Giacomo Matteotti fa ancora paura - Lucy
articolo

Concetto Vecchio

Giacomo Matteotti fa ancora paura

25 Aprile 2024

Giacomo Matteotti, vittima di uno dei più efferati delitti politici mai commessi, è diventato un simbolo. Ma chi era davvero quest'uomo, che nemmeno da morto è stato lasciato in pace?

Anche a me Giacomo Matteotti fa paura.

Osservo la montagna di carta sulla mia scrivania: libri, articoli accademici ingialliti, le veline del regime pescate all’Archivio di Stato, ritagli, il taccuino fitto di 118 pagine di appunti, inclusi quelli sull’unico film su Matteotti, con la faccia di Franco Nero. Non riesco ad afferrarlo.

Mi disorienta la sua inquietudine. Il suo essere al centro delle cose, ma anche lontano. Diverso dagli altri, estraneo. In anticipo sui tempi. Aspro, non accomodante. Anche la sua lingua, che risuona forte contro Benito Mussolini alla Camera dei deputati in centosei discorsi, è come ripulita dalle furbizie. Ha capito prima di tutti dove ci avrebbe portato la dittatura fascista, sperimentando sulla propria pelle la violenza e l’esilio. Non ha ceduto. Non è rimasto in silenzio. Non è emigrato.

È molto solo. Non soltanto di fronte al Duce che lo odia, ma anche dentro al suo partito, quello socialista unitario, che non ha compreso che il fascismo è violenza, e che durerà. C’è ancora la convinzione che Mussolini si possa imbrigliare nel gioco parlamentare. Matteotti, refrattario agli accomodamenti, ne diffida. Il fascismo è crimine, ma anche un fatto storico con delle basi sociali. Si sgola inascoltato per denunciarne i pericoli.

Viene dal Polesine. Dalla terra. È figlio di proprietari terrieri (la madre, Isabella, gestisce anche un emporio) ma votato alle ragioni degli ultimi. Fa politica in mezzo ai cafoni, nella fatica di ogni giorno. Una grande scuola. E i contadini che scoprono il socialismo vengono aggrediti, intimiditi, bastonati dagli sgherri degli agrari. È nella lotta alle diseguaglianze l’essenza della lotta della sinistra. Li invita ad assumere delle responsabilità, ad essere più capaci dei padroni. E con lui i cafoni diventano cittadini, imparano il senso delle istituzioni, la storia si riveste finalmente di uno sprazzo di senso.

Matteotti è mosso da un’ossessione che non è semplice da indagare. Tutta la sua vita volge nel romanzesco. I sei fratelli morti. Il confino per pacifismo in Sicilia, lungo tre anni. Il pazzo amore per Velia, che però si nutre solo nell’assenza. Disubbidisce continuamente: al suo ceto di riferimento, al suo partito, al fascismo, naturalmente. 

È soprattutto un grande anti-italiano.

“Lei non è italiano” lo insultano i fascisti in Parlamento.

Come tutti i grandi anti-italiani Matteotti era italianissimo. È nella contraddizione l’essenza del nostro carattere nazionale.

Credo che a un certo punto Mussolini si sia spaventato di fronte alla sua intransigenza, a un’irriducibilità ritenuta non risolvibile. Perciò il fascismo lo ha ucciso. Cent’anni fa, il 10 giugno 1924. Matteotti ha soltanto 39 anni. Sua moglie Velia, 38. È così diversa da lui, per temperamento: lei è religiosissima, lui ateo. Tre figli. Giancarlo ha sei anni, Matteo tre, Isabella due, quando il loro papà viene assassinato.

Anche Benito Mussolini è un uomo nuovo per il suo tempo. Teatrale, bullo, atteggione con tratti di consumata viltà (la marcia su Roma l’ha fatta nel vagone letto, come dirà lo scrittore Giuseppe Antonio Borgese), donnaiolo incallito. È l’arci italiano. Con Matteotti sono quindi all’opposto. Eppure sono due figli del socialismo. Due uomini della provincia rurale.  Outsider. Quasi coetanei. Uno è diventato il Duce d’Italia. L’altro il suo più fiero oppositore.

Un libro è sempre una ricerca, di sé anzitutto. Sto cercando un segno e allo stesso tempo intendo lasciarlo. Abbandono i libri e prendo un treno per Rovigo. Ho bisogno di vedere. Mi serve un’immagine. Le cose da cronista si capiscono solo andando sui posti. Attraverso campi gelati punteggiati di pioppi spogli, strade vuote. Raggiungo Fratta Polesine, il paese di Matteotti. Qui riposa nella solitudine di un cimitero di campagna. Sono l’unico visitatore in questa mattina di novembre. Matteotti vi giunse dall’11 ottobre 1928 dopo peripezie, traslochi, trafugamenti, trattato come un appestato. Ucciso sul lungotevere a Roma il suo corpo era stato trovato soltanto due mesi dopo, in un bosco alla Quartarella, nel comune di Riano, a venti chilometri dal luogo dell’omicidio. Ridotto a uno scheletro. Le carni divorate dai cani e dagli animali selvatici. Il medico lo identificò dalla dentatura.

