Bob Dylan, chi sei? - Lucy
articolo

Nicola Lagioia

Bob Dylan, chi sei?

06 Luglio 2023

Di solito la fase finale di una carriera ci aiuta a fissare il profilo di un artista. Non è così per Bob Dylan che, impegnato in questi giorni nel suo tour italiano, continua a sfuggire a ogni definizione. Come ci riesce?

La più bella dichiarazione di poetica di Bob Dylan che io ricordi è contenuta in una trasmissione televisiva. Si tratta dell’intervista rilasciata a Ed Bradley per 60 Minutes, andata in onda sulla CBS il 5 dicembre del 2004.

Era la prima volta, dopo anni, che Dylan accettava l’invito a un talk show. Si trattava dell’ennesimo periodo di rinascita. Buona parte degli anni Novanta (dopo il felice capitolo di Oh Mercy, 1989) erano trascorsi musicalmente in modo poco esaltante. “Dylan è finito”, “non ha più niente da dire”, erano i commenti più gentili che si facevano su di lui.

Ma ecco che nel 1997 (sotto l’egida di Daniel Lanois) esce Time Out of Mind, quattro anni dopo è la volta di Love and Theft, e questo è sufficiente perché la gente ricostruisca il mito di Bob Dylan su altezze superiori rispetto a quelle da cui l’aveva buttato giù. 

L’autobiografia Chronicles. Volume One, con cui Dylan sfiora il National Book Award, viene pubblicata nel 2004. Modern Times esce nel 2006. Il Pulitzer arriva nel 2008. Nel 2016 c’è la tanto discussa assegnazione del Nobel per la Letteratura. Nel 2020 esce un album grandioso come Rough and Rowdy Ways, ma è il 1997 l’anno a partire dal quale Dylan viene di nuovo considerato all’unanimità un artista da cui ci si deve aspettare di tutto.

Dopo Time Out of Mind ci si ricorda per esempio che Dylan ha rivoluzionato la musica popolare del secondo Novecento. Che è in tour da un numero stupefacente di anni, e non intende fermarsi (tra i Cinquanta motivi per amare Dylan, Bono Vox inserisce: “He will be in your town soon”, cosa di cui ebbi la quasi dimostrazione pratica nel 2006, quando lo vidi arrivare a Foggia). Che una parte del suo fascino deriva dall’incorrotta enigmaticità della sua vita, cui fa da specchio quella delle canzoni, così sghembe, mobili, scivolose da portare chi le ascolta fuori asse, in un luogo dove altrimenti non potrebbe arrivare. 

Questi sono alcuni dei motivi per cui pubblico e addetti ai lavori si ritrovarono anni fa a schiodare Dylan dalla Jurassic Park del rock dove riposano in vita molte vecchie star. La cosa singolare è che a quel punto (metà anni Novanta, figuriamoci oggi) Dylan non era più un aggiornatore di codici musicali. Aveva preso anzi a ispirarsi ai vecchi bluesman di inizio Novecento. E allora perché la sua inattualità lo rende così contemporaneo?

La chiacchierata con Ed Bradley alla CBS viene continuamente segnalata dai pazzi della Rete perché conterrebbe la confessione del patto con il diavolo che Dylan avrebbe stretto intorno al 1960. Un aggiornamento del Doktor Faustus di Thomas Mann dove la ricompensa per la vendita dell’anima non è la dodecafonia, ma Blonde on Blonde.

“Sei sempre in giro a cantare le tue canzoni, sei sempre in tour. Perché lo fai?”, chiede Ed Bradley a Dylan alludendo alla sua longevità artistica.

Dylan risponde: “beh, torniamo alla faccenda del destino… sai, un sacco di tempo fa ho fatto una specie di patto di ferro con Lui. Sto cercando di ritardare la fine”.

E Bradley: “e qual era lo scopo del patto?”

E Dylan: “arrivare dove sono adesso”.

