Valerio Corzani
Tre squadre di giovani musicisti di fronte a una sorprendente sfida creativa: il racconto del “Derby Elettrico” al Reggio Parma Festival, tra gioco e rito, collaborazione e competizione, noise, jazz, melodie e flussi ambient.
Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre scorso al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia tra gli spettatori c’era solo qualche addetto ai lavori, oltre ai musicisti impegnati nella prova generale dello spettacolo. Fuori un freddo mastino, con la nebbia latente, incerta se calare o lasciar spazio alla pioggia e la città addobbata con rutilanti luminarie natalizie. Un enorme Babbo Natale dalle fattezze disneyane piazzato al centro di Piazza della Vittoria, animata da mercatini con felpe a due euro, profumi a tre euro, tre paia di calzini a quattro euro. Siamo davanti al Teatro Municipale Romolo Valli, a poche decine di metri da altri due Teatri, l’Ariosto e, appunto, il Cavallerizza. È in quest’ultimo spazio, il più votato alle temperie creative della contemporaneità, che era stato fissato il primo punto di approdo (il secondo sarebbe stato celebrato al Teatro Due di Parma due giorni dopo) di un progetto che aveva scelto di darsi un’insegna fascinosa: “Derby Elettrico”. Il giovedì era appunto il giorno della prova generale, momento topico di qualsiasi spettacolo in allestimento, ma di questo ancor di più, perché le variabili messe in gioco da questa iniziativa erano davvero tante, intricate e, per molti versi, avventurose.
Il Reggio Parma Festival – con i soci Fondazione I Teatri, Teatro Regio, Teatro Due e le città di Reggio Emilia e Parma – ha presentato “Derby Elettrico” all’interno del complesso di attività 2024-25 che vanno sotto la denominazione comune di “Arcipelaghi”. Sono attività diversificate come le isole di un arcipelago e hanno come asse portante la formazione e il sostegno produttivo di giovani artisti già in attività, nell’ambito della ricerca legata al teatro, alla musica e allo spettacolo del futuro. Lo specifico percorso di lavoro di “Derby Elettrico” è passato attraverso diverse fasi avviatesi la primavera scorsa: dopo il lancio di una call di partecipazione rivolto a musiciste e musicisti under 35, si sono tenuti i colloqui di selezione di quindici di essi, su oltre quaranta candidati. A tirare le fila di questa selezione l’ideatore Roberto Fabbi e tre musicisti nel ruolo di coordinatori/conduttori/direttori: Silvia Bolognesi, Francesco Giomi e Walter Prati. Ognuno di loro ha in seguito formato la propria squadra di cinque giovani performer, guidando – ciascuno indipendentemente – i tre workshop intensivi durante l’estate a Reggio Emilia e Parma. È solo ora, a dicembre, che l’imbuto di quel lavoro è stato chiamato a riportare sul palco gli umori e i succhi del primo training collettivo.
Ma insomma cos’è il “Derby Elettrico” e perché quest’insegna dalle esplicite reminiscenze sportive e dal sottotitolo che recita testualmente: “contesa sonora in forma di concerto”?
Innanzitutto tre squadre di giovani musicisti, indipendenti e compresenti in scena, in un equilibrio potenzialmente sempre in bilico fra competizione e collaborazione. Poi tre conduttori di differente formazione e storia artistica alla guida di ciascuna squadra – Bolognesi, Giomi e Prati – fra i più autorevoli sulla scena italiana e internazionale dell’improvvisazione elettro-acustica. Infine tre metodi di lavoro che ne rispecchiano le differenze: di approccio, stile, linguaggio, mood espressivo, modi di reciproco ascolto e di interazione. Una pratica, quella dell’improvvisazione elettroacustica, che in realtà è molte pratiche, un multiverso. “Un collettivo di collettivi, un gruppo di gruppi”, come li definisce Fabbi, che improvvisano con la massima libertà entro gabbie temporali di massima costrizione (uno schema che ricorda molto il John Cage di “Radio Music” con le sue indicazioni in bilico tra casualità e rigore). Un insolito format di concerto, concepito apposta per creare le condizioni praticabili della contesa. Ma attenzione trattasi di attività anti-agonistica. Un derby in cui nessuno vince, ma che si immagina avvincente. “Si immagina – aggiunge ancora Fabbi – perché in un’operazione come questa c’è anche una buona dose di rischio, d’imponderabile, di imprevisto e perché no, anche di fiasco latente, di possibile naufragio”.
