Se siete così ricchi, perché sembrate dei poveracci? - Lucy
articolo

Guia Soncini

Se siete così ricchi, perché sembrate dei poveracci?

20 Luglio 2023

Gli abiti mentono, il cibo è inaffidabile, le opere d'arte contemporanea sono infide: e quindi, come si fa a riconoscere chi è ricco davvero e chi non lo è?

È un pomeriggio d’estate, e in una via del centro d’una città di provincia mi passa davanti una signora in ciabatte. Non dico “signora” per usare un sinonimo gentile di “donna”, lo dico con la specificità con cui l’avrebbe detto mia nonna: per intendere “donna di buona famiglia”. Solo che, ai tempi di mia nonna, la vita era più facile: se tuo padre era un autista eri povero, se tuo padre aveva un autista eri ricco, e le signore non andavano in giro in ciabatte. Ai tempi di mia nonna, ma pure a quelli di mia madre, ma pure ai miei, nei vestiti si vedevano i soldi: “Voi tenete un cappotto cammello che al maxiprocesso eravate ’o cchiù bell’” (Don Raffae’, 1990). 

Guardo le ciabatte della signora, la cui fascia ha il logo Dior che me ne fa sapere il lussuoso prezzo, e che però a parte quel logo sono proprio identiche spiccicate a quelle che si usavano nelle piscine in cui portavano noi bambini degli anni Ottanta a imparare a nuotare. Guardo le ciabatte della signora e penso alla categoria di esseri umani che in questo secolo fa il lavoro più usurante: i concierge degli alberghi di lusso. Coloro la cui principale dote professionale è capire chi abbiano di fronte: sei un cliente con cui devo profondermi in gentilezze, o un imbucato che devo essere fermo nell’allontanare prima che si metta a chiedere la carità ai clienti? Una volta, quando i vestiti erano un linguaggio condiviso, le ciabatte sarebbero state ciabatte. 

The Social Network è la storia di come Mark Zuckerberg inventa Facebook, inventa la monetizzabilità della sociopatia, inventa il nuovo capitalismo. È un film del 2010, che dal punto di vista della rappresentazione di sé che dà la ricchezza significa: circa sette secoli fa. A un certo punto, in una scena in cui dovrebbe indispettire un potenziale investitore, Zuckerberg si presenta a un appuntamento in vestaglia e ciabatte. Di gomma, Adidas: quelle che fino a quel momento si usavano davvero in piscina, quelle che fino a quel momento nessuno si sarebbe messo per strada.

Sapete già com’è finita: che le (orrende) ciabatte di gomma Adidas sono diventate, mi scuso per l’orrendo linguaggio modaiol-doppiaggese, iconiche. Che, per strada o nella hall del Four Seasons, è diventato impossibile distinguere uno studente fuori sede che cerca un buffet da cui nutrirsi a scrocco da un azionista di multinazionale che sta andando a una riunione per la ricapitalizzazione. Che i poveri concierge si sono dovuti specializzare in scrutinio rapido e impercettibile dei dettagli, come in quella scena di Una poltrona per due in cui Jamie Lee Curtis crede alla millantata milionaritudine di Dan Aykroyd, uscito dalla galera vestito da barbone, solo perché ha la manicure fatta. Che ai marchi da ricchi è toccato mettersi a fare ciabatte, almeno il povero concierge del Four Seasons se non riesce a ispezionare le pellicine può far conto sui loghi. Anche se, ovviamente, nessun vero ricco usa loghi riconoscibili da noialtri normali. 

I due testi di formazione per capire cos’è successo alla rappresentazione pubblica della ricchezza in questo secolo sono uno sceneggiato televisivo americano ideato da un inglese, e una canzone eseguita a Sanremo da un comico pugliese. Succession e Poco ricco vi dicono tutto quel che vi serve sapere dell’esibizione d’appartenenza a un ceto in un secolo che fa finta che la classe sociale sia una categoria secondaria. 

“Una volta, quando i vestiti erano un linguaggio condiviso, le ciabatte sarebbero state ciabatte.” 

