Difendiamo l'aborto, non la legge - Lucy
articolo

Giulia Siviero

Difendiamo l’aborto, non la legge

23 Aprile 2024

Le lotte delle donne, ogni volta che sono passate per una mediazione con le istituzioni, sono state depotenziate. È quello che è accaduto con la legge 194 che, pur avendo depenalizzato l’aborto, permette oggi al nuovo governo di caldeggiare associazioni pro vita nei consultori. Più che immaginare nuovi diritti, occorre forse pensare a nuovi modi per tutelare quelli che già esistono.

Negli Stati Uniti, alla fine degli anni Ottanta, a fronte del timore già allora piuttosto concreto che le garanzie riconosciute dalla legalizzazione dell’aborto dopo la sentenza Roe v. Wade venissero annullate, i movimenti femministi più radicali tornarono a promuovere il Del-Em, un dispositivo portatile composto da tubi di gomma, una cannula, un barattolo e una siringa inventato all’inizio degli Settanta per interrompere la gravidanza in autonomia e in un momento in cui l’aborto era prevalentemente illegale.

Diffusero, questi movimenti, anche un documentario intitolato No Going Back: A Pro-choice Perspective in cui per tre minuti dal vivo si mostrava l’uso del Del-Em con l’obiettivo di far sapere a tutti, Corte Suprema inclusa, che c’erano donne che conoscevano una tecnica per l’autogestione dell’aborto e che potevano anche insegnarla.

Alcune grandi organizzazioni istituzionali pro-choice non condivisero questa strategia sostenendo che gli sforzi andassero concentrati a livello legislativo: dire che le donne potevano abortire da sole sarebbe stato come riconoscere che non era rimasto alcun potere di influenzare la politica. Il tempo diede loro torto. Nel 2022, infatti, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la Roe v. Wade eliminando il diritto all’aborto a livello federale. 

Quando in Italia, alla fine degli anni Sessanta, i gruppi di donne cominciarono ad affrontare collettivamente la questione dell’aborto (illegale, ma praticato clandestinamente a livello di massa) vi fu una medesima divergenza di posizionamento e strategia. Parte del movimento femminista, sostenuta da radicali e socialisti, decise di mobilitarsi in piazza e di misurarsi con le istituzioni per arrivare all’approvazione di una legge che regolamentasse l’aborto.

Altri movimenti, più radicali, scelsero invece di fare un lavoro differente e tra questi Rivolta Femminile, nato nella primavera del 1970 grazie all’incontro tra l’artista Carla Accardi, la giornalista Elvira Banotti e Carla Lonzi. Rivolta femminile rifiutò la rivendicazione politica di legalizzazione: le donne, diceva, erano costrette all’aborto perché era stato loro imposto un modello di sessualità basato unicamente sul piacere maschile penetrativo. Un piacere che conduceva alla procreazione: “Il concepimento è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subìto. Negandole la libertà di aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna. Concedendole tale libertà l’uomo la solleva della propria condanna attirandola in una nuova solidarietà”.

In quel sistema sia il concepimento che l’aborto, negato o concesso, apparivano a Rivolta femminile come gestiti dall’uomo: “Sotto questa luce la legalizzazione dell’aborto chiesta al maschio ha un aspetto sinistro poiché la legalizzazione dell’aborto e anche l’aborto libero serviranno a codificare le voluttà della passività come espressione del sesso femminile”. La via d’uscita, per Lonzi e il suo gruppo, doveva dunque partire dalla sfera della sessualità: da un ripensamento e da una ri-contrattazione del rapporto sessuale in cui piacere e procreazione non fossero più identificati. I gruppi radicali non chiesero, di conseguenza, la legalizzazione dell’aborto, ma la sua depenalizzazione.

Occorreva e bastava una legge che si limitasse ad abolire le norme punitive, una legge accompagnata dalla realizzazione di strutture dove sostenere l’interruzione di gravidanza in condizioni ottimali, lasciando nelle mani delle donne modalità e pratiche della sua attuazione. Sostenere che l’aborto non fosse un diritto da regolamentare significava dire che era molto più che un diritto: una libertà insindacabile, non disciplinabile dall’esterno e un’esperienza che doveva mantenere uno spazio di gestione autonoma e indipendente.

Difendiamo l’aborto, non la legge -

Queste diverse prospettive politiche si ripresentarono sul tema dei centri femministi autogestiti per la salute e la medicina delle donne che nacquero e si svilupparono un po’ ovunque, in Italia, a partire dal 1973. Quando nel luglio del 1975 venne approvata la legge 405 che istituiva i consultori pubblici e nel giro di pochi anni vennero approvate le leggi regionali che li attivavano, si pose il problema se i centri femministi dovessero chiedere dei finanziamenti pubblici e diventare, di fatto, dei servizi istituzionali o se dovessero invece restare autogestiti. Alcuni movimenti interpretarono la legge 405 come la sottrazione di una pratica di conoscenza che le donne avevano faticosamente costruito su di sé e il loro corpo: una conoscenza fino ad allora impensata “da una casta medica ancora saldamente in mani maschili”. Ma la prospettiva che prevalse, sia nel caso dell’aborto che in quello dei consultori, fu quella meno radicale: quella del dialogo e della mediazione con le istituzioni.  

