruita, questi ebbe “un’idea fantastica”: “Ricostruiamolo, ma ingrandito del 25%. Così chiunque lo tocchi, saprà che tornerà, ma più grande. Questo inibirà chi vuole danneggiare il fungo, ma se lo farà ugualmente, lo farà crescere”.
È l’incubo peggiore di chi lotta. Che ogni protesta e rivolta si traduca in un rafforzamento del regime al potere. Che ogni piccola vittoria contro la città del lusso finisca per ingigantire le dimensioni dei suoi grattacieli e potenziare il sistema vampiresco che l’alimenta. Edi Rama ha trovato bellissima l’idea Di Carsten Holler, e l’ha messa subito in pratica. Resta da vedere quanto a lungo, ancora, questo bullismo istituzionale e simbolico da dittatorello delle colonie porterà fortuna a lui e ai suoi emuli.
Lucia Tozzi
Lucia Tozzi è studiosa di politiche urbane e giornalista freelance. Il suo ultimo libro è L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio 2023).
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