Succession inizia nel giugno 2018. Mancano quasi due anni a quel punto di svolta dell’esistere in pubblico che è la pandemia. Checco Zalone canta Poco ricco al Sanremo 2022. Sono a quel punto due anni che abbiamo disimparato a stare scomodi, e che guardiamo case di gente che credevamo ricca, non avendo abbastanza studiato Francis Scott Fitzgerald. Ragadi, il rapper poco ricco di Zalone, ha delle coordinate precise (“Ti senti prigioniero nel tuo quartiere-galera, perché la vita non ha senso a tre chilometri da Brera”: a tre chilometri da Brera c’è CityLife, il dormitorio costoso per arricchiti senza gusto della nuova Milano); ma è anche un personaggio universale. 

Se siete così ricchi, perché sembrate dei poveracci? -

Scott Fitzgerald aveva provato a spiegarcelo: quelli molto ricchi sono diversi da voi e da me. Non intendeva: da noi poveri; intendeva: da noi poco ricchi. Da noi che, come Ragadi, ci illudiamo che la differenza di classe sociale sia quella tra Zara e Prada. Il seminario sui poco ricchi era a quel punto in corso da due anni. Due anni di collegamenti Zoom in tv, due anni di foto su Instagram non dai privé delle discoteche con magnum e taffetà, ma da casa. Dalle case di quelli che credevamo ricchi, e i cui dettagli potevamo però ingrandire. Avevano, santiddio, le tapparelle. Avevano i copritermosifoni. Avevano tante di quelle piccole cose di pessimo gusto che abbiamo passato la pandemia a consolarci: sarei un ricco migliore di te. Continuavamo a catalogarli come ricchi anche se in luoghi dalla nostra coscienza così oscuri da risultarci spaventosi lo sapevamo che non era mica quella lì, la ricchezza. 

È una lezione che perlopiù ci rifiutiamo di imparare, perché il principio dell’invidia richiede vicinanza: se non posso schiacciare il naso sulle vetrine della pasticceria perché la pasticceria sta nell’iperuranio, vengono meno tutte le dinamiche sociali (per non parlare della letteratura).

È la primavera del 2012. Sto intervistando Miuccia Prada. La sua segretaria si affaccia e fa presente che stiamo chiacchierando da troppo tempo, dovrebbe già essere andata via da dieci minuti, deve andare a Roma. Una delle mie personalità si scusa, “Le sto facendo perdere il treno”, un’altra pensa “Ma quale treno, cosa dici”, una terza corregge a voce alta “Cioè, l’aereo”, e una quarta vorrebbe sotterrarsi: Miuccia Prada sorride con la magnanimità dei non poco ricchi, senza umiliarmi svelandomi di quanti aerei privati è proprietaria, e da quanti decenni non prenda un mezzo di linea come noi poco ricchi che già ci esaltiamo se riusciamo a comprare scontato un biglietto di prima classe, e una volta lì possiamo instagrammare lo champagne omaggio. Te la vedi una vera ricca bere uno champagne di cui non ha scelto l’annata? Te la vedi una vera ricca viaggiare su un aereo sì privato ma a noleggio, come noialtri da piccini andavamo nella multiproprietà a Pinarella di Cervia? Te la vedi sedere su poltrone su cui sono stati culi non di famiglia? Te la vedi una vera ricca instagrammarsi? Te la vedi una società abituata a fare la lotta di classe nei commenti social sotto le foto degli aerei privati a noleggio essere capace di distinguere tra i veri ricchi e i Ragadi? 

“Te la vedi una vera ricca bere uno champagne di cui non ha scelto l’annata?”

La mia ridicola idea che Miuccia Prada prendesse la executive del Frecciarossa, magari con un biglietto in offerta, e mangiasse i tramezzini omaggio con la voluttà con cui lo faccio io sentendomi plutocrate a tariffa esclusiva di massa, la mia ignoranza rispetto ai ricchi veri l’ho rivista in una ricostruzione di una delle sceneggiatrici del gruppo di lavoro di Succession. Avevano finito di scrivere la prima stagione, o almeno così credevano. La mandarono a Hbo, la rete americana che avrebbe trasmesso lo sceneggiato. Quelli rimandarono indietro i testi con il nome d’un consulente per la ricchezza di cui gli autori si sarebbero da lì in poi dovuti avvalere.

