Benvenuti a Mileiwood - Lucy
articolo

Fabrizio Gabrielli

Benvenuti a Mileiwood

Tra corti, meme, apparizioni in TV e documentari propagandistici, il presidente argentino Milei si rappresenta ormai come un cattivo dei fumetti: esuberante, spietato, ribelle, orgogliosamente di destra.

A fine agosto, negli stessi giorni in cui gli Oasis davano l’annuncio della loro reunion, il presidente argentino Javier Milei ha annunciato l’arrivo di una serie sulla sua dirompente ascesa, dall’evocativo titolo Milei, de cero a presidente. Da zero a presidente. Santiago Oría, che della serie è regista e produttore, ha scritto su X: “Vamos, dobbiamo fare meglio di quegli zurdos [letteralmente sinistrorsi] degli Oasis!”. 

Quello del presidente argentino – ne è consapevole lui in primis – è un mito pop che ha bisogno di essere costantemente alimentato. La sua traiettoria, così argentinamente imprevista e incredibile, è il perfetto racconto di un’ascesa da self-made man: una storia da film

Basta guardare le diapositive di questi anni. A partire dalla chiusura della campagna elettorale, quando, a Buenos Aires, a Parque Lezama, con l’aura del rocker consumato ha cantato sul palco “soy el rey de un mundo perdido”. Fino agli ultimi mesi, gli scatti della sua prima, storica visita al palazzo dell’ONU, dove tiene un discorso in cui bacchetta le Nazioni Unite; le foto del suo team in gita a New York, e i meme sui social, sullo stile “guarda da dove veniamo, e guardo adesso dove siamo arrivati”. E poi, soprattutto, l’immagine del momento in cui ruba la scena brandendo, con sguardo mefistofelico, la martellina con cui si decreta l’apertura di una sessione di scambi alla borsa di Wall Street. A Javier Milei si possono rimproverare tante cose, ma non la sua indubbia capacità di rendere iconico ogni aspetto della propria vita, ogni atteggiamento o comportamento o dichiarazione.

Milei, de cero a presidente  verrà distribuita in maniera tutto gratuita su X. Una mossa che, a pensarci bene, ha tantissimo senso, anche politico. “Ci piace quella piattaforma”, ha detto Oría, “è il luogo in cui Elon Musk è riuscito a dare a tutti la libertà d’espressione”. Il luogo in cui, incontrollati, armati di idiosincrasie rivendicate, si può imporre un’informazione che non necessita di fact-checking. Il paradiso dell’egoriferito.

“A fine agosto, negli stessi giorni in cui gli Oasis davano l’annuncio della loro reunion, il presidente argentino Javier Milei ha annunciato l’arrivo di una serie sulla sua dirompente ascesa”.

Lo zoccolo duro dei sostenitori di Milei è giovane, giovanissimo, tra i 18 e i 30 anni. Gente che non ha vissuto sulla sua pelle la crisi economica del 2001, il cambio artato e la limitazione alla libera circolazione del contante,  corralón e corralito, che vive sui social (in Argentina, appunto, più X che TikTok), che si proclama orgogliosamente di destra, anti-femminista, bisognoso di una svolta – quel genere di svolta che può assicurare solo un uomo forte. Impazziscono per tutta la retorica mileiana delle motoseghe, dei tagli alle spese statali, vanno fuori di testa per ogni suo afuera! dedicato, ulrando, a un Ministero da depennare. 

L’11 settembre, quando è uscito il primo episodio della serie (al momento in cui scrivo, ancora l’unico ad essere uscito) ad attenderlo c’erano soprattutto loro. Lo scopo che si dà il progetto è quello di apprendere e comprendere più a fondo il movimento che ha scosso le fondamenta della vita politica argentina e del suo leader.