Daniele Carcassi.
In un passo de “Il pensiero selvaggio” l’antropologo, etnologo e filosofo francese Lévi Strauss, nume ispirativo, come vedremo, di quest’avventura progettuale, ha stretto l’opposizione fra rito e gioco in una formula esemplare. Mentre il rito trasforma degli eventi in strutture, il gioco trasforma delle strutture in eventi. Il compito del rito è quello di comporre la contraddizione fra passato mitico e presente, annullando l’intervallo che li separa e riassorbendo tutti gli eventi nella struttura sincronica. Il gioco offre invece un’operazione simmetrica e opposta: tende a spezzare la connessione fra passato e presente e a risolvere e sbriciolare tutta la struttura in eventi. Se il rito è una macchina per trasformare diacronia in sincronia, il giocare (che badate bene in inglese si identifica con la stessa parola del suonare: “play”) è all’opposto una macchina per trasformare sincronia in diacronia. Il pareggio come risultato obbligato significa, spiega Lévi-Strauss, trattare il gioco come un rito. Il “Derby Elettrico” vorrebbe funzionare al contrario: un concerto che di per sé è un rito viene trattato come un gioco.
Lévi-Strauss approda nel 1962, all’espressione di “pensiero selvaggio”. Con questa locuzione egli descrive il funzionamento del pensiero allo stato grezzo, “naturale”, “selvaggio” in un certo senso, come quello che è possibile però osservare anche nelle società in cui si sviluppa un pensiero scientifico, e non per qualificare soltanto quella dei popoli detti selvaggi. È un modo di rapportarsi alla realtà che si trova anche in noi e si manifesta tutte le volte che la mente si ricongiunge alle cose, fa corpo con la natura. È una logica del concreto. Simile a quella dell’arte, della musica, della poesia. A questo scenario va ascritto anche il rito del pareggio, un fenomeno osservato da Claude Levi-Strauss nella comunità Gahuku-Gama della Nuova Guinea. La cultura Gahuku-Gama rimase isolata dal mondo occidentale fino al 1930, anno in cui entrò in contatto con i missionari che provenivano principalmente dall’Europa. Lévi-Strauss racconta che i missionari insegnarono agli indigeni a giocare a calcio. I Gahuku-Gama adattarono questa pratica sportiva ai propri valori e costumi. In modo sorprendente, si mostravano reticenti nell’accettare un gioco che prevedeva uno scontro tra avversari con il fine ultimo di prevalere sull’altro. Erano disposti a giocare persino per giorni affinché le due squadre pareggiassero. Per i Gahuku-Gama era inaccettabile che ci fosse un vincitore e, di conseguenza, un perdente. Entrambe le condizioni venivano considerate degradanti e andavano contro la stabilità del gruppo. Per questo motivo, decisero di portare il gioco del calcio a un altro livello, trasformandolo in un rito, il rito del pareggio.
A chi gli chiedeva cosa avrebbe portato con sé da una casa in fiamme, Jean Cocteau rispose: “il fuoco”…va forse inteso anche in questo senso il concetto di “pareggio” in Lévi-Strauss: non un afflato “democristiano”, non una poetica del compromesso, non un pavido elogio della mediocrità. Al contrario: proprio un perseguire la vertigine del gioco al punto da preferire il “fuoco” della passione ludica al suo esito finale. “Si l’idea del pareggio, mi convince appieno – ci dice Francesco Giomi in una pausa delle prove – In musica, in quella fatta bene almeno, non c’è mai un vincitore. E l’agonismo non serve a nulla, non è funzionale, si vince insieme, oppure si perde tutti. La vera vittoria è proprio il pareggio…”. Del resto – chiediamo – cosa vuol dire guidare un concept con tre ensemble che lasciano molto spazio all’improvvisazione? “È come una stanza con tre finestre, chi può dire quale finestra ha la vista migliore? Si tratta solo di un panorama diverso, una diversa visione”. Dalle finestre di questa stanza si vedono i tanti viali alberati di Reggio Emilia, una città eco friendly, con piste ciclabili da record, oasi climatiche, raccolta differenziata al top. Nel rapporto 2024 di Lega Ambiente sulle performance ambientali Reggio è prima in Italia, Parma terza. Anche gli indigeni della comunità Gahuku-Gama, per i quali il concetto di armonia coincide con quello di sostenibilità, sarebbero orgogliosi di questi risultati. Sembra l’ambiente giusto per una visione etica degli spazi, anche di quelli creativi. E infatti è qui che si sono consumati la due giorni di prove e i concerti di debutto del “Derby elettrico”. Tra il Teatro Cavallerizza di Reggio e il Teatro Due di Parma.