E Bradley (sorrisetto): “forse dovrei chiederti con chi hai fatto il patto?”

Dylan ridacchia con la sua voce roca: “con il Capo… Con il Comandante in capo”.

E Bradley: “su questa terra?”

Risposta: “su questa terra… e sul mondo che non possiamo vedere”.

Stiamo parlando di Dio o del suo Avversario? Dylan gioca continuamente con l’equivoco. Ribalta la questione pur di autorizzarsi a ingannare i mortali (“le uniche persone davanti a cui devi pensarci due volte prima di mentire sono te stesso e Dio”), poi ci ritorna, dice e non dice: “in effetti”, finge di ammettere, “subito dopo essermi trasferito a Minneapolis, un bel giorno, mi trovai di fronte a un crocicchio…” 

A meno che non la si voglia prendere come una citazione, un omaggio alla leggenda di Robert Johnson, questo è uno dei casi in cui Bob Dylan mette in pratica la sua proverbiale elusività con strumenti un po’ rozzi. (Fare pace con il fatto che i geni non sono tali ventiquattrʼore al giorno dovrebbe farceli apprezzare di più). In realtà trovo che l’intervista con Ed Bradley sia interessante per un’altra ragione. Ci arriverò tra poco.

Non è facile squarciare il velo sul mistero della propria vena creativa. Unʼimpresa difficile per Dylan come per chiunque, dal momento che non sappiamo di preciso – al netto di disciplina, desiderio e forza di volontà – a cosa è riconducibile il nostro talento di musicisti, registi, scrittori, pittori.

Il talento cʼè o non cʼè, si dice, ma sarà proprio così? Non si tratta piuttosto di una forza latente che può venire fuori grazie anche a eventi ben precisi? Un muro invisibile ci separava da questo fluido misterioso, e ora ne siamo miracolosamente toccati. Qualcuno potrebbe avere la tentazione di tirare in ballo la trasfigurazione.

Jim Morrison raccontava che iniziò a diventare un artista il giorno in cui, da bambino, vide morire un nativo americano su una strada dopo un incidente automobilistico. “La sua anima entrò in me”. Qualcosa di più bizzarro la riferisce Dylan in un’intervista per «Rolling Stone» del 2012. Stranamente, c’è ancora di mezzo un incidente stradale. 

“Il talento cʼè o non cʼè, si dice, ma sarà proprio così? Non si tratta piuttosto di una forza latente che può venire fuori grazie anche a eventi ben precisi?”

Mikal Gilmore (l’intervistatore) gli ha fatto una domanda piuttosto ordinaria sull’americanità delle sue canzoni. Dylan offre una risposta altrettanto ordinaria (“sono canzoni storiche. Ma sono anche biografiche e geografiche. Rappresentano un particolare stato d’animo”). Poi, però, Dylan cambia rotta in modo imprevedibile. “Lascia che ti mostri una cosa”, dice all’improvviso, “potrebbe interessarti. Potresti ricavarne qualcosa di interessante. Potrebbe farti venir voglia di riformulare le tue domande o di pensarne di nuove”. 

A questo punto Dylan si alza, va a prendere un libro, lo mostra a Gilmore. Si tratta di Corri fiero, vivi libero, l’autobiografia di Ralph Sonny Barger, uno dei fondatori degli Hell’s Angels. Il libro è stato materialmente scritto da Keith Zimmerman e Kent Zimmermann (“guarda i cognomi di chi l’ha scritto”, dice Dylan) e, tra le molte vicende narrate, racconta quella di Bobby Zimmerman, un biker morto in un incidente motociclistico nel 1964. Due anni dopo, un altro Robert Zimmerman rischierà la vita in un incidente motociclistico decisamente più celebre, dalle parti di Woodstock.

Dopo aver calcato su queste coincidenze, Dylan dice a Gilmore: “sai come si chiama questa cosa? Si chiama trasfigurazione. Ne hai mai sentito parlare? Puoi mettere queste cose insieme come meglio credi. Puoi cercare di saperne di più dalla Chiesa cattolica, puoi cercare in qualche vecchio libro di mistica, ma è un concetto reale.