Santiago Oría, il regista, non ha avuto una vita facile da cineasta in erba, nell’Argentina degli anni Dieci, governata perlopiù da Néstor e Cristinia Kirchner. “Ai tempi dell’università”, confessa in una delle mille interviste rilasciate nelle ultime settimane, “non mi sono mai sentito discriminato ideologicamente salvo negli ultimi tempi”, cioè quando il suo appoggio a un certo tipo di idee, cioè quelle anarcoliberiste propugnate da Milei, si è fatto più concreto e vistoso, quando il fallimento di Macri (liberista e conservatore, leader di Proposta Repubblicana) ha portato alla Casa Rosada un nuovo peronista, Alberto Fernández. Durante la pandemia dice di aver svolto attività di “disobbedienza civile contro le misure di quarantena”. Si è prodotto, in casa, un documentario complottista sul COVID: qualcuno lo ha visto, lo ha suggerito a qualcun altro, e in quella stupefacente maniera in cui – solo in Argentina – i gradi di separazione si comprimono magicamente, il documentario è arrivato a Milei, in quel momento uno dei più vulcanici e presenti personaggi dei salotti televisivi in cui si discute di economia e politica.

Oría giganteggia, in ogni foto promozionale, imponente. Con la sua corporatura massiccia svetta, telecamera in spalla, su tutti. Sembra di rivederlo da ragazzino, sul divano mentre passa il tempo a guardarsi un VHS dopo l’altro. Dice di aver visto tutti i classici popolari degli anni Ottanta e degli anni Novanta, e poi di essersi innamorato della documentaristica, da Michael Moore a Pino Solanas, da Ken Burns al suo favorito, Erroll Morris (autore di American Dharma, il documentario su Stephen Bannon, ex consigliere di Donald Trump e idolo dell’alt-right americana). L’unica differenza tra Morris e lui, dice Oría, è che “Morris odia la destra; io faccio le mie cose a favore della destra”. E aggiunge: “Credo che la serie possa aiutare a sostenere l’immagine positiva di Milei”. 

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Oltre che regista e produttore della serie, però, Oría è anche, attualmente, il direttore dei Servizi Audiovisivi della Presidenza della Nazione – ci tiene però a sottolineare che tutti i costi di produzione di questo progetto sono a carico suo. “Ho importanti introiti al di fuori del mio ruolo, e poi ho ereditato molti soldi da giovane”, si giustifica.

Per individuare un fil rouge nella sua produzione cinematografica basta dare un’occhiata a quelli che cita come suoi punti di riferimento: Sergio Leone, Werner Herzog, Francis Ford Coppola, Stanley Kubrick, David Croneberg. Il punto di congiunzione è nell’ epica: gli piacciono le storie in cui avviene il cammino dell’eroe. E la storia di Milei, in effetti, ne è una chiara incarnazione, con un certo gusto per i bagni di folla e i proclami che sembrano presi da un capitolo di Star Wars. Quando Milei, alla fine di suoi comizi, dice “Che la forza del cielo ci accompagni”, ricorda Obi Wan Kenobi quando augura “che la forza sia con te”.  

Oría, spesso, tra quelle folle c’è stato da fervente sostenitore, illuminato sulla via per Damasco. Poi è salito sul palco per filmarle nel 2021, seguendo la campagna politica di Milei per l’elezione da deputato prima e quella della campagna presidenziale poi. 

È stato un testimone privilegiato. Ha raccolto ore e ore di materiale. Sistemarlo, montarlo, è stato più un passatempo che un impegno: la serie è autoprodotta, “come tutti i miei lavori, anche in passato”.

Non ci sono contenuti girati appositamente, come invece succedeva in Pandenomics, cortometraggio di Oría uscito nell’Ottobre 2020 con Javier Milei nel ruolo di attore protagonista e mattatore. Pandenomics si apre con l’arrivo di un uomo misterioso, vestito di pelle, con un cappotto lungo, negli anfratti più bui di un luogo abbandonato, clandestino, che pare il capannone di una zona industriale. L’atmosfera è un po’ quella de I guerrieri della notte, o dei film sui gangster, ma ricorda pure quei film di fantascienza che raccontano la resistenza a dittature spietate. Milei parla a ruota libera, in controluce, mentre vengono mostrate gigantografie dei suoi mostri sacri: Xi Jinping, Donald Trump, Bill Gates. Quello che ora è a poco meno di uno zero, e che diventerà presidente, alza i toni: dà ai politici dei criminali, dei boludos, che è la maniera tutta argentina di darti del deficiente. Dice che una pandemia è il sogno bagnato di ogni comunista di merda. Dice che lui lo sapeva. Sullo sfondo, spesso, appaiono i colori della bandiera argentina. E teschi, inquietanti, perturbante richiamo all’epoca oscura della dittatura militare. Di mezzo taglio, alle spalle di Milei mentre parla, c’è poi una figura segaligna, con un paio di baffetti. Potrebbe essere Hitler come Videla, e non sono del tutto certo che l’intento sotteso, certo perverso, non sia quello di evocarli. Invece è John Maynard Keynes, l’economista liberale che ha però più di ogni altro sostenuto la necessità dell’intervento, nell’economia, dello Stato. Per Milei, ovviamente, si tratta di un tradimento imperdonabile. Quando l’inquadratura si allarga, sul volto di Keynes c’è una striscia di vernice. Uno stigma, una lettera scarlatta.