Cosa fa un consulente per la ricchezza? Ti dice di non mettere un giaccone imbottito a quelli che Tom Wolfe chiamava i padroni dell’universo, perché avere patrimoni equivalenti ai prodotti interni di nazioni medie significa non conoscere il freddo: passare da un confortevole ambiente riscaldato all’altro, da una limousine a un aereo privato, mica sentirsi benestanti aspettando una Uber all’angolo. Ti dice che le borse grandi le portano solo le piccoloborghesi che devono tenerci dentro i tacchi mentre vanno in scarpe comode a prendere il metrò: mi piace pensare che la scena in cui Tom liquida un flirt di Greg perché ha una ludicrously capacious bag venga dalle note del consulente sul non far portare mai una borsa ridicolmente capiente a una vera ricca. E ti dice, il consulente, che a tavola, al desco dei ricchi, la padrona di casa non dice “Volete altri broccoli”: mica è tua nonna al paese, preoccupata di sembrare una che non ha abbastanza da mangiare per gli ospiti. 

Se siete così ricchi, perché sembrate dei poveracci? -

A noialtri, che ci siamo formati con Giovanni Verga e non con Francis Scott Fitzgerald, l’unica ricchezza presentabile è sempre sembrata quella ereditata: quello che ha fatto i soldi, in famiglia, dev’essere abbastanza lontano nel tempo da non poterne noi vedere l’avidità, la ridicolaggine, le piccinerie. Vuoi mettere Gianni Agnelli e Mazzarò, che diversa fotogenia.

Però c’è una cosa che accomuna Agnelli (cioè: il ricco di terza generazione che non ha mai dovuto sapere il prezzo di niente) e Mazzarò (cioè: il contadino arricchito che impazzisce all’idea d’essere separato dalla sua roba): il disprezzo per il cibo. Le buffe cronache di chiunque (da Alberto Sordi in giù) fosse stato a pranzo a casa Agnelli, un posto in cui il cibo pareva un incomodo, non sono poi così diverse dal pane e cipolla di cui si nutre Mazzarò.

In Vestivamo alla marinara, Susanna Agnelli enfatizza la propria disperazione per quei giorni in cui, nei turni coi quali ai bambini spettava scegliere il dolce, toccava a Maria Sole: che per inerzia sceglieva sempre la crème caramel, “che non piace a nessuno”. Redarguita, Maria Sole faceva spallucce indifferenti: al momento della scelta, non le veniva in mente altro. Impensabile per noialtri normali, che a scuola cambiavamo umore a seconda che per merenda ci fosse la nutella o la marmellata. 

La distinzione è del 1979. Le pagine sui modi diversi di stare a tavola delle diverse classi sociali sono splendide, e dopo averle lette non vorrete mai più offrirvi di cambiare il piatto tra una portata e l’altra ai vostri ospiti per timore di sembrare la piccoloborghese che vuole “fare sfoggio del suo vasellame (cosa che le viene concessa se qualcuno gliel’ha appena regalato)”.

Lo sprezzo del cibo già allora, quando la fotogenia è un problema meno pressante di oggi, è probabilmente legato al corpo: a fine Novecento se sei ricco ci si aspetta tu sia magro, mica è il Cinquecento, quando sborsarti la pancia dai pantaloni dimostrava che potevi permetterti pasti assortiti.

Pierre Bourdieu descrive borghesia e industriali che evitano di “buttarsi sulle portate”, che almeno da Miseria e nobiltà in poi è il gesto che svela che sei povero. Ma c’entra anche un’alimentazione legata all’aspetto che hai, che vuoi avere, che devi avere. Gli americani suggeriscono di vestirsi non per il lavoro che si ha ma per quello cui si ambisce; nel Novecento, un francese aveva già capito che anche l’alimentazione, e il modo in cui dà forma al corpo, hanno a che vedere con lo status sociale e le ambizioni d’ascesa: “Il corpo designa non soltanto la posizione che si occupa in un determinato momento, ma anche la traiettoria”. 

Certo, non tutti i digiuni sono uguali tra loro, alcuni digiuni sono meno sofisticati di altri. Dalle parti di Verga si disdegna il cibo per risparmiare e da quelle degli Agnelli per sovrano disinteresse per un vizio minore qual è la gola: ma comunque il consulente per la ricchezza aveva ragione. E infatti chi parla di cibo in Succession? Gli abusivi. Tom, il genero provinciale e arrampicatore, che vuole insegnare come mangino i ricchi, portandolo in ristoranti stellati, a Greg, il nipote cresciuto con la parte povera della famiglia e che quindi non sarà mai davvero uno di loro anche se ne ha il sangue. 