È sempre accaduto, in ogni epoca. Nessuno sa a chi è accaduto, o perché. Ma in alcuni casi se ne hanno delle prove reali. Non è una cosa di cui puoi solo sognare, o immaginarla. Non è reinventarsi una realtà, non è la reincarnazione, o come quando uno crede di essere qualcuno vissuto nel passato ma non ne ha le prove. Non è neanche qualcosa che ha a che fare col passato o col futuro. Perciò, quando fai le tue domande, le stai facendo a una persona che è morta da tempo. Stai facendo domande ad una persona che non esiste”.

Questa è “la corda pazza” di Bob Dylan. È un tipo di farneticazione di cui di tanto in tanto il nostro eroe crede sia lecito servirsi per ribadire un concetto che gli sta a cuore. “Io non sono io”. “Non sono lì”. “Non esisto”. “Non so nemmeno come ho fatto a fare ciò che ho fatto, ma nessun altro a parte me avrebbe potuto farlo così”. Meno astruso sembra Dylan quando indaga la propria arte parlando dei maestri con cui ritiene di avere un debito. 

Bob Dylan, chi sei? -

Siamo a Los Angeles. È il febbraio del 2015. Dylan viene insignito del premio MusiCares come Persona dell’anno. “Sono felice che alle mie canzoni vengano tributati dei riconoscimenti”, dice all’inizio del suo discorso, “ma voi sapete che non sarebbero potute arrivare qui da sole. È stato un lungo percorso, c’è voluto del tempo”. Dylan rende omaggio ad alcuni musicisti che considera degni compagni di strada, parla di gente come Johnny Cash, Nina Simone, Jimi Hendrix, Billie Holiday.

Poi va indietro nel tempo: “le mie canzoni non vengono dal nulla. Non le inventai di sana pianta. Ho imparato a scrivere versi ascoltando le canzoni folk. Non facevo che cantare quelle canzoni, mi fecero capire le regole del gioco. Mi insegnarono che tutto appartiene a tutti. Per tre o quattro anni ascoltai gli standard. Andavo a dormire cantando quei brani. Li cantai ovunque: club, feste, bar, caffetterie, festival. Lungo la strada incontrai altri cantanti che facevano la stessa cosa, imparammo le canzoni gli uni dagli altri. Potevo imparare una canzone e cantarla nel giro di un’ora dopo averla sentita una sola volta. Se voi cantaste ‘John Henry’ le volte che lʼho fatto io, anche voi avreste finito con lo scrivere How many roads must a man walk down”.

Frequentare una scuola, amarla ossessivamente fino ad apprenderne i segreti. Mettiti alle calcagna di quelli davvero bravi, magari presto o tardi qualcosa del loro fluido passerà anche a te. Lo dicono in tanti. È questo il segreto di Dylan, in barba a ogni trasfigurazione? Impossibile non citare il Walt Whitman citato a propria volta in Rough and Rowdy Ways: “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono grande, contengo moltitudini”.

E infatti, nellʼintervista a 60 Minutes da cui sono partito, Dylan dice unʼaltra cosa ancora. Si spinge con audacia nei territori dell’infanzia. Parla di un momento precedente a quello in cui decidiamo cosa fare della nostra vita. È il momento in cui la possibilità di diventare poeti (o musicisti, pittori…) si deposita dentro noi come un bulbo sotterraneo prima che ci sia mai capitato di leggere una poesia in vita nostra, o di ascoltare una canzone, o di vedere un quadro in un catalogo illustrato.

Non si tratta del rigido inverno durante il quale Dylan piombò al Greenwich Village per tentare la fortuna (lì c’è per così dire la prima fioritura, non la semina) né dei giorni in cui ascoltava alla radio Elvis Presley rapito da ciò che si poteva fare con una voce, un corpo e una chitarra.