Nemmeno dopo questo strazio la sua sorte fu più dignitosa. Inizialmente finì tumulato nella cappella di Giuseppe Trevisan, l’amministratore dei beni della famiglia Matteotti, messo lì per non dare troppo nell’occhio, reso anonimo e quindi non attaccabile dai fascisti. Anche il suo fantasma suscitava istinti demolitori. Un anno dopo la sepoltura Trevisan chiese alla signora Isabella di trasferirlo in un sepolcro dismesso. I fascisti lo avevano minacciato di devastargli la cappella, che ospitava anche le spoglie del figlio, morto bambino. Spaventato, cedette. Matteotti quindi finì dentro un loculo camuffato, per evitare che i fascisti lo potessero trovare e profanare, la madre assistette in lacrime a quell’umiliante spostamento, le parve l’ultimo sfregio, tra i singhiozzi urlò: “Governo assassino”.

Poi il regime cominciò a temerne il fascino. Non voleva che finisse all’estero. ll prefetto di Rovigo ordinò così la cementificazione del sarcofago, che fu reso inamovibile, impedendo ogni possibile trafugamento del corpo.

Era prigioniero anche da morto.

C’è una lapide nella piazza principale di Fratta che ancora negli anni Cinquanta venne censurata dai funzionari democristiani. Dall’iniziale scritta “Giacomo Matteotti assurto nel martirio a simbolo di libertà presso tutte le genti nella sua terra senza pace attende il giorno della giustizia riparatrice”, il questore, su ordine del governo Scelba, fece togliere “senza pace attende il giorno della giustizia riparatrice”.

Il fascismo, seppur sconfitto, nei democristiani sopravviveva.

Solo di recente, grazie alla tenacia di Lodovica Mutterle, la direttrice della casa Museo Matteotti, la lapide è stata corretta e l’iniziale scritta ripristinata.

Mi perdo nel suo rapporto con Velia. Si amano ma non si incontrano. Velia è antica e moderna. Anche lei intuisce presto dove porterà la protervia montante del fascismo. Gli scrive: “Mi trovo forse in un periodo in cui le cose mi fanno maggiore impressione e più difficile mi è persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita”.

Quando Mussolini la riceverà, due giorni dopo la scomparsa del marito, promettendo cinicamente aiuto (Matteotti è già morto), lei rifiuterà di stringergli la mano. È un incontro breve. Duro. “Accompagni le signore”, dice il Duce all’onorevole Sardi, che assiste all’incontro. Velia è lì con la sorella. “Andremo da sole”, respinge l’offerta Velia. E sola è stata anche da vedova. Come imprigionata nel dolore, seguita passo dopo passo dalle spie che poi riferiscono al capo della polizia Arturo Bocchini.

Io giro per mesi. Vado nei luoghi. Incontro la coppia di Roma che ha affisso “senza chiedere permesso a nessuno” una targa nell’ultima abitazione di Matteotti, in via Pisanelli, al Flaminio. Telefono a Franco Nero. Intervisto vecchi resistenti matteottiani. M’imbatto nella nipote di Giacomo, Laura Matteotti, una donna gentile. Mi racconta cosa accadde nella sua famiglia dopo la morte del nonno. Ne sono turbato.

Il fantasma di Matteotti non faceva paura solo ai fascisti. Nel Dopoguerra ha fatto paura anche a sinistra. Da anticomunista si era opposto a Togliatti. Gramsci lo aveva definito incredibilmente “pellegrino del nulla”. Non era un figlio del Pci, che esercitava la sua egemonia culturale. Non fu riconosciuto. Era socialdemocratico. Una bestemmia nell’Italia di allora. Era stato socialista, ma con la sua testa. Non fu mai popolare, scrisse di lui Gobetti. E gli fece il più grande dei complimenti. Matteotti naturalmente fu popolarissimo tra i suoi contadini, tra le masse che lo elessero prima amministratore locale e poi tre volte deputato, ma sempre come fuori dal suo tempo, lontano dalla corrente, e quindi solitario, altero, diverso. E così venne schiacciato, nella narrazione pubblica, schiacciato sul delitto, senza che gli fosse riconosciuta la grandezza politica, l’eroismo, il riformismo visionario.

Matteotti è quindi il grande trauma pubblico della nazione. Ma è anche un trauma privato. Uscendo dall’abitazione di Laura Matteotti ho realizzato con improvviso dolore che le onde di un delitto politico si propagano per generazioni. Il trauma è reale, non cinematografico. Perciò il fantasma di Giacomo ci parla ancora.

Concetto Vecchio

Concetto Vecchio è un giornalista di Repubblica. Il suo ultimo libro, un’inchiesta su Matteotti, si intitola Io vi accuso (UTET, 2024).

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