A questo punto – visto che di disfida si trattava, sia pure non cruenta – sarebbe il caso di elencare le formazioni. Prima di tutto però è giusto segnalare le insegne che si sono date le tre squadre: “Input Meraviglia” quella di Walter Prati, con un accento esplicito all’utopia creativa; “Pepèn” quella di Francesco Giomi, con un riferimento molto più terra terra ad una fenomenale paninoteca di Parma (“Pepèn” sta per Peppino in dialetto) frequentata dal combo durante il workshop estivo; “Böyáde” quella di Silvia Bolognesi con un sentimentale ricordo dei trascorsi livornesi della contrabbassista/leader (non lasciatevi depistare dagli accenti messi ad arte come florilegio esotico, si tratta del tipico intercalare toscano).
E altrettanto importante, i colori sociali con cui si sono presentati sul palco del Cavallerizza e del Teatro Due nelle repliche ufficiali: tessuto beige sabbia variamente agghindato per gli Input Meraviglia, look nero e piedi scalzi per i Pepèn, nero con una nota di rosso per i Böyáde.
Detto che le regioni di provenienza dei giovani musicisti attraversavano davvero buona parte dell’Italia – c’erano piemontesi, toscani, emiliani, sardi, lombardi, abruzzesi, siciliani, pugliesi – queste le tre squadre:
Walter Prati con: Gianmarco Canato – fagotto, elettronica | Francesca Fantini – sax | Alessandro Gambato – chitarra elettrica, elettronica | Riccardo Tesorini – elettronica | Federica Zuddas – voce
Francesco Giomi con: Daniele Carcassi – elettronica | Biagio Cavallo – sax, elettronica | Andrea Fabris – percussioni, elettronica | Dino Piccinno – elettronica | Sofia Weck – voce, tromba
Silvia Bolognesi con: Alberto Brutti contrabbasso, elettronica | Margherita Parenti – batteria | Cristiano Pomante – vibrafono, elettronica | Milena Punzi – violoncello, elettronica | Leonardo Vita – chitarra preparata, elettronica
Ma quindi com’era la musica e come l’hanno gestita i tre “conductor”?
Era musica che doveva essere insieme diversa e affine, antitetica e complementare. Ed era proprio questa la sfida da attraversare perché lo schema del gioco, a partire dal giorno della prima il 13 dicembre, prevedeva un continuo confronto tra gli ensemble, con porzioni di esibizioni affidate ai singoli combo, seguiti da sezioni in cui i tre gruppi suonavano insieme. Matrioske sonore, vasi comunicanti, in cui ogni porzione metteva in gioco anche consistenti quote di verve improvvisativa, l’alea di cageana memoria, l’inaspettato di molte pratiche jazzistiche, il flash randomico di molti software sofisticati. Walter Prati (protagonista di fertili collaborazioni con gente del calibro di Evan Parker, Thurston Moore e Robert Wyatt), nel “Derby Elettrico” ha deciso di non dirigere mai, ma partecipare attivamente come musicista (elettronico) aggiunto. Il suo ensemble quando agiva da solo metteva in moto soffusi droni e flussi ambient con qualche benefico “disturbo melodico” (non è un ossimoro in questo caso) regalato da sax alto, fagotto e voce. Francesco Giomi (Direttore del centro fiorentino di ricerca Tempo Reale, docente di composizione musicale elettroacustica al Conservatorio di Bologna, collaboratore di Luciano Berio, partner in crime di Uri Caine, David Moss, Jim Black) si è ritagliato apparentemente un ruolo di puro conductor. Ma se glielo si chiede risponde: “non dirigo, sono un trasmettitore di codici. La musica è sì guidata da me, ma in buona parte generata dai singoli musicisti”. Ne è venuto fuori comunque nel suo caso un parterre sonoro più noise, rumoristico e glitch con ossessioni melodiche cablate su tromba (ora umbratile ora più lirica, armeggiata da Sofia Weck) e sax alto (lo imbracciava Biagio Cavallo con attitudine zorniana, trasformandolo in protesi di device elettronici). Silvia Bolognesi (contrabbassista e compositrice, membro dello storico Art Ensemble of Chicago e del trio d’archi Hear in Now, docente all’Accademia Siena Jazz e al conservatorio di Palermo) a Reggio Emilia dirigeva e suonava, o meglio suonava (quando toccava al Böyáde Ensemble) e dirigeva (quando i tre quintetti si compenetravano). “Per gestire meglio l’interazione” ci ha confessato. La componente jazz nel set del suo gruppo faceva capolino molto spesso. Ma Alberto, Margherita (l’unica batterista presente in scena), Cristiano, Milena, Leonardo approcciavano quegli spunti di matrice afroamericana con una libertà che toglieva ogni riconoscibilità didascalica al suono.