A Londra c’è una catena di locali per la pausa pranzo che si chiama Prêt-à-manger. La sceneggiatrice conclude la storia del consulente che li sgrida per i broccoli e i giacconi col dettaglio perfetto della loro rassegnazione al non saperne niente di ricchi: “Noi eravamo già contenti che ci rimborsassero i tramezzini di Prêt”. Poi hanno imparato, lo si capisce dal cappellino dell’ultima puntata. Ma prima di arrivarci dobbiamo parlare della mia preferita fuori da Succession, nel mondo reale delle immagini sul telefono: una quindicenne di cui spio la vita da quando era in quinta elementare – che messa così mi fa sembrare una pervertita, ma è solo che seguo l’Instagram di sua madre. 

La madre della ragazzina è un’arricchita parecchio esibizionista, di quelle che vivono col cellulare in mano e paiono piacersi moltissimo. Nelle sue continue apparizioni su Instagram, a casa o in barca, in città o a Cortina, la bambina era una figuretta schiva sullo sfondo.

A un certo punto la famiglia andava al saggio di danza di fine anno della piccina, ed era facile giocare agli psicologi dilettanti: la bambina neanche provava a fare le piroette che eseguivano le sue compagne; era – mi pareva evidente: anche in me, come in tutti, dorme un sonno leggerissimo una saperlalunghista che conosce l’inconscio altrui – la classica figlia d’una donna senza vita privata: una bambina determinata alla riservatezza estrema, una bambina che giura che non sarà mai come l’adulta di casa. Poi, verso la fine delle scuole medie, tutto è cambiato.

La piccina si è aperta i suoi bravi profili social, sui quali fa tutto ciò che fa la sua generazione (e, tragicamente, anche quella di sua madre): boccucce, mossette, inquadrature donanti di luoghi di villeggiatura. Ora, da brava psicologa dilettante, dovrei dirvi che il cambiamento è avvenuto col passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con l’età dello sviluppo, con la scoperta della propria sessualità e del potere a essa legato. Macché.

“Non tutti i digiuni sono uguali tra loro, alcuni digiuni sono meno sofisticati di altri”.

La cosa strana e interessante che è successa a una ragazzina che vive con una telecamera nel telefono – e quindi attraverso lo specchio – è che, grazie alle piattaforme sulle quali può mostrare com’è, ha notato come sono le altre, e ha capito una cosa piccola ma fondamentale: essere ricca è un carattere. Non ti serve essere la più bella del ballo, se puoi fotografarti al Ritz di Parigi. Non ti serve avere la faccia giusta, se hai la borsa giusta. Non ti serve il primo piano impeccabile, se hai uno sfondo invidiabile. La quindicenne che nel 2023 fonda il proprio potere seduttivo sull’inquadrare accessori di Chanel e macaron costosi, pomeriggi in yacht e colazioni in camera su vassoi d’argento, quella quindicenne lì incarna il concetto che Courtney Love aggiunse a Bad Romance. Nel 2010 la signora Love, a Parigi ospite della sfilata di Givenchy, canta la canzone di Lady Gaga su una relazione tormentata mettendoci dentro un verso suo, un verso di spirito del tempo: “Oh, come on, fuck me, just fuck me: I’m rich”. 

Ma, nell’epoca della riproducibilità in cui le scandalosamente costose ciabattine di Hermès con cui ci illudiamo di poterci dimostrare (poco) ricche hanno imitazioni talmente a buon mercato che l’altro giorno ho abbassato gli occhi nel salone in cui mi stavano facendo la manicure e ho notato che non c’era una delle ragazze che non le indossasse, a dirmi che sei ricca bastano ancora le cose di marca, per riconoscere le cui imitazioni economiche ci vuole un occhio più allenato di quello di Jamie Lee Curtis per la manicure? I vestiti possono mentire da secoli: è probabile che la squillo di Una poltrona per due la maggior attendibilità della manicure l’avesse imparata da quella scena di Via col vento in cui Rossella è vestita con le tende di velluto, ma Rhett capisce il bluff economico dalle cuticole screpolate: “Son mani da signora, queste?” “La settimana scorsa sono andata a cavallo senza guanti”.