“Lo zoccolo duro dei sostenitori di Milei è giovane, giovanissimo, tra i 18 e i 30 anni. Gente che non ha vissuto sulla sua pelle la crisi economica del 2001, il cambio artato e la limitazione alla libera circolazione del contante”.

A guardare il primo episodio di Milei, de cero a presidente si capisce bene che il punto di partenza sia stato proprio Pandenomics, anche se qui non ci sono scene recitate: ma in fondo, quando puoi disporre di una materia prima strabordante come Javier Milei, non è neppure necessario averle. Oría, in Milei, ha trovato la sua musa per raccontare un’epoca e un intero Paese. Un villain della Marvel che è allo stesso tempo un supererore della Marvel, sullo sfondo di una Buenos Aires che somiglia a Gotham City.

“Sono qui per buttar fuori a calci in culo questi criminali”, dice Milei in una delle tante escandescenze che si susseguono, nell’episodio di apertura della serie, con ritmo da videoclip musicale. “Non sono venuto a far la guardia a degli agnelli, ma a risvegliare i leoni”, continua, stavolta al Luna Park, che è il sancta sanctorum delle grandi adunate bonaerensi – per intenderci, il luogo in cui Perón teneva i suoi comizi più importanti, il tempio della boxe argentina e anche il posto in cui Diego Armando Maradona ha celebrato il suo banchetto di nozze. Di fronte a lui, folle giubilanti saltano, sventolano bandiere, scandiscono li-ber-tad, li-ber-tad, agitano le mani come fossero hinchas allo stadio (di fatto, in fondo, lo sono). Lui urla libertad, carajo!, cioè “libertà, cazzo!”, come Bielsa dopo aver vinto uno scudetto con il Newell’s Old Boys. È Masaniello, è capopopolo, è il Generale San Martín, è condottiero: ma è anche, per certi versi, il messia. Un ragazzino con la maglia di Messi gli si avvicina piangendo, mentre attraversa la folla su una decappottabile. “Per favore, salva questo paese!” piagnucola il bambino. “Ce la metterò tutta” risponde lui, tenendogli la testa tra le mani. A favore, ovviamente, di telecamera.

Da ogni fotogramma di De cero a presidente (del primo episodio, ma c’è da intendere che sarà così anche negli altri cinque, sulla cui uscita non c’è chiarezza di informazioni) sgocciola autonarrazione, quel tipo di retorica da outsider, da uomo del popolo ma proprio in senso stretto, con un passato da calciatore e un presente da rocker. Un uomo che non soffre di nessuna sindrome dell’impostore nel vedersi ridotto a icona che campeggia durante i comizi, come i ritratti di Evita e del Generale Perón un tempo. Il pubblico, adorante, fa sfoggio di bambolotti con le sue fattezze, e poi spuntano molti cappelli con lo slogan «fuerza del cielo» nato da una sua frase («la vittoria in battaglia non dipende dalla quantità di soldati, ma dalla forza che scende dal cielo»), uno slogan, se vogliamo un tantino egoriferito, e nondimeno la risposta argentina al Make America Great Again di Trump.

Scene di giubilo tonante, di vittoria assaporata, di consapevolezza del fatto che si sta facendo la storia. E i suoi occhi ferini, glaciali e al contempo infuocati, rabbiosi.