Nel caso dell’aborto, come noto, nel 1978 venne approvata la legge 194, dopo un passaggio parlamentare durato circa due anni. Quando entrò in vigore, le stesse donne che l’avevano voluta si resero conto della disparità tra il loro investimento di energie e il risultato ottenuto. E si resero conto che la legge conteneva tutti gli strumenti che avrebbero potuto svuotarla.

La 194, intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, proteggeva e protegge ancora oggi “il valore sociale della maternità e la vita umana dal suo inizio” (articolo 1). E solo poi concede, a date condizioni, l’aborto. L’articolo 4 elenca infatti le “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica” della donna e rendono dunque legittimo richiedere un aborto: quelle “in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Nella legge non si parla mai di interruzione volontaria di gravidanza rispetto alla libera scelta della persona, ma si parte dal presupposto che la maternità non venga portata avanti solo per un’impossibilità: per la presenza di alcune circostanze sfavorevoli che la legge stessa chiede, innanzitutto, di superare.

L’articolo 2 ribadisce infatti che che una delle funzioni fondamentali dei consultori è quella di contribuire “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. Si aggiunge che i consultori stessi “sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi (…) della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. L’articolo 5 dice ancora che il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso”, ma specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata da circostanze economiche, o sociali, o familiari, di esaminare delle “possibili soluzioni” e aiutare la persona “a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza”. L’espressione “anche dopo la nascita” comporta che il cosiddetto “aiuto alla maternità” possa avvenire prima, quando una donna è incinta. 

È dunque a causa della postura generale della 194 e di alcuni suoi passaggi più specifici che i gruppi antiabortisti, con la complicità delle amministrazioni locali o regionali di destra, si sono potuti intromettere con grande facilità nei percorsi verso l’aborto per ostacolarlo: sostenendo formalmente natalità e maternità attraverso precise proposte di legge che portano avanti implicite finalità antiabortiste, istituendo, come in Piemonte, fondi gestiti dalle associazioni anti-scelta perché entrino negli ospedali a convincere le donne a non abortire, lavorando per limitare l’accesso all’aborto farmacologico o colpevolizzando le donne attraverso l’sitituzione dei cimiteri dei feti.

Con i consultori pubblici e laici (sotto finanziati, senza personale e numericamente insufficienti) non è andata molto diversamente. Anche con la complicità della parte meno radicale del movimento femminista, il tema dell’autonomia e dell’autogestione è stato accantonato. E le lotte per la liberazione e l’autodeterminazione delle donne, sono state trasformate in concessioni controllate e, in molti casi, depotenziate.

“È a causa della postura generale della 194 e di alcuni suoi passaggi più specifici che i gruppi antiabortisti, con la complicità delle amministrazioni locali o regionali di destra, si sono potuti intromettere con grande facilità”.

Con la certezza, oggi, che ancorare l’autodeterminazione delle donne a una legge o alla disponibilità delle istituzioni (e dunque alle maggioranze di governo) non metta al riparo nessuno e nessuna è forse necessario ricordare e riproporre le domande aperte dal movimento femminista radicale fin dagli anni Settanta. Per orientare lotte ed energie. Cosa accade alla libertà femminile nella mediazione con le istituzioni? Una politica femminista che confida nella neutralità del diritto e che si basa solo su richieste rivendicative non pone le donne in una perenne condizione di debolezza, oppressione, subalternità e precarietà? Quanto la questua di diritti o la loro strenua difesa restringe lo sprigionarsi di qualcosa di nuovo, impensato e non condizionabile dall’esterno? 

In un testo molto famoso della fine degli anni Ottanta del femminismo italiano intitolato “Non credere di avere dei diritti”, si segnalava in modo critico come negli anni del dibattito sull’aborto fosse molto diffusa l’idea che “quando si arriva a un certo livello dei conflitti sociali il modo più appropriato per affrontarli e risolverli sarebbe quello di fare una legge giusta”. L’altra idea, altrettanto pervasiva, era che i comportamenti fossero solo o proibiti o legalizzati, senza concepire che potesse esistere “un grande ambito di comportamenti consentiti o semplicemente possibili e, in caso, da inventare o da rendere possibili”.

A fronte oggi del comune obiettivo di salvaguardare la libertà di abortire messa nuovamente in discussione a livello nazionale dall’emendamento di Fratelli d’Italia, siamo certe che “difendere la 194” come chiedono alcuni movimenti di donne o rimetterla in discussione per renderla più giusta siano le uniche alternative possibili e auspicabili? Perché non provare a far rientrare nell’orizzonte del pensiero la spinta di una politica impensabile, creativa e radicale e che superi i termini della politica già data? 

Giulia Siviero

Giulia Siviero è giornalista al «Post» e collabora con diverse riviste. Il suo ultimo libro è Fare femminismo (nottetempo, 2024).

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