I vestiti bluffano quando sono le tende di Tara, figuriamoci quando sono il Gucci che compri tale e quale dagli ambulanti. E infatti un altro lascito di Succession è la nuova ossessione del mondo della moda, le due parole ripetute con un automatismo che non può che essere un crampo del gusto e dell’intelletto: quiet luxury. Quiet luxury significa: non si vede che li hai spesi. 

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Meglio: lo vede il concierge con l’occhio allenato, ma tua zia di provincia ti chiede se non potevi fare lo sforzo di venire a pranzo vestita un po’ meglio, ignara che la tuta che indossi sia in cashmere e costi come un’utilitaria. 

La ciabatta di Dior della signora di quel pomeriggio è un luxury semi-quiet: c’è pur sempre il logo. Alla fine del secolo scorso i loghi erano roba così da arricchiti di periferia che in Inghilterra c’era un nome sprezzante per dire coloro che andavano in giro facendo pubblicità gratuita ai marchi perché indossavano stoffe magari di falsari ma riconoscibili, stampate con le L e le V, o coi quadrettini di Burberry: chav.

Ma alla fine del secolo scorso i telefoni non facevano le foto, e c’era meno bisogno d’immediatezza identificabile: se la tua tuta di cashmere non ha almeno un logo sul taschino, su Instagram nessuno si accorgerà che sei ricco; se nessuno sa che sei ricco, sei ricco davvero? 

Il più quiet dei luxury sta nell’ultima puntata di Succession, nella scena che si svolge a Barbados, a casa della madre degli ultimi tre figli di Logan. Naturalmente nessuno ci dice che è Barbados, perché il vero quiet luxury di Succession è essere un prodotto non visto dalle masse, e quindi non bisognoso di prenderle per mano e spiegar loro i dettagli: se Barbados la riconosci dalla vegetazione bene, altrimenti pazienza. È, tra l’altro, un’ennesima scena di disprezzo del cibo, coi figli che sbeffeggiano il formaggio cui il patrigno tiene tanto. Ma quel che ci interessa ora è il cappellino di Kendall.

In Empire state of mind, canzone del 2009, Jay Z (primo miliardario tra i rapper, e anche primo indeciso a mettersi e togliersi il trattino dal nome d’arte, col risultato che ora non si sa più come scriverlo) rappa “ho reso il cappellino degli Yankees più famoso di quanto possano fare gli Yankees stessi”. Gli Yankees sono la squadra di baseball del Bronx, e il loro cappellino è quasi un no logo dei loghi: blu, con un segno grafico bianco, molto più quiet di molti cappellini con visiera in circolazione.

Un rapper – gente famosa per le catene d’oro – che rende famoso un oggetto minimalista? Quiet ma non luxury; il cappellino degli Yankees può comprarlo chiunque per meno di trenta dollari, il gioco è quello contrario: è un tizio miliardario in dollari, uno coi quadri di Basquiat in tinello (almeno così dice la leggenda: come tutti i molto ricchi, Jay Z non instagramma il tinello), che usa un oggetto abbordabile dal suo pubblico. 

Il cappellino che ha Kendall nella scena della cucina a Barbados non è riconoscibile dal grande pubblico, giacché non è acquistabile dal grande pubblico. Non lo riconoscerebbe Jamie Lee Curtis, ma forse un bravo concierge sì. Te lo danno in omaggio solo se giochi a golf al Sandy Lane, il più lussuoso albergo di Barbados. Ovviamente in quattro stagioni di Succession nessuno è mai stato visto giocare a golf, giacché giocare a golf è un po’ come possedere aerei privati: se sei davvero ricco diamo per scontato tu lo faccia, non c’è mica bisogno che ce lo mostri. Fino a un mese fa ignoravamo pure che i ricchi noleggiassero per diletto sommergibili per andare a profondità buie a non vedere relitti di naufragi ricoperti di alghe.

L’incidente ha sviato l’attenzione dall’unico interrogativo che mi premeva: non funziona che più sei ricco più hai paura di morire? Sarà l’influenza di Mazzarò, ma ho sempre pensato che i veri ricchi siano quelli che nel seminterrato hanno la macchina per la Tac e quella per la risonanza, e possono dare sfogo a tutta la loro ipocondria e venire rassicurati ogni giorno da professionisti della medicina che a noi darebbero udienza forse tra un anno circa il fatto che no: neanche oggi moriranno. Tutti questi macchinari e consulenze e check-up e controlli maniacali, e poi vai a rischiare la vita là sotto? Però, certo: come luxury è più quiet che prenotare il prossimo razzo per Marte (e altrettanto rischioso: è più da veri ricchi organizzarsi per non morire o sfidare la morte?). 