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A vederlo barcamenarsi a Animales sueltos, il programma generalista che l’ha lanciato, non sembrava effettivamente possibile che un tipo del genere potesse anche minimamente ambire allo scranno presidenziale. La sua lettura della storia argentina è spesso quantomeno lacunosa (gli anni della dittatura? “Tremendi dal punto di vista economico”, ed è tutto qua), le sue battute bislacche ma efficaci (“chi mi pettina? Eolo!”). Porta i suoi cani in trasmissione, e l’intera storia dei suoi cani è già di per sé materia letteraria: si chiamano Milton, Murray, Robert e Lucas – da Friedman, Rothbard e Robert Lucas, gli economisti che gli hanno sconvolto il pensiero – e sono tutti nati dalla clonazione del protomastino Conan, inseparabile compagno di viaggio con il quale si è messo in contatto attraverso una medium dopo la morte sentendosi dire, dal cane morto, che era Dio in persona a suggerirgli di candidarsi alla presidenza. Sfoggia un machismo sessista che però, sugli argentini, fa presa. Ha la stessa modalità espositiva del barrabrava, dell’ultrà da stadio argentino, ma forse arriva proprio perché a quelle latitudini l’unica chiave interpretativa è quella. “Sono una persona appassionata”, dice di se stesso. Mai “preparata”. Spiega le lamentele per la disparità dei salari attraverso la teoria dei (sic) “cazzi corti”: chi vorrebbe una misura media? Chi ne ha di più o chi ne ha di meno? Dice di essere stato professore di sesso tantrico, si autodefinisce “il Mick Jagger dell’economia”. Conia slogan e cori da stadio. E poi: sbarca nei teatri, con uno spettacolo che mette insieme una convention corporativa, una convivenza evangelista, un concerto rock, una farsa e uno spettacolo circense. “Ti dico la verità sull’economia, e però ti faccio anche pisciare sotto dalle risate”, recita il lancio.

Se, a questo punto, è saltato in mente un paragone con un fenomeno italiano anche piuttosto recente, bisogna prendere in considerazione che Milei, in cambio, ha perso piuttosto presto il senso della misura. Il suo non è un vaffanculo day, un fuori la casta, o forse lo è, ma più brutale, più violento, più indiavolato, con una volontà di argomentare infinitamente minore. De cero a presidente ne restituisce appieno il carattere sincopato, contundente: è un videoclip metal, che sai che finirà a chitarre sfasciate sul palco.

Quasi in contemporanea con la serie di Milei è uscita, su Netflix, quella che racconta la parabola del calciatore Ángel Di Maria, Abbattere il muro. Il muro cui si fa riferimento è quello delle critiche che Di Maria aveva subito, prima del mondiale vinto dall’Argentina, da parte di chi non credeva possibile la sua rinascita come calciatore dopo un periodo appannato. Condividono, in fondo, le due serie, la stessa narrazione motivazionale,   quella del self-help,  del crederci fino in fondo: la creazione del mito, che passa attraverso i rapporti osmotici tra il singolo e il tutto, tra il grande uomo e i suoi sostenitori. 

La passione argentina per il racconto cinematografico dei bagni di folla, siano di gloria o di commozione, d’altronde, non è cosa nuova: per i funerali di Evita, Perón volle fortemente che a dirigere le riprese ci fosse Edward Cronjager, direttore della fotografia di Hollywood, accompagnato da un’intera troupe della 20th Century Fox.  

“La passione argentina per il racconto cinematografico dei bagni di folla, siano di gloria o di commozione, d’altronde, non è cosa nuova”.

Milei non è diventato un personaggio dopo essere stato eletto presidente. Il suo percorso è stato inverso. Il voto ha premiato il personaggio mediatico, e anche chi quel personaggio mediatico ha contribuito a crearlo. Sotto questo punto di vista, il lavoro di Oría oggi è in qualche maniera un’autocelebrazione della vittoria di Milei.  Anche per questo gli episodi di De cero a presidente, che durano un’ora (il primo, almeno),  valgono tutto il tempo che ci si investe, perché sono uno strumento formidabile per comprendere il fenomeno Milei. Del comburente, e poi della scintilla, che ne ha permesso l’innesco. 

Per capire gli effetti della combustione bisognerà aspettare, ma forse la realtà precederà la cinematografia. Lo stato delle cose convaliderà la visione dei prossimi cinque episodi o la sorpasserà? Nessuno può saperlo. Non c’è niente di più prevedibilmente imprevedibile di quel che succede a Mileiwood, dopotutto.

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Fabrizio Gabrielli

Fabrizio Gabrielli è scrittore e giornalista. Collabora con diverse riviste su cui scrive soprattutto di calcio e Sudamerica. Il suo ultimo libro è Messi (66thand2nd, 2023).

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