Indietro, ancora più indietro… Per lui, mi sembra di intuire, l’attimo di singolarità potrebbe essere coinciso con l’infanzia a Hibbing, Minnesota. La città mineraria, i cieli rosso ferro, il radiante firmamento di bauxite che schiacciava e al tempo stesso sollevava ruvidamente verso strani campi metafisici la sua immaginazione di bambino: sono i panorami dove Zimmerman, a sua insaputa, ha cominciato a diventare Dylan. Il luogo da cui è fuggito è lo stesso che lo ha determinato. Un’Itaca a cui non fare ritorno.

Il capo opposto di questo inizio sono le canzoni magiche che a un certo punto Dylan si sarebbe trovato a comporre. Non quelle tanto celebri di Freewheelinʼ o di Another Side. Sono i brani incredibili contenuti in Bringing It All Back HomeHighway 61 Revisited e Blonde on Blonde.

“Non so come ho fatto a comporre quelle canzoni”, confessa Dylan a Ed Bradley durante 60 Minutes,  e inizia a canticchiare le prime strofe di Itʼs Alright, Ma (Iʼm Only Bleeding): “Darkness at the break of noon / Shadows even the silver spoon / The handmade blade, the childʼs balloon / Eclipses both the sun and moon / To understand you know too soon / There is no sense in trying”.

Poi (momento da brividi) si ferma un attimo, riprende a parlare, dice: “quella magia… almeno una volta sono riuscito a farlo”.

“E adesso? Non puoi più farlo oggi?”, chiede Bradley.

“No”, risponde Dylan, “non puoi fare qualcosa per sempre. Io lʼho fatto una volta, adesso posso fare altre cose. Ma non posso più fare quello”.

Nessuno ammette volentieri che il momento magico della propria vita (quello in cui eravamo talmente sprofondati nelle cose da non essere lì) è alle spalle, e ascoltare Dylan mentre parla delle canzoni di Bringing It All Back Home come uno scrigno la cui chiave è perduta per sempre, può risultare struggente.

“Il luogo da cui è fuggito è lo stesso che lo ha determinato. Un’Itaca a cui non fare ritorno”.

Si tratta a ogni modo di un destino comune a molti grandi talenti. Per quanti tecnici del suono si possano assoldare, qualora per assurdo Roger Waters e David Gilmour dovessero tornare buoni amici, i Pink Floyd non riusciranno più a incidere Dark Side of the Moon, né un nuovo The Piper at the Gates of Dawn se pure Syd Barrett tornasse dalla morte.

Sapendo allora cosa Dylan “non può più fare”, chiediamoci invece cosa vuol dire che può fare “altre cose”. A quale categoria appartengono queste “altre cose”? Rarità nella rarità, rappresentano ciò che lo distingue dalla già ridotta schiera di eletti che (almeno una volta nella vita) sono riusciti a portare al massimo (forse anche più del massimo) le proprie capacità creative.

Come mai, nella percezione comune, il Bob Dylan attuale gioca in un campionato che non ha nulla a che fare con quello che il nostro immaginario riserva al Mick Jagger o al Paul McCartney del presente? È questo forse che vale la pena domandarsi. La risposta risuona dentro canzoni come Murder Most Foul o Standing in the Doorway. A mia sensibilità, Dylan è insomma una delle poche star capaci di aggirare una tremenda regola dello show business. 