Francesco Giomi, Walter Prati, Silvia Bolognesi.
A tutti e tre i leader (per quel che può valere la definizione in un contesto così pieno di “libertà”) ho chiesto infine cosa li spaventasse e cosa li eccitasse nel momento in cui gli è stato affidato l’incarico di guidare uno degli ensemble del “Derby Elettrico”. “All’inizio – mi confessa Silvia Bolognesi – mi spaventava il fatto di avere a che fare con così pochi elementi, sono abituata a muovermi, dirigere e arrangiare organici più numerosi. Ma ho capito ben presto che avevo a che fare con ragazzi talentuosi, eclettici e attenti, capaci d’interpretare ogni singolo momento, semplicemente seguendo il mood. Avevo anche preparato dei cartelli per regalare suggestioni ai miei partners. Ma oramai li usiamo solo come un gioco ed è proprio questo che mi piace della cosa. È diventato un gioco, naturalmente serissimo”. “A me divertiva molto – aggiunge invece Walter Paoli – l’esigenza connaturata a un progetto come questo, ovvero la necessità di acquisire una consapevolezza subliminale delle direzioni sonore, una serendipity collettiva. Forse mi spaventava un po’ la possibilità di non riuscire a controllare i volumi di certi strumenti, subire le impennate improvvise di determinati devices o anche di una chitarra elettrica che poteva sconvolgere il tracciato. E invece i ragazzi sono stati bravissimi e il flusso è venuto fuori sempre ben calibrato”. “Quando c’è la possibilità d’improvvisare, soprattutto con dei giovani, l’idea di divertimento è connaturata”: Francesco Giomi è perentorio da questo punto di vista. “L’unico timore era quello di non riuscire a far collidere approcci contrastanti. Ce n’erano all’interno del mio combo e tra i diversi combo che dovevano dialogare tra loro. Ma tutto alla fine è filato liscio, gli strumenti elettronici hanno inglobato gli strumenti acustici ed elettrici senza annientarli, anzi valorizzandoli. È questo che produce l’improvvisazione elettroacustica quando funziona. Mi verrebbe da dire: un magnifico pareggio!”.
P.S.
Roberto Fabbi ha voluto aggiungere un’altra variabile alle tante messe in gioco in questa occasione. Gli organizzatori hanno così piazzato una bacheca nell’atelier del Teatro, invitando gli astanti a scrivere una parola da posare in una teca. La teca piena di foglietti, ognuno con l’indicazione di una singola parola è stata poi portata al centro del proscenio poco prima dell’inizio del concerto. Parola estratta a Reggio Emilia da un Walter Prati in versione valletta: “Reincarnazione”. Una parola che celava un concetto fluido, itinerante, perpetuo e sorprendente. Perfetto per questo Derby elettrico…
Le foto in quest’articolo sono di Valerio Corzani.
Valerio Corzani
Valerio Corzani è presentatore, autore radiofonico e critico musicale. Voce di Radio 3, collabora con «Il Manifesto» e Bloogfoolk.
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