Non vorrei, col dualismo tra Ragadi e Gianni Agnelli, aver dato l’impressione che in Italia non esista Logan Roy: non esista l’arricchito della cui recente miseria non c’è memoria, sepolta da spessi strati di lusso silenzioso. Correggerò questa eventuale impressione con una cosa che Succession non fa mai, e noi mortali sì: un flashback. 

Sono gli anni Ottanta, e un ragazzo di provincia si trasferisce a Roma con sogni di fortuna. Una delle prime con cui fa amicizia, un’artista agli inizi quanto lui ma più introdotta di lui, lo porta a via delle Mantellate, nello studio di Mario Schifano, dove il via vai è continuo. È pieno di ragazze e ragazzi, aspiranti qualcosa, che dipingono. Dipingono nella cifra del maestro, giacché per gli aspiranti utilizzatori d’ingegno e d’ispirazione ancora non s’è trovato modo migliore, per cominciare, che copiare. A fine giornata il maestro passa, e ai quadri di suo gradimento concede il massimo onore: appone la sua firma. Il ragazzo di provincia chiede se può provare anche lui: può.

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Una decina d’anni più tardi il maestro morirà, e tutti quelli che erano passati dal suo studio, cioè praticamente chiunque avesse bazzicato la Roma culturale di quegli anni, avranno un ricordo da raccontare, un’immagine, una foto. Persino io ne ho un paio che mi scattò: sono vestita d’acrilico, e ciò demolisce ogni possibilità di revisionismo autobiografico, stronca la mia opportunità di raccontare il mio passato come quello d’una ragazza ricca, diversa da voi – rammollita e cinica, diceva FSF. 

A Roma c’è anche un altro ex ragazzo di provincia. Non è venuto a Roma per fare fortuna nei mestieri intellettuali, lui: è venuto a Roma per fare i soldi, e ci è riuscito. Nessuno sa bene come, ma non è importante. L’importante è che la sua vita, ora, è piena di soldi. Non con tutti i marchi si può bluffare, quelli da parete sono più selettivi di quelli da indossare: i soldi si vedono, in casa sua, dall’ostensione in ogni stanza di quella truffa per multimilionari che è l’arte contemporanea, un arbitrio che decide che uno squalo impagliato non è solo uno squalo impagliato, un letto sfatto non è solo un letto sfatto, uno squarcio su una tela non è solo uno squarcio su una tela. 

Un giorno di questo secolo, l’intellettuale di provincia viene invitato a cena dal neomoltoricco di provincia. Cenano seduti tra un Fontana e un Burri, l’intellettuale passa la cena (scarsa e cattiva: non sarà certo uno che ha fatto i soldi così di recente a permettersi di violare la tradizione riguardante i ricchi e il cibo) a fare i conti di quanti milioni di euro valga la stanza in cui sono seduti. Poi la cena finisce, e il neoricco porta gli ospiti a fare una visita guidata alle sue opere, a quei fondi d’investimento appesi alle pareti. E, quando arrivano alla stanza in cui c’è quello Schifano, l’ex ragazzo divenuto intellettuale lo riconosce subito. Quella palma un po’ più scura di quelle del maestro, e in basso, minuscola ma non nascosta, quella bandierina che ha dipinto acciocché si sapesse che quel quadro lì, quasi uguale a tutti gli altri, l’aveva dipinto lui. Guarda l’ex povero divenuto plutocrate, e non sa che dire, e sa che un segreto è un vantaggio enorme: lui sa una cosa che il più ricco di Roma non sa, lui sa che quel mucchio di banconote è falso, lui sa e ha anche le prove. In provincia non si chiede “quanto l’hai pagato”, e quindi non glielo chiede. Annuisce mentre qualche altro ospite dice che si vede proprio la mano del maestro. La mano invisibile del mercato, dice cercando un tono serio. Il più ricco di Roma finge di capire la citazione. E a lui, piangendo, viene da ridere. 

Guia Soncini

Guia Soncini è giornalista e scrittrice. È editorialista de «Linkiesta».  Il suo ultimo libro è Questi sono i 50. La fine dell’età adulta (Marsilio, 2023).

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