Gli U2 dopo The Joshua Tree. I Cure dopo Disintegration. I Guns nʼ Roses dopo Appetite for Destrucion. Non è il semplice fatto che, dopo un enorme successo, una star tende ad abbassare programmaticamente la qualità della propria musica per paura di scendere sotto le quote di fatturato e pubblico insperatamente raggiunte. Anche su quelli che continuano a fare buona musica, o provano coraggiosamente a sottrarsi ai rituali non di rado buffoneschi della grande popolarità, persino su di loro è come se il successo lasciasse un morso dai cui effetti è impossibile guarire. Non gli rimane addosso lʼaura, gli rimane addosso lʼombra

Bob Dylan, chi sei? -

Certo, ora riempi gli stadi, ti canticchiano sotto la doccia, i versi delle tue canzoni sono citati negli articoli di cronaca o di politica, sei diventato un simbolo riconoscibile, riesci a fare ancora buona musica, e tuttavia (per quanto tu sia in gamba e coraggioso) è chiaro che artisticamente non puoi più muoverti. Sei al vertice della piramide rovesciata che vampirescamente trae linfa dal talento. Ti hanno inchiodato. Persino se ti dovesse capitare di perdere il successo, quellʼombra ti resterebbe addosso. Figuriamoci se il successo continui a cavalcarlo. 

Per Dylan, no. Lui quella libertà lʼha conservata. Non ha dovuto essere coraggioso per riuscirci. Ha dovuto essere folle. Non si è limitato a infilarsi stagionalmente in un guscio che lo proteggesse dagli effetti mortiferi del successo planetario. Lui è passato al contrattacco: al Minotauro ha opposto qualcosa di così strano, bizzarro, abnorme, sgraziato, specularmente mostruoso, da rendere alla fine innocuo il morso della bestia.

“L’incredibile vitalità delle canzoni di Dylan è ottenuta sempre meno con la suadenza e sempre più attraverso la dissonanza, il disequilibrio, l’inciampo”.

Il Minotauro può immaginare che, tra un tour e lʼaltro, tra una sala d’incisione e un’intervista da Oprah Winfrey, dopo averne saggiato il miele proverai a sfuggire allʼartiglio del successo nascondendoti alle Hawaii, o in una casa nel Chiantishire, e allora ti verrà a stanare. Ma la sua fantasia non è grande abbastanza da immaginare che partirai per un tour infinito (oltre trentamila concerti dal 1988), e rimarrà in stato confusionale quando, durante uno di questi show, dopo aver finito di ascoltare un pezzo tutto ferraglia e voce roca che potrebbe essere uscito da una betoniera, qualcuno verrà a dirgli che si trattava invece di Like a Rolling Stone

L’incredibile vitalità delle canzoni di Dylan è ottenuta sempre meno con la suadenza e sempre più attraverso la dissonanza, il disequilibrio, l’inciampo (chi inciampa, trova cose). I live in cui storpia e rende irriconoscibili le sue stesse canzoni: che cosa rappresentano? Sono i contenitori dentro i quali Dylan quelle canzoni le sta tenendo vive, cioè inafferrabili, smangiate, misteriose. Preferiamo la vita con la sua rotolante incompiutezza, o un gruppo di virtuosi che esegue ogni sera lo stesso concerto con immutata (morta) perfezione? 

Nella citata intervista a «Rolling Stone» del 2012, Mikal Gilmore a un certo punto chiede: “Miles Davis diceva che la musica dovrebbe essere ascoltata nel momento in cui viene suonata; è lì che la musica è davvero viva. La pensi così anche tu?”

Dylan risponde: “eh, sì. Le canzoni non vivono in uno studio di registrazione. Puoi dare il massimo, ma c’è sempre qualcosa che manca. E quello che manca è il pubblico dal vivo. Sinatra faceva dei dischi in quel modo; si portava la gente in studio”.

Le canzoni sfigurate, gli album ancora epici, l’ostinato sottrarsi alla macchina della comunicazione, le sparate assurde, il tour infinito. Fanno parte del sistema che Dylan ha escogitato per sfuggire unʼaltra volta al proprio tempo (se viviamo gli anni del pop ottimamente confezionato su Spotify, lui, ancora una volta, non è lì), e conservare qualcosa di molto più prezioso. Luogo fuori posto. Tempo fuori sesto. Sempre in anticipo e in ritardo. Per questo ci viene ancora voglia di inseguirlo come fosse il Bianconiglio.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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